mercoledì 21 gennaio 2009

LA SOGGETTIVA DEL PASSAGGIO

Alcune considerazioni sull’opera di Cinzia Ghioldi

di Franco Morselli
"Via delle Belle Arti" inizia la sua attività dedicando una serie di tre mostre ad altrettanti ex allievi della scuola: Cinzia Ghioldi, Mattia Scappini e Andrea Tedeschi. Li accomuna, oltre la giovane età e l’intatta passione, l’essere attualmente docenti di discipline artistiche nella scuola stessa ove hanno studiato.Il lavoro e la storia di Cinzia Ghioldi, con cui l’attività effettivamente esordisce, sono entrambi emblematici. Cinzia, da studentessa, frequentava la sezione dell’Istituto d’Arte all’interno della quale si trova la bellissima sala che ospita la mostra. Prima di riapprodare come docente alla sua scuola di provenienza, ha vissuto a Bilbao dove ha collaborato con l’università come ricercatrice. Disegnatrice, pittrice e scultrice, ha già esposto le sue opere in diverse mostre. Ma l’affermazione più importante l’ha ottenuta nel campo della cinematografia, realizzando un raffinato e suggestivo cortometraggio di animazione col quale ha conseguito il premio AVANTI al 25° festival del cinema di Torino diretto da Nanni Moretti. Ed è in questa impronta cinematografica, riscontrabile non solo nel film, ma su ognuno dei disegni e delle tele qui esposte, che risiede l’inquietante emblematicità della sua opera. La struttura di un film, serie di immagini correlate dalla logica della narrazione, se da un lato moltiplica a dismisura l’unicità del foglio o della tela, dall’altro ne unifica le immagini nella presenza forte di un protagonista. E questo scambio opera unica–sequenza, costante che percorre l’intera opera di Cinzia, aggiungendo al semplice accostamento di oggetti esposti la dimensione tempo, e, soprattutto individuando in essa un istante pregnante e preciso, getta sulla sua produzione e, direi, sull’intero evento della mostra, una luce inaspettata. Il soggetto della narrazione è una bambina, e il primo effetto, per l’osservatore, è di essere trascinato nel mondo dell’infanzia. Ma il secondo effetto, immediatamente, congela ogni leggera disposizione d’animo che istantaneamente ci si era preparata, con l’agghiacciante carrellata di accadimenti che scuotono la vita della piccola protagonista. Ci si accorge subito, prima ancora coi sensi che con il pensiero, che l’attimo dell’infanzia sospeso in Cinzia è un attimo particolare, contemporaneamente ben noto e tuttavia oscuro, e che il suo modo di descriverlo non è quello di una Alice nel paese delle meraviglie. Se il primo giudizio formulato riconduceva ad un universo di illustrazioni per bambini, non è solo l’inquietudine di certi dettagli a farci cambiare idea. C’è dell’altro che va osservato con attenzione. Le tavole sono semplici, ma non si può parlare di una semplicità disarmante. Al contrario, l’immagine che subito sembra offrirsi tenera e innocente, ad ogni tentativo di autentico avvicinamento sviluppa aculei che respingono lontano. Il segno che, sincero fino all’assoluta mancanza di mediazione degli schizzi, si condensa nell’ideogrammaticità di quelle visioni infantili è tutt’altro che un morfema destinato ai bimbi, forse neppure a tanti adulti, almeno a quelli che scivolano su ciò che vedono con distrazione e superficialità. Nelle mani di Cinzia la matita, mezzo nudo per eccellenza di chi per esprimersi non usa le parole, lascia sulla carta linee che sono altrettanti elettrocardiogrammi delle passioni. Solo in rari momenti di raffinata distrazione è leggera, ma subito, probabilmente per uno di quei moti affettivi del cuore che potremmo, pessimisticamente, definire di "consapevolezza", preme sul foglio con la pesantezza di un coltello che affonda nella carne viva. Il picco dell’elettrocardiogramma, la rappresentazione cinica e grafica del clou di sofferenza di un paziente astratto, trova nel segno di Cinzia il suo speculare grafico: è il gesto dell’affondare, dell’aprirsi in una ferita, è il semplice premere una superficie come unica rappresentazione della disperazione. E' da questo aggrovigliato mondo in cui si alternano istanti, se non di legittimo anelito, di distratta illusione con attimi di accorato dolore che si dipana la linea della figuratività di Cinzia: il soggetto bimba e ciò che il soggetto vede. O forse, più correttamente, il soggetto bimba e ciò che il soggetto sogna. Ovvio che le pugnalate di Cinzia non sono destinate a un libro per bambini. Per gli altri, per quegli adulti di cui si diceva prima, è arrivato invece il momento in cui soffermarsi un attimo a meditare. Ovvio che anche qui, quindi, come al solito, si debba ripartire da un soggetto. Partire da un soggetto, per chi abbia intenzione di capire, semplifica le cose. Basta un piccolo gesto della volontà: dismettere la propria uniforme di certezze ed entrare in punta di piedi, con delicatezza, nel mondo dell’inaspettato che una bambina dalle gote rosse offre. Attenzione però: il viaggio che ci viene offerto non va verso nessuna mirabilandia oltre lo specchio. Lo spazio del viaggio è qui, visibile e tangibile sotto i nostri occhi, perché il reale, a chi lo vuol vedere, cela alla fine un mistero solo, forse neppure il più importante. Una mostra, abbiamo detto, è anche la sala che la ospita. Non è un atto di maleducazione alzare gli occhi dalle opere esposte e indugiare un attimo sulle qualità del luogo. Se una sala neutra, quella tipica delle gallerie d’arte, è ottima per le quotazioni di mercato, non