sabato 5 dicembre 2009

VINCENZO CARLOMAGNO - IPOTESI PER UNA LETTURA DELL'OPERA PITTORICA
























di
FRANCO MORSELLI, febbraio 2008


Gettare uno sguardo.

Nei sei pannelli che compongono il quadro " La doppia natura", del 2007, nell’angolo in alto a sinistra, nel punto che dovrebbe rappresentare il nostro abituale inizio di lettura, il profilo scuro di una colomba tenta il volo sullo sfondo di una mano destra perentoriamente alzata. È l’immagine di un divieto, quasi ne sentiamo il suono, secco come un colpo di martello, e immediatamente dentro di noi avvertiamo che il volo della colomba è destinato a finire presto o che, perlomeno, le attese insite in quel battito d’ali andranno deluse. È un inizio-conclusione che non lascia adito a speranze. La fine del percorso è già anticipata nel suo esordio, come in quei labirinti medioevali graffiti sui pavimenti delle cattedrali ove, nonostante la lunghezza del corridoio compresso dentro un cerchio perfetto, in realtà era vietato tanto scegliere che perdersi, e la matassa solo apparentemente aggrovigliata conduceva il simbolico pellegrino ad un unico punto ineluttabile. Ma, così come nel medioevo ciò che contava non erano l’inizio e la fine, ben noti a ogni fedele, ma il viaggio dell’anima tra i due estremi, così anche nell’opera di Carlomagno, come in qualsiasi opera, il "perché" da ricercarsi risiede nell’articolazione del cammino, nel linguaggio, anche se tra l’α e l’ω della sua pittura quel colpo di martello anticipato getterà costantemente la sua sinistra luce.
Un ostinato residuo del modo in cui ad ogni coscienza appena formatasi si presenta il mondo permane nel primo gesto del pittore che si guarda intorno: gettare uno sguardo. La colorata indeterminatezza che con contorni quasi psichedelici deve presentarsi alla neonata pupilla rivive nell’inestricabile caleidoscopio di concetti sedimentati che l’adulto pittore cerca di fissare su un supporto. Soverchiato dall’esperienza personale e dalle stratificazioni storiche che ontologicamente ciascuno di noi si porta dentro, il pittore sincero deve accontentarsi di quel primo sguardo. Nelle tavole raccolte nel catalogo del 1998 il primo sguardo è l’orizzonte, e la linea retta ne è il morfema primitivo. L’incipit pittorico inizia come chiarezza, razionalità geometrica. Un quieto segmento taglia in due il foglio separando due grandi masse di colore ma, nella semplicità del primo sguardo che cerca la pace del lago, del mare, della sconfinata pianura, il conflitto è già prepotentemente in atto. Il segmento è ordine ma è anche ferita. Un’omogeneità indifferenziata ha lasciato il posto a una profondità ancora lungi dall’essersi strutturata. Due mondi, quello del cielo e quello della superficie terrestre, fremono per la voglia di popolarsi. Già pensieri senza direzione * si addensano, e l’orizzonte non è ancora del tutto nato che già si slabbra. E il pittore, che della geometria ha fatto il suo mestiere, avverte tutta la transitorietà di quel supporto. L’imperfezione del gesto non è l’incidente di una mano incerta, ma l’urgere di una materia che non si lascia incasellare: Urano e Gea non possono essere posti l’uno accanto all’altro senza che l’intero universo non ne risulti irrimediabilmente sconquassato. Nella serie dei bellissimi "Sunset", "Dawn", "Paesaggio", il colore si inturgidisce sotto e sopra l’orizzonte. La terra si corruga e il cielo si incupisce, indocili forme di vita accendono continuamente nuovi drammi. In alcuni "Sunset" sembra che fragili correnti migratorie attraversino la pianura. Nel caos che la ferita ha aperto ogni dimora è incerta e l’occhio che si è aperto ne ha colto tutta la precarietà. Alla fine però, già in quel primo ciclo del 1998, qualcosa si placa. Nella serie dei "Trees" l’orizzonte, medium della crisi, relegato ai bordi della tavola, o scomparso del tutto, non fa piu paura. L’arco che la vita dell’orizzonte descrive in quegli anni nelle tavole di Carlomagno: quiete, spasmo, convulsione, quiete, è l’arco di un ciclo musicale. Ricorda da vicino un ciclo di Lieder, o l’accoramento delle sinfonie di Mahler. Il mezzo artistico della pittura, eminentemente sinottico, si rivolge al tempo, unico veicolo per lo struggimento del ricordo, e vi si immerge. Ciò che sembrava immobile tumultua, ciò che sembrava muto è capace di ruggire, e la tristezza sta nell’illusione con cui pieni di fiducia si aveva aperto gli occhi. Colui che vede sa, per la prima volta, di essere solo al mondo.


