sabato 20 dicembre 2008

IL LUOGO E L'INTENTO

Manifesto programmatico dell'associazione

di Franco Morselli
Via delle Belle Arti è innanzi tutto un suono, lo snocciolarsi di quattro parole che, nella loro semplice articolazione grammaticale, ci portano dritte al cuore del problema. Via delle belle arti è l’ideogramma fonico di un luogo il cui verbo, assente, l’azione, cioè, che in esso si svolge, o che esso svolge, nessuno può dare per scontato, mentre il predicato della via, la qualità che le dà senso, suona troppo ingenuo per prestarsi a un credibile dibattito. La discussione, che nell’epoca della modernità cerca sempre di apparire come definizione di significati, mai di valori, ha un sussulto, e si blocca. Ogni sicurezza salottiera fatta di eleganti, stilizzate, minimaliste osservazioni, vacilla prima di rifugiarsi di nuovo dietro il comodo paravento delle frasi fatte.
Ma il problema non è che la discussione avvenga sulle parole, ovvero sull’universo di suggestioni che ogni parola suscita. Il problema è nel muro sorto tra ingenuità e paura, è che davanti all’inoffensivo nome di una strada (“corso” sarebbe, per l’esattezza. Ma “via” ha un significato più vasto, in cui rientrano sia il “corso”, col suo sentore di passato, che la Via, col suo profumo di futuro) venga frettolosamente eretta una barricata di verità acquisite la cui saldezza, e il cui diritto a esistere, tendono a non essere mai verificate.
Via delle Belle Arti evoca, comunque, un luogo e, più precisamente, un luogo della città, composto, come tutti i luoghi di una città, dal dramma che vi si svolge e dalla scena che lo contiene. Appare, al passante, anche a quello più frettoloso e disattento, dominata da una facciata tanto grande da offuscare quasi quella della chiesa che fiancheggia, da rivaleggiare, addirittura, con quella del Palazzo Ducale un po’ più in là. Il senso della facciata, con il suo contenuto che nasconde ed offre, è il senso stesso dell’iniziativa alla quale abbiamo dato il nome di una strada.
Non illudiamoci. Non esiste, dietro le solenni e solari membrature architettoniche del Soli, un’altrettanto solare comunità di intenti. Spesso lo scontro tra chi vi lavora dietro si fa rude. A volte sgradevolmente ruvido. Neppure nel mondo degli artisti è rintracciabile quella serena luce da accademia neoplatonica accarezzata, forse, solo in qualche ottimistica visione simbolista. L’idillio non fa parte della mentalità artistica, che per sua natura “forgia” e per sua natura “costringe” (i materiali in senso stretto, ma anche, se possibile, quel materiale più vasto e indeterminato su cui ogni volontà vorrebbe agire: il circostante). Ma il suo costringere, sublimazione quasi astratta di ogni produttività umana, implica in sé ciò che la normale produttività non contempla, la libertà, ed in essa trova la sua più autentica ragione d’essere. E la facciata che domina la via, e che sarebbe facile tacciare di falsità da cartapesta, protegge ancora oggi, e garantisce, il contenuto di quella quarta fase della storia che Hegel previde ma non vide portata a compimento: l’epoca della libertà artistica.
Via delle Belle Arti è il nome di un’associazione che non è associazione: è il nome dell’insieme di coloro che, oltre la scenografica facciata, credono nella libertà del fare. Solo in questo senso “Via delle Belle Arti” può diventare un marchio, nel momento in cui un singolo individuo che qui lavora, o che qui ha lavorato, o che in ciò che qui si fa e si è fatto ha bene o male creduto, decida di comunicare agli altri, alla città, quei risultati materiali che sono poi il primo e l’ultimo scopo della scuola. Quando, cioè, il prodotto della personalità operante apra una porta della facciata e si mostri al pubblico. Sia chiaro: non si parla qui di attività didattiche, di pur nobilissime esercitazioni con allievi, e tanto meno di simpatici incoraggiamenti a giovani promettenti. Si tratta di precise assunzioni di responsabilità, si tratta di inserirsi con decisione in un dibattito su cosa sia il bello, su cosa sia il fare, si tratta di esporsi con il peso di una personalità formata. E si tratta, infine, del diritto della città di varcare quella porta che si è aperta. Via delle Belle Arti è marchio di ricerca, ma non di ricerca solipsistica: l’interlocutore della via non può che essere la città.