è questo il caso di Via Delle Belle Arti che punta a rappresentare quasi, come abbiamo visto, una intera storia e un intero mondo. La volta della galleria incombe aulica, incutendo quasi una sorta di rispetto o soggezione. Aleggia nella sala, in un’epoca che fa del mistero una passione diffusa, l’ombra dell’inquisizione e della massoneria. E i gessi che la arredano saldano le radici del luogo a un passato ancora più viscerale: l’ancestrale dialettica tra i corpi che torce i lottatori già copiati dal Canova; gli infiniti dubbi sul valore della bellezza che si fanno perplessità e disperazione sul volto di chi ne è vittima passiva; la dolce estasi senza tempo dei due amanti; l’incedere trionfale del cavallo che mantiene inalterata la sua orgogliosa tracotanza tanto nelle mani del predato che in quelle del predatore. È un mondo, appunto, la galleria dei gessi. È un mondo che, a chi lo sa guardare, offre l’intera storia, non quella dei fatti ma quella degli eterni stati d’animo che l’altra hanno nutrito e generato. È la realtà, il "reale", per chi accetta la storia come tale. Eppure a noi, compiaciuto soggetto turistico che si guarda intorno, quasi smaliziato deus ex machina che tutto ha capito e tutto può, mancava, dentro la sala che sintetizza tutto, quel piccolissimo quid, quell’attimino da nulla che tutto rimettesse in crisi e tutto riaccendesse di una nuova luce. Mancava, visitando la sala e visitando la mostra, il ricordo degli ultimi istanti ai quali la mente riesce a risalire, i più lontani, cioè i primi. Erano sensazioni rudimentali, primitive, che un po’, quando riaffiorano alla mente, ci si vergogna a ricordare. Erano, successive a quella preistoria di noi stessi, le prime prese di contatto tra un "io ci sono" ancora incredulo e una realtà sempre più grande, sempre più sconfinata, spesso popolata di mostri e di minacce, che ci ha rificcato in quel mistero dal quale credevamo di essere appena usciti. È l’istante, letterariamente abusato, dell’iniziazione. È l’istante in cui, come in una galleria di personaggi da museo, ci sfilano davanti le statue della realtà. Ci sono tanti modi di affrontare questo momento. La letteratura privilegia il mago, l’interprete tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto, ma ognuno di noi sa, dentro di sé, che il mago non c’è stato. Ognuno dentro di sé sa, con assoluta certezza, che non c’è altra via se non cavarsela da soli. La bambina dalle gote rosse è ancora sola in mezzo al guado, e ce lo descrive con tutta l’ansia e la realtà di chi non ha ancora dato un nome a quel che accade. Una corazza sì, quella ha cominciato a costruirsela e forse, vestita di questo abito ruvido e un po’ spinoso, forse, gradualmente, non sentirà più la necessità di affondare la matita come un coltello sulla carta, offesa dalla disillusione che sempre comporta quel passaggio. La bambina è ancora lungo il guado, e dal guado, dove ci trasporta come in una soggettiva piena di cinematografica vitalità, vede intorno a lei esseri che non si sono ancora cristallizzati in statue, in concetti, cioè, domati e pronti ad ogni evenienza. Ma è da questo guado, in questo rito di passaggio rivissuto nel modo più scevro da ogni goffaggine antropologica, che le tavole di Cinzia offrono, emblematicamente, la salda base all’immensa struttura storica che le ospita: la nascita del soggetto che alla realtà dona la vita.
Mariangela Cavani

A CHI PARLA LA FIABA


La fiaba non è un genere adatto ai soli bambini.

Forse è vero che i bambini ne hanno bisogno più di chiunque altro: ce lo ricordano con la loro insistenza, quando chiedono più e più volte che venga ripetuto quel particolare passo, quella particolare fiaba in cui oscuramente si proiettano.
Adorano la ripetizione: le loro mani si contraggono ascoltando la scena paurosa che si scioglie nel sollievo; vogliono toccare e contare i gesti di una prova inverosimilmente faticosa, che assurdamente otterrà il bersaglio; amano la stranezza indicibile di personaggi e situazioni, stagliati su uno sfondo sfumato e meraviglioso.
Certo per loro la fiaba è un mondo generoso, che rende disponibili parole per emozioni ancora incapaci di affiorare e definirsi: angoscia, impotenza, solitudine, sconforto, malinconia, ostilità, desiderio di affermazione. Attraverso la fiaba possono uscire alla luce, avere finalmente un nome.
Ascoltando, il bimbo impara a riconoscere i propri contenuti emotivi, ad accettarli, e soprattutto matura la certezza che la lotta, la resistenza, paga: fatica durissima, ma che apre alla vittoria.

Le fiabe sono una creazione universale, estremamente variegata; ricondurle alle geniali analisi di Propp aiuta a comprenderne la grammatica nascosta, ma forse non l’incanto e il bisogno che ne abbiamo.
Oltre ai bambini, per cui svolgono un ruolo educativo fondamentale, anche a noi adulti sono profondamente necessarie.
Chi di noi, a tratti, non ha bisogno di una voce rassicurante, che lo aiuti a resistere, a lottare?
Come l’eroe della fiaba che raccoglie l’animale ferito, o salva da morte certa il debole che incontra nella foresta, o come l’eroina che sopporta lo strazio della morte della madre e si prende cura dei fratellini, anche noi non possiamo sottrarci al dovere di soccorrere altri esseri e di prenderci a cuore situazioni ingiuste.
L’eroe della fiaba non volge il volto ignavo davanti al dolore, lotta senza risparmiarsi, perché sa che questo è il prezzo necessario per ottenere dignità e vittoria.