L’analisi illusoria.

La forma in cui approda l’esperienza pittorica di Carlomagno nelle tavole di quegli anni denuncia una forte ascendenza Klimtiana, o più generalmente Secession. L’attenzione che si concentra sotto l’orizzonte e i particolari in primo piano che assumono un’autonomia quasi decorativa rimandano al Klimt dei paesaggi dipinti tra il 1898 e il 1903. Lo sguardo che ha avuto paura della prima occhiata esorcizza il panico concentrandosi sul dettaglio e trasfigurandolo. È il momento dell’analisi, che è la prima riflessione sulle cose. Ora ogni referente figurativo, analizzato nel dettaglio, svela la geometria che la nascita del mondo, nel suo sconquasso, ci aveva fatto dimenticare, e il mestiere, l’a priori dell’io-occhio Carlomagno, imbriglia il visibile in una realtà apparentemente doma. Il qualcosina in più del mero strumento tecnico che la geometria gli fornisce è, per Carlomagno, la bidimensionalità. Nasce con queste opere, tendenti per loro natura al quadrato, forma per eccellenza al di sopra delle parti, una costante dell’opera dell’artista. Il dettaglio astratto è un’estrapolazione da un mondo che si sa di non poter governare. È un attimo illusorio in cui l’io osservante crede di trovare pace. La superficie è, nel mestiere del "geométra", la percezione di un "in sé" depurato della sua stessa lotta, la tranquilla proiezione di un dramma le cui fiammate non ci scaldano.Ma è anche velo, che nel dileguarsi della nebulosità in cui svaporano i contendenti ci ricorda sommesso che la contesa ha un luogo. Sottintendendo la terza dimensione come un altrove che si arriccia sotto le prime due, come in una ringhiera di ferro battuto, in una filigrana, o in un lavoro di oreficeria a sbalzo, il velo filtra un intero palcoscenico di eventi che la crudezza di una prospettiva rigorosa non riesce a rappresentare. Dall’Art Nouveau in poi, l’enigma di una quarta dimensione aggrovigliata tra le prime tre viene risolta in pittura semplicemente eliminando la terza. In quelli che sono chiamati gli stili decorativi i rapporti tra le parti del dipinto tendono a diacronizzarsi, mentre il velo che ne amalgama i contrasti diventa il vero medium del dettaglio. E il dettaglio si organizza, nell’Art Nouveau come in questa fase dell’opera di Carlomagno, in forme e campiture che, al limite di rapporti aurei e istintive proporzioni pitagoriche, potremmo frettolosamente definire "rigorose". Ma la rigorosità in arte non esiste, mentre esiste, per l’occhio del viandante, l’eterna ricerca del rifugio, di quell’attimo di disimpegno e di riposo in cui la formica è un mondo.Ma i veli, siano quello delle Grazie, siano quello di Maya, esistono solo per essere squarciati, e l’apparizione della dea nuda porta di nuovo, come la lotta nel mondo sulla quale si erano socchiusi gli occhi, al dilaniamento dell’io osservante. Il riposo di Carlomagno ha avuto luogo tra strade umili e mucchi di foglie, tra tracce di ruderi macilenti i margini insostenibili di un canale, ove c’è stato il tempo di analizzare dettagli di emozioni e indugiare nell’ordinata calma delle tue labbra. Ma il tempo è già trascorso. La bidimensionalità analitica non salva. C’è sempre un particolare in cui sprofondare per scoprire ancora un mondo senza pace. Nell’ottantunesimo dei Cantos di Ezra Pound, il verso "La formica è un centauro nel suo mondo di draghi" potrebbe essere stato scritto dal Carlomagno di questa fase.La tenue leggerezza del velo non ci salva dai nostri stessi cani che ci aggrediscono per riprecipitarci in una nuova lotta che a malapena avevamo sospettato, mentre la dea ha già volto altrove il suo sguardo indifferente. L’attimo in cui ci si era fermati ad osservare il microcosmo dilegua come era dileguato il passo che l’aveva preceduto.