Ma il luogo è anche la storia del suo esterno, dell’incontro-scontro tra le successive ondate di necessità sempre più lontane, sempre più astratte, sempre più facili a far coincidere con le formulazioni prevedibili di burocrati che catalogano, compilano e pontificano, e l’organismo che al luogo stesso presidia. Detta così assumerebbe i toni truci dell’assedio, se non del lamento su qualcosa di già dato per sconfitto. Eppure, senza contrapposizione, resta difficile definire, e molto arduo figurarsi, nelle sue contraddizioni, il soggetto protagonista dell’azione. Possiamo leggere la storia del dramma come evoluzione, come adattamento, o come continua decadenza, ma la costante che la percorre, il soggetto che la abita, l’unica permanenza nel mare della fluidità, quasi dell’indifferenziazione, rimane il nome della strada.
È infine, in relazione con l’esterno, spazio che, ritagliando in sé una fetta di città, dalla città stessa riceve il nome come un’investitura: è il ruolo che ha assunto e rivestito e che, nell’oblio in cui gradualmente l’assedio l’ha costretto, trova nel nome il ridotto in cui riorganizzarsi. Luogo e ruolo sussistono e convivono nella originaria ingenuità del nome.
Definire un nome è ancor meno innocuo che definire un luogo, e il binomio belle arti conduce a una vacillante costellazione di giudizi la cui storia è storia di incertezze. Nel vocabolario che le è proprio ogni definizione rischia di diventare, nell’indeterminatezza necessaria per aspirare ad essere accolta, negazione di se stessa. E se un substrato di significati comuni bene o male si accende in ciascuno di noi al suono del sostantivo arte (rapporto determinato di volontà e materia, abilità riconoscibile di colui che opera, ecc.), il suono dell’aggettivo ci precipita invece in un terreno di ferite mai rimarginate. Il regno del bello, ed il suo ruolo, ci risospingono ancora, in negativo, ai territori che lo circoscrivono.
Che, parlando di città, si parli di politica, è, dal punto di vista etimologico, una tautologia. Ma non sarebbe politica di piccolo cabotaggio, strumentale a qualche formazione contingente, stilare una storia dell’intreccio tra il brutto e il bello che ha attraversato i secoli di Modena. Dalla vendita di Dresda all’ostilità della corte verso Guarino Guarini i punti oscuri non mancano nemmeno nel passato. L’esame della contemporaneità, terreno eminentemente politico e delicato, potrebbe essere sfiorato meditando un attimo, ad esempio, sulla presenza o meno di ecomostri. La bussola del bello, comunque lo si voglia definire, non è mai stata, nella storia della città, particolarmente ferma. Ma neppure ci ha abbandonati ad una completa deriva. Le componenti storiche della spiritualità modenese, la modenesità più autentica, sia che si tratti delle antiche famiglie gentilizie, compresa quella ducale, sia che si tratti delle attuali forze sociali, hanno sempre tenuto aperto un canale attivo verso un’etica della collettività che si trasformasse anche in qualità del vivere e, di conseguenza, in immagine urbana. La nascita di una scuola d’arte, alla fine del diciottesimo secolo, va in questa direzione, e apre la strada a quel nucleo di passioni e competenze che fornisce il nome alla strada stessa. È nel riconoscimento di questa opposizione, la rotta virtuosa e la deriva, che il bello trova finalmente una sua definizione, lontana da ogni pretesa di teorizzazione estetica che farebbe sorridere chiunque. Il bello è, per la città, il contenuto teleologico indissolubile dall’idea di qualità. È, in altre parole, non un astratto concetto filosofico, ma, più ancora che una direzione, una tensione morale in grado di animare chiunque operi al di fuori e oltre il campo dell’immediata economia produttiva. Solo in questo modo, in questa accezione quasi sottintesa, indice di onestà più che di certezze, la parola bello riacquista il suo diritto di accesso ad ogni argomentazione relativa all’operare, e illumina di un senso quella che fino ad ora restava una semplice denominazione topografica.
I punti fermi, dati per acquisiti nel dibattito sulla bellezza che ci accompagna ormai da più di cento anni, non hanno motivo di essere messi in discussione. Il bello è storicizzato, è contenuto sedimentato, oscilla col fluttuare dei tempi senza essere mai uguale a se stesso. Ma il relativismo necessario della definizione si scontra con la stabilità del ruolo. Il ruolo della bellezza è immobile: è una di quelle categorie dello spirito umano che da Platone in poi sono state chiamate idee. Ed è appunto sul ruolo, e non su estetizzanti teorie, che deve soffermarsi la nostra attenzione. L’eredità che il duca Ercole III lasciò alla città con la fondazione di una scuola d’arte non muta, così come non muta la denominazione della strada che la ospita. E in questo ruolo infine, epifania sensibile di un Telos che altro non è se non volontà di civiltà e cultura, l’assedio si rivela per ciò che è e deve essere: conciliazione e collaborazione tra una via supportata da un nome e la città circostante che la ospita.