Noi adulti siamo tanto più disillusi in un lieto fine che ricompensi i nostri sforzi; eppure sappiamo che ci sono battaglie, fatiche, che valgono la pena di essere combattute di per sé, anche se non danno garanzia della vittoria.
Per questo siamo adulti.
Per questo cerchiamo nella fiaba una delicata speranza che ci incoraggi: forse, nella sua utopia, può esserci qualcosa di vero.
Forse riusciremo a indebolire gli osceni orchi di oggi, a farli almeno indietreggiare, se le nostre energie migliori sapranno allearsi e resistere con determinazione.
Franca Tosi

LA STRATEGIA DELL’INCLUSIONE, OVVERO IL GIUOCO DELLE
PERLE DI VETRO


Il “Venturi” e’ stato ed e’ un laboratorio di saperi ed opere, di forte tensione intellettuale e fatica, di studio e manualita’; un nodo di cultura materiale, progettuale e simbolica ; il crocevia di realta’ trasfigurate e di immaginario che si traduce in forme concrete.
Molti di coloro che vi hanno studiato e operato, allievi, maestri, allievi che sono poi diventati maestri, hanno contribuito a delinearne il profilo, disseminando gli ambienti di tracce e presenze , destinandolo, nel corso del tempo, alla funzione di cura e custodia di vari materiali: statue, dipinti, appunti, schizzi, manufatti, disegni, reperti, modelli, libri e tant’altro, che, di natura, importanza e qualita’ certamente disparate, di valore storico ed artistico senza dubbio differenziato, sono, tutti, testimoni di momenti ed occasioni culturali, mode e modi , sensibilita’ e gusti che sono stati incontri e scontri, comunque sempre confronti; nonche’ di una creatività, nel passato come nel presente , viva e vitale. E ne hanno fatto anche, quei maestri, quegli allievi, un magazzino di memorie, dove, ancora, di alcuni colleghi si ricordano voci e volti, insieme con le produzioni, le abilita’ e gli insegnamenti e in un’eco riflessa, virtuale, inflessioni, risate, vezzi , intercalari inconfondibili, che quasi si sentono ancora rimbalzare tra i muri, per le scale, nei corridoi, in biblioteca, in mezzo ai gessi.
Il “Venturi” ha dunque interiorizzato aspetti molteplici e opposti, coltivato nel suo profondo, dati referenziali, ma anche elementi famtasmatici di immaginario; si è fatto entita’ mutante, che negli anni ha subito cambiamenti, accolto novita’ e assimilato diversita’, eppure immutata nella sua atmosfera in qualche modo rarefatta, sospesa, non allineata, vagamente ‘ my way’, nel suo arcano codice interno di riferimenti quasi solo per addetti ai lavori, nello strano, indefinibile senso di liberta’, che interferenze dall’esterno e cambiamenti di sedi e dirigenze, con relative visioni del mondo, non hanno sostanzialmente alterato.
E se, da un lato, in chi al Venturi attualmente studia e lavora, questo ha prodotto una sotterranea consapevolezza d’appartenenza implicita, la condivisione di una parola d’ordine segreta che ancora ci piace conoscere, dall’altro ha provocato una sorta di frattura con l’esterno. Nel corso del tempo, l’Istituto si e’ come avvitato, ripiegato su se stesso; anziché farsi promotore e protagonista di proposte culturali ed artistiche, e’ stato, per lo più, discreto osservatore, semmai fruitore, di quanto dagli altri veniva proposto; anziché mostrarsi e raccontarsi come soggetto, anziché connotarsi come interlocutore forte nella fenomenologia culturale e artistica del contesto cittadino e non, ha piuttosto sottolineato il suo isolamento e la sua specificità . Insistendo so-prattutto sul ruolo didattico e nell’intreccio col mondo del lavoro, prerogative del resto doverosamente ed innegabilmente fondamentali della sua natura e della sua storia, ha, forse, sottostimato potenzialità che vanno concretizzandosi quotidianamente nell’attività e nelle produzioni artistiche di molti dei suoi insegnanti e di alcuni dei suoi studenti o ex studenti. Infatti, e paradossalmente, gli attuali maestri del Venturi espongono sempre altrove.