La critica illusoria.

Nel 2007 Carlomagno dipinge, oltre alla "Doppia natura", un secondo pannello di grandi dimensioni: "Il tempo è luogo di archeologie". I due pannelli stanno in stretto rapporto tra loro, rappresentando l’uno l’apparente antitesi dell’altro. L’ordine di lettura comincia da "Il tempo è luogo di archeologie". È un titolo da prendersi alla lettera e riassume il percorso di Carlomagno dopo l’abbandono della resa geometricamente stilizzata dei dettagli. Tutti i termini del titolo: "tempo", "luogo", "archeologie", hanno un’importanza determinante per questa fase. L’esperienza pittorica della quale siamo spettatori si snoda nel tempo con una struttura simile a quella di un romanzo o di un poema, ed è quindi nello scorrere del tempo che raccoglie e si fa luogo di ciò che nel tempo stesso si deposita. L’esposizione di queste tracce mnestiche si snocciola come una passeggiata archeologica in un museo o in una città morta, dove ogni oggetto che si incontra grida al visitatore sensibile la sua storia, ovvero il dramma che lo ha condotto fino ai nostri occhi. All’inizio la maceria, il reperto archeologico, nella sua apparenza viva, si presentava come simbolo. Nel suo viaggio attraverso l’illusione Carlomagno ne ha abusato. Ferito da una realtà naturalistica indifferente, se non ostile, verso colui che la interroga con passione, l’io osservante e viaggiatore ha cessato, per un attimo, di essere narrante, e si è rinchiuso nel luogo definitivamente circoscritto del collezionismo. Il collezionista, a differenza dell’artista, è uno che vive di certezze. Il suo linguaggio semplice, ma pieno di presunzioni di onnisignificatività, è fatto di pezzi raccolti, oggetti dati come sono date le parole, grumi di contenuto il cui significato, così universalmente valido da risparmiarci una pericolosa articolazione del pensiero, si condensa nel simbolo. Nella serie "Rigorose semplificazioni" il simbolo appare, come il titolo stesso suggerisce, con la chiarezza di un’icona. Non sfuggono alla stessa sorte i " Paesaggio italiano" e i "Privi di sostegno". La colomba, il più trito pittogramma della pace ecumenica, e la città murata, l’emblema meno politically correct in epoca di globalizzazione e xenofobia, hanno la rassicurante disponibilità di un abito pret a porter. In una tavola della serie "Formale", il cuore stesso della colomba bypassa ogni ridondante mistificazione per offrirsi ancor vivo e palpitante al nostro sentimentalismo carnivoro. La fredda classificazione dell’oggetto ha orrore di se stessa e rifiuta di astrarsi dalla prassi. Rigorosa semplificazione risulta, alla fine, la carta da gioco gettata sul tavolo verde al posto dell’offerta deposta sull’altare, il