La grande facciata, proiezione razionalista della razionale libertà del fare che si sarebbe dovuta celebrare alle sue spalle, oggi protegge meno di un terzo di ciò che la scuola offre ai giovani che la frequentano. Gran parte degli studi e delle attività si sono trasferiti altrove, ed altre vie ogni mattina si animano della variopinta vitalità degli aspiranti artisti. Ancor più, l’arte con la “a” maiuscola, quella con i sigilli della ufficialità planetaria, ha disperso negli infiniti rivoli della pseudo individualizzazione l’originaria promessa della libertà alla quale la soggettività romantica si preparò a condurla. Chiunque vada in giro per gallerie, dal più minuscolo centro di provincia alla più importante metropoli cosmopolita, tocca con mano l’inafferrabilità di ciò che cerca. Ma, nonostante tutto, porsi la questione se, a XX secolo concluso, valga la pena di mettere in discussione quelle che sono le più intime motivazioni che muovono una scuola all’educazione all’arte, e di estroflettersi al giudizio collettivo quasi come se nulla fosse successo, resta una domanda retorica. Non è una questione di valerne la pena: è un dovere. Quanto più il concetto al quale si gira intorno è inafferrabile, tanto più i muri della scuola, Corso Belle Arti o Via Dei Servi che sia, non possono farsi complici di un sentimento che potrebbe ricordare la vergogna. Quanto più il concetto è inafferrabile, tanto più la città ha la necessità di allargare il relativo dibattito estendendone la partecipazione a chi più è abituato a pensare in quei termini di astrazione che non dimenticano mai le finalità ultime. Se la facciata sembra tenersi in serbo gelosamente, quasi gelidamente, la sua interna e misteriosa essenza, è la via che dà il nome al mistero e lo disvela. Solo in questo senso lo scambio si rende necessario, osmosi naturale tra il dentro e il fuori della stessa cosa unitariamente percepita. E l’aura che il nome della via automaticamente evoca non può sottrarsi dall’aleggiare sulla città intera.

Quest’aura si condensa per noi, almeno in questa prima fase, nella Galleria delle Statue, splendido locale all’interno della antica scuola e che sulla via direttamente affaccia. È destinata a diventare la sede permanente della raccolta di calchi in gesso di alcune tra le più importanti statue della storia, preziosa eredità della originaria vocazione accademica della scuola stessa. Ed è, nei nostri intenti, la oggettivizzazione necessaria di quel terzo termine che, accanto a “forma” e “contenuto”, pilastri accettati di ogni teoria estetica, completa da almeno due secoli ogni atto artistico. È il contenente, involucro che non si maschera dietro la falsa asetticità di un mero contenitore, tendenziosa scatola solo apparentemente neutrale, ma che nella trasparente triangolazione dialettica con i due primi termini sancisce la qualità dell’evento. Dall’epoca dei salon in poi, il rivelarsi sensibile del contenuto artistico può prendere forma solo in un luogo che sia già di per sé legittimo. Forse, a ben guardare, più ancora che la firma, è questo il più intimo contenuto di verità di tanta arte, almeno dal ready made in poi. Ma il problema della legittimità, in arte, è il problema stesso della sua definizione, e si rischierebbe di riprecipitare ancora nel pozzo senza fondo dal quale eravamo appena usciti, se non fosse per le qualità immediate, per la bellezza immediatamente percepibile, che la Galleria delle Statue offre di se stessa. Queste qualità, questa bellezza, ha un nome solo: storia. È la storia delle arti che qui si è voluta raccogliere come in un reliquiario ed è la tranquilla, composta, indulgente e incoraggiante benedizione che dalle statue, come da sereni dei dell’Olimpo, sembra scendere benefica su coloro che, ai loro piedi, hanno l’ambizione, e la passione, per raccoglierne l’eredità. Non è una sala asettica e neppure un salotto minimalista quella che accoglie le opere di chi frequenta la “Via delle Belle Arti”. È, al contrario, una sala profondamente segnata dalla storia di cui quelle opere, forse, aspirerebbero a essere, in senso cronologico, gli ultimi prodotti. Il valore del contenente, la qualità legittimante è, in questa sala, la sua storia. Storia è il suo marchio, e all’interno di questo suo pregnante carattere ha l’ambizione di collocarsi tutta la sua attività di promozione e ricerca.