In questo processo di isolamento e di autoreferenzialità, anche quella trama di tracce e presenze lasciata dai maestri del passato, rischia di diventare labirinto di segni, in cui gli spazi paiono dimensionarsi in stratificazioni, concrezioni, agglomerati, dal significato oscuro e gli oggetti sfilare come relitti di trascorsi naufragi estetici , brandelli di stili mescolati a caso, esibizioni evocative, che poco o nulla sanno evocare. Segni, che stanno inerti e zitti, pietrificati in alfabeti di lingue in disuso, lontanissimi dalla sempre più assordante , rutilante, visionaria, triviale, e ahinoi, quanto facilmente comprensibile , sarabanda di figurazioni e messaggi gridati, che tutti ci affligge . Segni che, amorosamente strappati alla rovina, miracolosamente sottratti all’oblio, di fronte alle piatte, esplicite, sbrigative semplificazioni dei sistemi comunicativi ora di moda, torreggiano gli uni accanto agli altri, astrusi ed enigmatici. Inutili, fino a quando la parola umana non li dispieghi e li spieghi, interpretandoli e rendendoli comprensibili. Ritornano, allora, quei segni, ad essere voce e memoria, reagenti alchemici deputati a dire appunto ciò che è e ciò che è stato, chi c’è stato e quando, a saldare il presente alla lunga catena di passati alle nostre spalle , a fermare in forma e sostanza di realizzazioni, esperienze, insomma vite, l’incessante flusso degli accadimenti e trasformare il tempo nei tempi degli uomini. Se tale prodigio può avvenire attraverso parole ed opere , l’iniziativa di ospitare nella rinnovata, storica, splendida Galleria delle Statue, mostre di artisti in qualche modo collegati al Venturi e di accompagnare questi eventi con l’edizione della rivista on line Via delle Belle Arti , di stampa libera, autogestita, mi pare un’occasione preziosa affinché il Venturi, nuovamente in dialogo con l’esterno, mostri le sue risorse e la sua ricchezza creativa, affinché il passato non venga perduto, il presente si possa valorizzare e dai segni frantumati che costellano l’Istituto emerga un’immagine i cui elementi forti possano essere riconosciuti ed esplorati : fisionomia complessa ed articolata, né ritratto né foto di gruppo, ma mobile correre dell’obiettivo dall’espressione di un volto a quella di un altro; respiro largo che accoglie ed include, non oppresso da limiti e censure, da attacchi di narcisismo, manie di protagonismo, rivalità, snobismi, pregiudizi; e che anche puo’ aprirsi alla seduzione dell’ossimoro, al richiamo dell’iperbole, alla sollecitazione del paradosso, alla benedizione dell’ironia; che tollera varietà, non solo prospettiche e visuali ma d’orizzonti di senso e di intenti, che sopporta alternative, divaricazioni, contrapposizioni; pensiero agile, vigile, curioso, che si configura nel rigore metodologico della ricerca analitica e nella sistematica rielaborazione delle sintesi, ma anche ama le folgorazioni improvvise, le epifanie dell’intuizione, e coniuga onesta’ intellettuale e coerenza con i propri valori e le proprie convinzioni e disposizione a conoscere altro, sempre e sempre di più; e, soprattutto, passione . Lieve filo d’Arianna che lega, con nodi d’acciaio, l’avventura di tanti.
E, soprattutto, passione per l’arte, orbita magica su cui, incessantemente, si effondono fiumi di ragione e sentimento, suolo in cui radicano scelte giovanili in fondo mai tradite, porto da cui partono e a cui giungono ricerche espressive, stilistiche e linguistiche, che durano quanto la vita, più della vita, eredità che si vuole lasciare intera ai nostri ragazzi, sapendo quale ricchezza, quale conforto, quale riscatto essa sia.
Ma di questo , e del titolo, parlerò altrove.
Franca Tosi
Fabrizio Loschi


BREVE STORIA DEL BIMBO GRASSO CHE NON FECE IL PARRUCCHIERE

I ricordi sono come fotogrammi, unirli tra loro significa montare un filmato, generare una sequenza di immagini che si possono scorrere in tutte le direzioni. Più si ordina questa memoria più è facile andare a ritroso, alla fonte all’origine stessa delle esperienze. E’ un complesso gioco di specchi, di funzioni differenti, la memoria è un insieme di relazioni tra elementi diversi che, involontariamente, si attiva ancora prima della nostra nascita. Di quel "prima" ricordo una notte calda e afosa di fine estate; aveva iniziato a piovere a dirotto con tuoni e lampi ad illuminare la veglia di mia madre.
Lei si accarezza la pancia e mi dice di non avere paura. Ma io non ho paura, lì dentro sto bene c’è caldo, spazio a sufficienza e vengo nutrito regolarmente come e meglio che in un albergo a cinque stelle. Lei parla, parla e mi rassicura. Mia madre parlandomi faceva coraggio solo a sé stessa e forse mi impediva anche di dormire. Ma, una volta nato, uscito dal posto comodo e caldo dove stavo benissimo, lampi e tuoni non mi hanno mai spaventato, conciliandomi, al contrario, sempre delle belle dormite.
Il temporale, vissuto all’interno di una casa, mi ha sempre rilassato.
In ogni caso la mia memoria compiuta inizia oggi; del prima ho solo pezzi, frammenti di immagini, parole isolate e odori di vita.
Oggi ho quasi quattro anni, fuori dalla finestra di casa una giornata qualsiasi, di una qualsiasi primavera, sfoggia un cielo luminosamente imprevisto. Qui da noi il cielo è sempre un po’ bianco e le poche volte che mi è possibile mi ipnotizzo davanti a tutto quel meraviglioso azzurro.
Mia madre mi ha appena sgridato per motivi che oggi non riesco esattamente a ricordare, ma che allora non potevo capire ne sopportare. Ricordo solo qualcosa di simile al sentirsi offesi. Offeso oltre ogni misura possibile. Ma sono piccolo e non posso reagire con azioni eroiche ne parole taglienti, quindi, non ci sono altre soluzioni possibili. Misure possibili, soluzioni possibili; un bambino piccolo ha solo piccole possibilità. Trovo uno di quegli stracci, a quadri rossi e bianchi, che si usano in cucina per asciugare mani e cose, lo apro per bene e al centro metto una merendina (nulla a che vedere con quelle contemporanee, per avere un idea dovremmo rifarci a qualche volume di antropologia culturale) alcuni pezzi di lego (gioco di costruzioni in plastica molto colorata, oramai caduto in disuso contemporaneamente all’utilizzo della manualità nelle attività ludico – ricreative dei bambini). Chiudo il tutto ed esco di casa. Ovviamente non sono solo, me ne vado via camminando mano nella mano con il mio unico amico, un orso di pezza dallo sguardo assente, ma rincuorante.
La mia fuga termina dopo alcune centinaia di metri, sulla via Emilia, vicino alla fermata dell’autobus. Contavo di salire sul numero 7, quello che portava in centro, che si fermava vicino a casa della nonna, davanti alla piazza della la misteriosa chiesa degli ebrei.
La casa della nonna sarebbe stato un ottimo luogo ove rifugiarsi.