presunto asso piglia tutto con cui l’artista si illude di chiudere la partita. Il simbolo raccolto con la nonchalance un po’ ansiosa del collezionista riacquista qui il suo significato più profondo: coagulo di possibilità umane per esorcizzare minacce esterne. E l’artista torna a essere mago, torna a essere colui che di quegli esorcismi si è fatto vaso e ricettacolo. La critica alla natura passa attraverso il mago, che la conosce e la domina, mentre le forme della conoscenza e del dominio sono i simboli che il mago ha collezionato durante il suo cammino. È un equilibrio fragile, basta un attimo perché i simboli tornino a essere reperti. L’attimo fatale è il disincanto. L’opera di Carlomagno "Il tempo è luogo di archeologie" sancisce gli estremi della parabola reperto-simbolo-reperto.È un’opera complessa che, come quelle successive, racchiudendo e riassumendo tutte le tematiche dell’artista, va analizzata a fondo. Innanzitutto gli oggetti: il collezionista critico non ne ha dimenticato uno. È interessante, quasi divertente, cercarli tutti. La natura, dopo essersi lei stessa ridotta a simbolo, è entrata a far parte degli oggetti. Manca l’orizzonte, come se nel suo progressivo avvicinarsi al mondo sconvolto delle prime tavole Carlomagno, squarciato il velo di un ragionevole ottimismo, fosse penetrato nel sottomondo brulicante e primordialecon l’acutezza di un biologo al microscopio. Ma tra gli oggetti, case, animali, vegetazione, sono spuntati nuovi personaggi e le facce, gli atteggiamenti, i gesti, ribadiscono ancora una volta che per l’io errante non v’è salvezza. Questa variante in chiave contemporanea dei dannati che si accalcano sul fondo dei giudizi universali del medioevo e del rinascimento fonde i suoi elementi disgregati in una fiamma calda che non risparmia quasi nulla. Le tinte calde e accese di quest’ "aere perso" trionfano e oscurano l’orizzonte del dibattersi in una mancanza di profondità che non è più decorativismo, ma insondabilità dello spazio. Una terrorizzante figura conduce la danza macabra. Potrebbe essere il demone che ha gettato all’aria le carte del collezionista, ma propabilmente è l’immagine del collezionista stesso. Nel guardarsi allo specchio anche le viscere del collezionista diventano reperti. L’autopsia dello scavo coinvolge anche l’archeologo, e mira a esporre nudi i suoi resti in punta di forchetta. L’ordinato corridoio del museo, parvenza di critica al reale che l’irrequietezza del viandante-occhio si era illuso di afferrare sotto forma di concetto, si è sbriciolato per sempre. Nel convulso reimpiego dei suoi reperti l’io vedente ha eretto un edificio che gli è immediatamente crollato addosso. Il reperto torna a essere maceria.