La nonna, le sue due sorelle e una bisnonna; quattro signore innamorate di te la cui unica ragione di vita è renderti felice. Quattro donne fantastiche in una casa antica piena di angoli che chiedono di essere esplorati. Un solaio magico che contiene tutti i misteri e le avventure del mondo. A quattro anni tutto questo è il paradiso.
Ho quattro anni parlo poco e male ma non sono scemo.
Ho quattro anni e una mano grande mi ha afferrato per il colletto della camicia
Ho quattro anni e mi hanno beccato, ricondotto a forza in un luogo chiamato casa.
Ho quattro anni e sono stato sculacciato.
Ho quattro anni e non ho pianto.
Incredibile la capacità di sintesi concettuale dei bambini; in una sola azione avevo scoperto, e dichiarato, tutte le mie intenzioni. In una sola azione avevo disegnato i contorni di ciò che sarebbe stato il mio futuro.
Sarei stato orgoglioso e permaloso. Sarei stato goloso.
Avrei avuto sempre una forte necessità creativa.
Avrei sempre avuto la necessità di un rapporto di referenza speculare con i miei oggetti di affezione. Non avrei mai avuto nessuna attitudine all’accettare regole che non fossero condivise anche da me.
A quattro anni capii che per fuggire devi, almeno, poter disporre di te, quindi decisi di ottimizzare il tempo che mi separava dal momento opportuno. Di tempo ne avevo moltissimo, non avevo molto da fare, ero timido e goffo fin da allora; il mondo mi incuriosiva ma suoi abitanti mi facevano un po’ paura. Decisi di essere il capo dell’unico esercito possibile; certo era un bel gruppo, formato dagli eroi di sempre: il mio orso ed io. Ci saremmo divisi i compiti, io sarei andato avanti in esplorazione e lui mi avrebbe aspettato guardandomi le spalle. Sono sempre stato grato al mio orso per il suo lavoro ben svolto. Sapere che qualcuno mi avrebbe protetto mi aiutò molto in quelle mie prime esplorazioni. Di fatto non si esplorava nulla. La casa era sempre quella, l’esterno era stato proibito, quindi io ero l’unico soggetto, alla mia portata, che potevo esplorare.
Io ero l’unica alternativa al mio desiderio di andarmene.
Ero perfettamente cosciente del fatto di essere troppo piccolo per poter prendere qualsiasi decisione. La cosa non mi piaceva e mi dava molta sofferenza.
Ero triste, molto piccolo e sapevo di essere solo; feci allora di questo mio dolore impotente la chiave di accesso alle mie visioni fantastiche.
Da quel giorno, esplorandomi, ho imparato a cadere dentro me stesso e a parlare con le cose che mi circondano; ad utilizzare ogni momento disponibile per cercare le chiavi di accesso ad un mondo non visibile agli altri.
Intanto, fuori, nel mondo visibile, sono già passati quasi due anni. Dentro nel mio ho già smesso di contare i secoli.
Nel frattempo avevo imparato a leggere ascoltando le fiabe musicali. Mi piaceva da morire la voce del gatto con gli stivali, le canzoni che aprivano e chiudevano la fiaba e poi c’erano le illustrazioni grandi e bellissime; e io mi chiedevo chi era quel bambino che disegnava così bene. Non poteva essere altrimenti, perché le fiabe sono cose da bambini. Nel momento in cui riuscii a collegare il fatto che la parola che ascoltavo, dal disco in vinile a 45 giri, corrispondeva a una piccola riga piena di formichine nere pensai di avere capito il trucco. Mio padre e il mio cugino più grande di tanto in tanto mi aiutavano ad ordinare le lettere in una cosa complessa che si chiamava alfabeto.
Solo allora, finalmente, compresi. Dentro la riga stampata c’erano le lettere che poi formavano le parole che poi formavano i pensieri che poi permettevano di raccontare le storie che, se erano belle, diventavano i viaggi.
Viaggi che , a loro volta, mi permettevano di sopravvivere. I viaggi erano le mievie di fuga.
I viaggi, comunque, li facevo già da prima di imparare a leggere, disegnando motociclette cariche di tutto; sedie, vestiti, un camino che, di fatto, non ho mai avuto e poi c’era sempre il mio orso messo bene in vista tra i bagagli e la nutella, sempre nascosta da qualche parte che non si sa mai che me la becchino. Ho viaggiato ovunque, bastava girare foglio e fare un altro disegno mettere un albero o un lago sulle cartine geografiche che ricalcavo da un vecchio atlante. Forse è lì che ho iniziato a pensare che il mondo, tutto sommato, è una roba piccola e che il concetto di grandezza non ha nulla a che vedere con il pianeta dove tutti viviamo.
La scuola è molto bella. C’è un maestro elegante che fuma molto e poi c’è un buon odore di gomma da cancellare che si sente ovunque. Andare a scuola mi permette di uscire di casa più spesso, la cosa è interessante ma sono sempre un poco spaventato. Dalla mia aula si vede un grande giardino dove non si può mai andare. E’ bellissimo; è il posto giusto dove parcheggiare occhi e cervello in attesa che mi servano per qualcosa di altro magari più tardi. Anche se la scuola è bella e si imparano delle cose io non sono mai a mio agio; detesto gli altri bambini. Mi sembra che puzzino e che facciano troppo rumore, ma forse sono solo bambini; me lo ripeto spesso e questo pensiero mi angoscia. Rischio spesso di mettermi a piangere, da solo, senza motivo.
Se loro sono solo bambini io cosa sono? Nel dubbio resto isolato e non parlo con nessuno.
Io non so cosa sono ma, so perfettamente cosa non mi piace; ad esempio che detesto farmi fotografare. Alle feste idiote, a scuola, in vacanza c’è sempre qualcuno in agguato con una macchina fotografica. Non mi piace nemmeno farmi fotografare con mio padre, o con mio cugino che è il mio mito perché è più grande, gioca a pallacanestro e fa i modellini dei carri armati che mi piacciono molto; perché sono piccoli ma uguali a quelli grandi. Quando divento grande voglio essere come lui, e anche io voglio avere un giradischi stereo per ascoltare la stessa musica che lui ascolta, anche se adesso non la capisco proprio. Odio le foto perché non mi piaccio, anche se non posso fare altrimenti; per ora debbo farmi bastare lo spazio angusto e poco arieggiato che questo piccolo corpo mi offre.
Non mi piaccio, nonostante l’amore di mio padre le coccole delle nonne e i baci di un paio di zie molto fighe. Non mi piaccio ma ogni giorno debbo timbrare il cartellino col mondo.
Prima o poi finisce. Prima o poi finisce. Prima o poi finisce
Me lo ripeto ogni giorno, mentre vado a scuola, e ogni giorno fa schifo uguale; si vede anche dalle fotografie, quelle che io detesto, che io lì non volevo esserci, che non mi piace proprio. Si vede dalle foto che sembro ritagliato e incollato. Lo capiscono tutti che, lì, dentro l’immagine, ogni cosa, bambini, scuola, paesaggio, funziona benissimo; e che l’unico elemento che non c’entra nulla sono io. Si vede subito che sono in prestito. Prestato da chi, cosa o perché non importa. Si vede e basta.
Infatti l’ultima immagine che ho conservato, tra tutte quelle accumulate durante gli adii e gli arrivederci, è quella di un bambino grasso e taciturno, prigioniero di un paio di occhiali dorati e di una giacca rossa col taglio classico con uno stemma dorato da college inglese bene in vista.
Purtroppo le vie di beatificazione piccolo borghese sono tutte in salita. Nulla può essere risparmiato nemmeno il colore… nemmeno il dolore dell’imbarazzo di rimanere immobili, impotenti, davanti all’obbiettivo. Ho amputato molto di me nel tempo, senza sofferenze ne malinconie di alcun tipo, ma non sono mai riuscito a liberarmi di quel piccolo idiota ottuso e impacciato, della sua giacca rossa, della sua inadeguatezza alla vita.
Tra me e l’obbiettivo il tempo eterno del flash, un arco, una sezione di tempo/luce che diviene materia. Un blocco da costruzione, una massa omogenea e inerte che opprime il cuore; che impedisce ogni azione, perché nessuna fuga è possibile se tu sei prigioniero in te stesso. Ho imparato a trattenere il fiato; a calarmi in un’apnea psichica dove, tra reni e polmoni, legavo il tempo al mio destino. Il tempo, sempre lui, sempre lo stesso alito di tempo, come fosse il fiato ultimo di un moribondo a tutti sconosciuto. Ma è tempo. Il mio tempo. Ho imparato a distrarmi con ostinazione e a mutare il tutto in un odore… uno qualsiasi. Il primo che la mente può evocare.
Chiudendo gli occhi il tempo era diventato la primavera, che in foglie luminose entrava dalla finestra lavando di colori esplosi tutti i giocattoli che abitavano il tappeto della mia camera. Chiudendo gli occhi il mondo spariva in un odore caldo; animale e materno, tra il vestito a fiori della mia tata e il suo grande seno.
Chiudendo gli occhi il mondo spariva, il tempo si consumava assieme agli umani che lo alimentavano; chiudendo gli occhi riemergevo altrove.
Un’osteria dell’apennino emiliano tra il fumo amaro dei sigari, il suono delle carte sbattute sul tavolo, due bestemmie e il colore rosso dei bicchieri pieni di vino. Il luogo giusto dove fermarsi, dopo chilometri di curve, per pisciare e bere qualcosa. Un posto dove sparire o parlare di nulla col primo che capita. Un giusto luogo di un altrove qualsiasi… ho mescolato due racconti di adulti sconosciuti e le impressioni di un vecchio bar del centro storico, dove sono entrato una volta sola con mio nonno. A mio nonno, lo imparai più tardi, le osterie piacevano molto, e forse era proprio per quello che mi aveva chiesto, quel giorno di non dire nulla a nessuno. Io non avevo capito; mi sembrava non ci fosse nulla di male in quel posto lì, le persone mi sembravano simpatiche e una vecchia barista con i capelli a carciofo mi aveva regalato un cioccolatino. Ma il nonno mi aveva guardato come si guardano i grandi tra loro e io mi ero sentito importante. Quello sarebbe stato il nostro segreto.
Ma le osterie non sono posti per bambini, con o senza segreti. Il tempo, urla un senso di colpa e dice che sono troppo piccolo per ordinare da bere e che forse qui, o lì, non dovrei stare.
Vado. Rientro nel mio corpo, lo trovo subito tra tutti gli altri; il mio è quello che mi piace di meno.
Rientro ed esco ancora, perché intanto hanno interrogato qualcun altro e io sono libero di andarmene nuovamente.
E’ molto caldo qui sulla spiaggia. La luce è quasi bianca e la sabbia si fonde in un mare trasparente. Lei è bellissima capelli rossi e costume azzurro. Lei è bellissima, i suoi occhi guardano solo me. Non posso sapere il suo nome, l’ho conosciuta da poco, l’ho incontrata sulle pagine di una rivista di mia madre, il mare invece è una cartolina che ci hanno spedito certi amici dei miei genitori, antipatici e presuntuosi. I piedi affondano nella sabbia e tutto il resto della mia anima nell’odore dei suoi capelli. Da qui vorrei non dover tornare mai più. Ma tra un battito di ciglia ritroverò un maestro, un parente noioso, il cortile dove tutti giocano a calcio e io guardo e basta. Tra un attimo devo tornare non sono certo di cosa troverò; ma sono pronto a tutto.