La salvezza.

Le ultime figure della narrazione fanno la loro comparsa in "Confortati dal suono" 1 e 2, in "Prima era un paesaggio", in "Le ricchezze del cuore", in "Conciliante adulatorio", fino allo splendido pannello "La doppia natura" che, più che concludere un ciclo, verrebbe da dire che conclude un’era. L’epica si fa più serrata e impenetrabile. La modalità pittorica sembra fare ritorno, proprio come in un ciclo che si chiude, a quella Klimtianità, a quell’atmosfera Secession dalla quale era partita dieci anni prima. "Conciliante adulatorio" potrebbe essere letto come un omaggio a Klimt, depurato da tutto il bizantinismo da terme e grand hotel che appesantisce il maestro austriaco. Nei "Confortati dal suono" riecheggia un eco del Chagall meno scontato. ( E forse l’incontro di Chagall e Klimt nel Carlomagno apolide non è così impropabile, se entrambi già si erano incontrati in Ahasvero, l’ebreo errante, l’uno per discendenza familiare, l’altro per quell’intreccio di motivi che disegnava allora al centro dell’Europa, ironia della sorte, il più raffinato arabesco degli ultimi due secoli). Il filo conduttore di questi pannelli, tutti di notevoli dimensioni, è la presenza di una grande figura, maschile nei due "Confortati dal suono", femminile negli altri. Le due figure maschili suonano uno strumento. La natura sembra sospesa in un istante di attesa. La salvezza si fa strada tramite una musica melodiosa. La superficie che Carlomagno unghia alla ricerca delle pieghe di un’altra dimensione si arricchisce di qualcosa che la pittura non può descrivere: il suono. La figura suonante si inserisce nella collezione di macerie di un già visto, già saputo,già sentito ma, invece di affastellarli in un reimpiego caotico, riordina i simboli circostanti infondendogli nuova vita. Il mammifero, il volatile e il rettile non sono più vittime della forza centrifuga del crollo ma si rivolgono, o assistono docili, all’azione di colui che mette ordine. L’esorcismo della musica sostituisce al reimpiego delle macerie del collezionista illuso l’anastilosi consapevole dell’archeologo saggio. In "Confortati dal suono 2", l’anatra che spicca il volo non è ancora sufficiente a creare una falla nella facciata del tempio appena edificata. Nelle ultime opere di Carlomagno la figura soterica centrale che costantemente domina la scena, divinità femminile che immediatamente ha reclamato il proprio diritto sul tempio rimesso a nuovo e se ne è appropriata, è il suggello del nuovo ordine universale ritrovato. In "La doppia natura", l’opera più compiuta e forse più ambiziosa di Carlomagno, la collocazione centrale del personaggio ricalca una perfezione platonico-ficiniana che ricorda la Primavera del Botticelli. La natura, l’opera dell’uomo e l’uomo stesso vi sono disposti intorno in perfetta simmetria. La femminea determinazione dello sguardo, il "femminino eterno" icona di un’intera generazione simbolista, revoca a sé ogni potere morale e legislativo, mentre la colomba che delicatamente regge rassicura sulle sue intenzioni. Il mondo che la circonda è totale e anche all’osservatore meno attento non sfuggirebbero i richiami, prima ancora che biblici, ancestrali, dei simboli che vi sono disseminati.La superficie pittorica, sulla quale Carlomagno lavora tenacemente fin dagli esordi, si fa qui coagulo perfetto del mondo, fondendone insieme gli elementi e tutto avvolgendo con la sua materia calda. Anche qui la profondità è affidata alla sovrapposizione di colore, portando a conseguenze vertiginose la valenza spazio-temporale che era stata individuata nella soppressione della terza dimensione. Per Carlomagno, come per ogni architetto che abbia lavorato col passato, ogni intonaco non è che un’ultima illusione, ed ogni scrostatura rivela sedimentazioni di tinte, tracce di mani che sono altrettante sedimentazioni di dolore. La profondità della pennellata è la profondità del cuore e, per un attimo, la linea Secession della narrazione e la macchia Die Brucke di quanto dalla narrazione è lasciato in ombra concordano nel tenere insieme il mondo e l’anima che, sotto l’egida della dea archeologa, sembra lottare vittoriosa contro la propria dissoluzione. In quell’attimo di sospensione che la musica aveva preparato e che solo la fruizione sinottica della pittura può permettere, la legge del cuore e il corso del mondo si conciliano e l’hegeliano principio di sconvolgimento appare davvero come una unità estranea e accidentale. La solida anastilosi del sapiente archeologo ha ripristinato l’ordine universale e la pace, e la dea ne garantisce la durata.


Il suono sordo.