Dentro, fuori… per milioni di volte scappato; salvato, fuggito verso un infinito altrove.
Ogni bambino si rifugia in un mondo parallelo cercando di sopravvivere all’inadeguatezza del suo presente. Anche io fuggivo il mio presente ma capii subito che nel futuro ci sarebbero stati molti guai, poche garanzie e tanto tempo perso in rituali inutili e sbiaditi.
Eppure, di tutto questo, ne ero certo, sarei stato avidamente goloso.
Dalle elementari alle medie la mia vita non cambiò granché. Cambiava solo il giro vita, sembravo destinato ad un costante ingrassare, del resto in questa parte del mondo, quella visibile a tutti, la cosa migliore pareva essere il cibo. Più che mangiare, vista la mia voracità, sembrava quasi che volessi eliminare forme di vita considerate inferiori. Non provavo pietà di nulla e poi avevo sempre un enorme vuoto da riempire dentro me. A distanza di tempo capisco meglio i miei silenzi e le mie timidezze. Forse stavo solo digerendo.
Rimanevo basso, ingrassavo, tacevo e guardavo la mia faccia esplodere di brufoli, ma non mi preoccupavo, tanto non sapevo cosa farmene io di una faccia.
L’unico segnale concreto della mia evoluzione era sulla carta. Disegnavo sempre meglio, copiavo quel che capitava. Quando non capivo come era fatta un’immagine la ricalcavo appoggiato ai vetri della finestra. Era un modo per aiutare la mano a capire la strada che avrebbe dovuto percorrere con la matita. La cosa più bella era vedere la mano che capiva davvero, che imparava in fretta le curve e le rette e che, dopo un poco, ce la faceva da sola senza aiuti e senza bisogno di ricalcare.
Nel frattempo, tra cibi, disegni e silenzi, si alternavano le estati; e tra i brevi soggiorni in montagna e le lunghe umiliazioni marittime si infilava sempre un periodo strano.
Mia madre faceva la parrucchiera nel centro della città. Il suo salone era uno di quei posti dove le signore per bene si davano appuntamento tra loro per dimostrarsi reciprocamente di essere per bene; pare lo fossero davvero. Tra rotocalchi e complimenti sciocchi passavo le mattine d’estate a spazzare da terra i capelli tagliati, a sciogliere retine e bigodini immerso nell’anestesia delle lacche spray; le stesse che hanno creato l’attuale buco nell’ozono.
Tutte le signore si complimentavano con mia madre per la mia educazione e per i miei bei modi. Per forza, la differenza tra me e un soprammobile stava solo nel fatto che io respiravo.
Mi piacevano da morire i colori dei bigodini e quelli delle creme dall’odore acre che le signore si facevano spalmare in testa sui capelli. Dopo, una volta cotti dal calore del casco, non mi piacevano più perché sembravano capelli normali e io non capivo il senso di tutto quel lavoro.
Solo il punk, anni dopo, mi avrebbe ridato la stessa emozione estetica.
Spazzavo per terra e tenevo in ordine gli asciugamani. Prendevo complimenti e piccole mance; non era affatto male; e a mia insaputa iniziava a delinearsi una ipotesi di destino possibile. In fondo mia madre era la prima della sua stirpe ad essersi liberata dal peso di un lavoro dipendente, quella era l’impresa di famiglia, funzionava, c’erano dipendenti e la clientela non mancava di certo.
Chissà, come si diceva: un giorno tutto quello sarebbe stato mio.
Merita un appunto a parte, la tipologia di donne che mia madre e la sua socia hanno sempre scelto, come lavoranti dipendenti, in quaranta anni di lavoro. Per motivi diversi ognuna di queste ragazze risultava brutta; tutte erano bravissime, simpatiche e grandi lavoratrici, alcune di loro erano davvero molto intelligenti, ma sempre comunque inguardabili. Le possibilità ad oggi sono solo due:
La prima è che mia madre e la sua socia fossero molto più femministe e progressiste dei loro colleghi e di quanto andavano dichiarando.
La seconda ipotesi accetta il fatto che le due socie fossero, come io sostengo da tempo, due geni del marketing. Effettivamente, in quel contesto, ogni signora che usciva dal salone di bellezza era in pieno diritto di sentirsi una diva e una strafiga.
Come tutti gli ottusi non sono stato particolarmente precoce e sveglio, ma stare in mezzo a tutte quelle donne iniziava a piacermi. Nel mio immaginario confuso mescolavo forme, odori, sguardi costruivo e smontavo bellezze ideali fatte coi pezzi che avevo a disposizione. Una sorta di protoerotismo da autopsia: le gambe di questa, gli occhi di quella, un sedere di qua, una bocca di là. Dentro tutto si mescolava. Le clienti della mamma si fondevano con le altre donne viste per strada, pezzi di signore incontrate sull’autobus riapparivano nelle fotografie dei giornali.
Anche il dottor Frankenstain deve avere avuto un infanzia strana e complessa.
Poi, con suono di ghigliottina, ricominciava la scuola, le inadeguatezze, le lezioni stupide e prive di vita, gli insegnanti annoiati l’odore pessimo dei panini alla mortadella, chiusi a macerare dentrole cartelle. I miei tre anni di medie sono stati ad oggi gli anni peggiori della mia vita. In una cava a contare sassi avrei imparato molto di più.
Ma era una scuola per bene, dove vanno i ragazzi per bene, figli delle famiglie per bene e di quelle signore per bene, sempre le stesse, che si incontravano nel salone di mia madre. Una scuola davvero per bene, dove ci sono pochi meridionali e i professori sono professori. Io dovevo solo essere contento di stare in quella scuola; io che in fondo ero il figlio di una modesta famiglia piccolo borghese.
Io ero una sorta di miracolato, l’unto dal signore della scalata sociale.
Dio come era felice mia madre. Dio come sono stato di merda io.
Non avevo ancora fatto nulla, ma già sapevo che tutto questo "per bene" non avrebbe fatto per me.
Nella mia classe i ragazzi erano tutti belli, atletici e vincenti fin da allora. Tutti erano sportivi, quasi tutti erano biondi, anche se spesso in modo sospetto. Ma tutti erano molto belli. A dire il vero non proprio tutti, oltre a me e ad altri due erano scarti di produzione umana; anche un altro, in verità, era molto brutto ma era talmente ricco che la sua bruttezza non si vedeva quasi. Le ragazze, invece, non me le ricordo proprio non ho mai avuto il coraggio di guardarne una negli occhi. Con gli altri due brutti c’era una sorta d’intesa, perché anche gli scarti possono fare gruppo, ma tra di noi non potevamo dire di essere veramente amici poiché nessuno parlava. Eravamo tutti e tre troppo timidi, ci limitavamo a stare vicini durante la ricreazione, in quell’unico angolo lasciato libero dalle spavalderie sportive degli altri. Nessuno parlava, stavamo vicini con gli occhi bassi, come un gruppo di animali spaventati colti di sorpresa dalla pioggia. Io sono sempre stato convinto che anche gli altri due cadessero spesso dentro sé stessi. Forse, oltre a essere tutti brutti, ci eravamo riconosciuti, ma non posso esserne certo; tra di noi non parlavamo mai.
Implodere nello spazio che il tuo corpo ti mette a disposizione, ho scoperto molti anni dopo, è una tecnica di sopravvivenza psichica che molti detenuti sopravissuti ai campi di concentramento hanno messo in atto. Io l’ho fatto e sono sopravissuto.
Il 1978 è un anno davvero importante. Il punk arriva, per la prima volta, in Italia in prima serata su Rai 2 e, nello stesso anno, qualcuno mi chiede, sempre per la prima volta, cosa mi piacerebbe fare dopo le medie. Due momenti storici; un anno indimenticabile.
Dopo il primo tentativo di fuga il mondo si era accartocciato attorno a me, questa volta una mano amica mi regalava un paio di forbici.
La professoressa di educazione artistica mi consiglia di iscrivermi all’Istituto d’Arte; io dico subito di sì, mio padre ci pensa, mia madre sviene.
Io non so come stiano le cose adesso ma allora secondo la tradizione cittadina, l’Istituto d’arte era un covo di studenti fannulloni, sovversivi e drogati. Questi deliziosi aggettivi si utilizzavano sia per gli studenti che per i professori e peggioravano se si parlava delle studentesse e delle professoresse. Mi padre continuava a pensare e mia madre continuava a svenire.
Io tacevo ma in gran segreto iniziavo a dimagrire, camminando molto e soffrendo in silenzio. Incrociavo le dita perché si sussurrava che da qualche parte in casa ci fossero già i moduli di iscrizione che mio padre era andato a ritirare.
Millenovecentosettantanove, settembre, ore 10 del mattino
Entro per la prima volta all’istituto d’arte in una condizione mentale tra lo stato confusionale e l’euforia degli ebeti; avevo una sola domanda che mi ronzava in testa: riuscirò a sopravvivere a tutta questa eccitazione? Non sapevo cosa mi sarebbe accaduto ma per darmi un tono avevo applicato al mio zaino militare delle spillette comprate al mercato con i nomi dei miei gruppi preferiti, Sex Pistols, Devo, Clash, Ramones… certo, erano solo feticci di plastica ma riuscivano a darmi sicurezza; e poi non dimentichiamoci che il mio orso di peluche mi ha abbandonato già da alcune pagine.
Ho fatto solo pochi passi quando qualcosa di grande mi ha sollevato al grido di "hei! E’ arrivato un altro idiota!" io mi sono trovato steso a terra in mezzo ad un gruppo di ragazzi vestiti di nero con i capelli dritti in testa e tutti colorati.
Ero a casa. Cazzo!
Per la prima volta in tutta la vita il mio cervello e il mio corpo erano nello stesso posto.
Nel breve tempo di un mese avevo perso completamente ogni possibile riferimento con la mia vita precedente. L’idiota grasso con la giacca rossa e gli occhiali dorati non era morto, ma almeno restava nascosto quasi tutto il tempo. Mentre i capelli cambiavano colore io cambiavo modo di pensare alle cose e la mia mano disegnava diversamente cose diverse.
Forse tutto andava troppo veloce e il rischio era quello di perdersi in un vortice di emozioni.
Ma che fare se dai quattro ai quattordici anni ero stato un rifugiato? Chiuso dentro me stesso, in fuga costante dai bombardamenti del mondo esterno, vivevo dentro il mio uovo e partecipavo al mondo solo il minimo indispensabile; quel minimo sindacale che sancisse quotidianamente la mia appartenenza alla categoria dei vivi. Avevo chiesto asilo politico al mio cervello, nell’attesa di avere il diritto a crescere autonomamente, a dire a fare ciò che davvero pensavo. Avevo atteso il tempo in cui sarei finalmente nato con il mio permesso. Avevo visto un sacco di cose nelle mie fughe, tra un apnea e l’altra, e adesso volevo toccarle tutte con mano, capire se erano vere e, se sì, che sapore avevano. Dovevo recuperare un sacco di tempo e c’era molto lavoro da fare.
Bene, ero nel posto giusto.


Fabrizio Loschi
Gennaioduemilanove