Nella Primavera del Botticelli in alto, a sinistra, il caduceo, arma della sapienza ermetica, squarcia le nubi dell’ignoranza. È questo il risultato ultimo, quello umanisticamente più interessante, dell’effluvio proveniente dall’Afrodite Urania che occupa il centro della scena. Come in Botticelli, anche in Carlomagno la lettura del quadro finisce in alto a sinistra, ma con un suono sordo. Il presunto ordine della complessa anastilosi si rivela precario ed arbitrario, e la costruzione cede di schianto. Solo quando lo si è definitivamente sentito ci si rende conto che lo schianto era la vera conclusione del percorso. Ora ogni apparizione soterica, vista a ritroso, non funziona più. In "Confortati dal suono 2" i mammiferi si erano rivolti incuriositi verso il suonatore, ma l’anatra che fuggiva spaventata, come per una rosa di pallini caduta accanto al nido, acquista adesso una luce profetica. Anche il sereno idillio di "Confortati dal suono 1" rivela già la prima incrinatura nella eteronomia di un discorso musicale che cercava di incantare chi, nella sua naturale essenza, non aveva bisogno di essere incantato. E, se il mammifero propabilmente abbocca, i piccioni svolgono refrattari in coppia il loro semplice lavoro quotidiano.Il serpente, in bilico tra i due mondi, incantato o incantatore, è il simbolo ambiguo: la sua posizione e la sua somiglianza con il flauto sono le forme del sospetto.La crepa, come un rettile, si è già insinuata nelle fondamenta della casa appena costruita. Ma è nei due bellissimi "Non lasciava alternativa" che tutta la violenza del colpo di martello si annuncia inevitabile. Le anatre che fuggono terrorizzate occupano quasi tutto lo spazio del dipinto. Una impotente disperazione ha riconquistato il primo piano e solo per un nonnulla il serpente, rovescio di uno Zauberflote riportato all’epifania della linea pura, fallisce il bersaglio. "Conciliante adulatorio", il quadro omaggio a chi della dorata ricchezza ha fatto cornice di struggimento e morte, dà inizio al dopo suono. La dea, confusa col serpente che la delinea e l’avvolge, sprofonda nella natura dalla quale il primo sguardo aveva cercato di levarla. La musica torna a essere frammento, singhiozzo, tuttalpiù motivetto facile, lineetta sinuosa adatta ad accompagnare il ricordo di ogni singola maceria che il cuore e l’umanità hanno tentato a tutti i costi di ricomporre. Il flauto si è contorto accattivante e nel ritrarsi dalla e nella superficie la dea è svelata: il velo dell’ancora recente purezza si è squarciato e l’apparenza della salvezza gioca inutilmente la carta della seduzione pura. Ma la seduzione costringe la figura soterica a confessarsi. Era la dea a pretendere la vittima, e forse la pretenderebbe ancora, solo che adesso la pretesa suona leggera, e un po’ stonata, come l’ammiccamento di uno sguardo torbido in una balera popolare. L’anatra recalcitrante ne è sfuggita, l’agnello no, ma solo per innata vocazione. Ogni fatto è avvenuto, ogni avvenimento è stato un terremoto di legami. Ogni cadenza infiammata o trionfale non ha più ragione di essere: d’ora in poi i pannelli di Carlomagno procederanno "bitterlich", con amarezza, come nelle indicazioni per il direttore d’orchestra in certe code nelle sinfonie di Mahler. La dea è stata vista, ma i cani non hanno sbranato chi l’ha scorta. La fusione con la natura, la visione dell’Anfitrite che animava Bruno, fonte di tutti i numeri, di tutte le specie, di tutte le ragioni, l’illusione aristocratico borghese che regge l’opera di un Tiziano come quella di un Beethoven, in Carlomagno non si realizza.Se il corso del mondo è invulnerabile per la virtù, Hegel ne è contento, Carlomagno no. Carlomagno come Mahler, dal cui paragone era scaturito il titolo di quando ne scrissi dieci anni fa, non si fa interprete di chi dalla lotta con il mondo si aspetta una vittoria, o una sconfitta ammantata di gloria eterna.Carlomagno simpatizza con chi è rimasto fuori, con chi ha interrogato senza ricevere risposta, con chi ha osservato attonito accontentandosi, alla fine, di registrare l’eterna indifferenza delle cose. Simpatizza con "gli asociali, che tendono invano le loro mani verso la collettività". Nell’opera di Carlomagno, come nell’ultimo movimento della sesta sinfonia del musicista, alla fine di ogni slancio cala il suono sordo del martello, e sembra che la speranza sia irrimediabilmente infranta. Ma l’intervento censoreo della collettività compatta, alleata con il corso del mondo e della storia, non sarà mai definitivo per le sue vittime. Finché una pupilla di un io osservante sarà rimasta aperta, anche solo nella disillusa dolcezza del ricordo il corso del mondo sarà tenuto sotto scacco.

* I testi in corsivo sono tratti dalle poesie di Carlomagno

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