venerdì 4 dicembre 2009

Vincenzo Carlomagno.

Cinque poesie tratte dalla raccolta "Con gli occhi socchiusi". (Con una nota critica di Jean Robaey).



"una stanchezza ebbra"

Le poesie di "Con gli occhi socchiusi" convincono subito, alla prima lettura, alla prima occhiata. Poesie scritte da chi non scrive poesie, o meglio da chi non aveva, finora, scritto poesie. Si presentano come il precipitare di una vita, vita comunque dedicata all’arte.
Quelle che seguono sono solo poche note, che si potrebbero e dovrebbero approfondire, seguendo altri punti di vista, aprendo e sviluppando altre tracce.
La poesia è come un cristallo, funziona se è autentica. L’importante è non strafare, non volere dire tutto: la poesia dice spesso, se non sempre, troppo e, in chi non pratica con un minimo di continuità l’arte dei versi, dice spesso troppo facilmente. Le doti necessarie a questo punto sono l’umiltà e l’attenzione. Attenzione verso le cose e umiltà dello sguardo. Vincenzo Carlomagno possiede entrambe queste qualità: i suoi testi rivelano quella che si potrebbe chiamare una lentezza, o meglio un’insistenza dell’occhio e dell’osservazione.
In effetti basta dire i colori, i loro toni, il loro adagiarsi sulla carta, entro certi spazi. La partenza di questi testi è spesso una registrazione di colori, con i loro nomi giusti e, per chi non è del mestiere, magici: "Cobalti e viola sovrattono, / rubino incupito, vinaccia virata al marrone", "Inchiostri, bitumi, ceneri, polveri, / olio, impronte di pittura", "Cera, olio, smalto". Tale registrazione può anche verificarsi in una felice ripresa all’interno del testo; si creano magmi: "[…] – Il colore del mattone, / i cantonali di pietre d’Istria, / il ritmo binato degli archi e delle navate, / le trabeazioni, i fregi rigonfi, / le balaustre, i torricini prismici, / i cartigli e i trofei, i grandi stemmi, / i fregi, le cimase bizzarre". Più raramente, e brevemente, essenzialmente, i testi si tornano a chiudere sui colori: "tra le stesure magre di ragia / e i toni disagiati di un bianco intristito", " di un azzurro smeraldo / e di un rosso troppo slavato", "tra i rossi vinosi e squillanti dei mattoni".
Il fatto è che le cose da dipingere sono sempre più in là di noi. E richiedono da noi abbandono: a cui Carlomagno cede, da cui parte e a cui ritorna, con un forte senso di emozione; e le due parole, e i due concetti, dell’abbandono e dell’emozione si ritrovano nei suoi testi (citiamo almeno un verso cardine della poetica dell’autore: "mentre mi abbandono tra i colori"). Un senso di tristezza pervade questa poesia, un senso di sconfitta rimane. Il groviglio di questi sentimenti è il motore della poesia di Carlomagno: "in una sorta di stanchezza ebbra", come dice perfettamente.
Sono poesie che chiamano la pittura, non ne sono chiamate, né l’adornano o la spiegano: nessuna qui è ancilla dell’altra. È come se l’artista non avesse tempo, o forza fisica o morale sufficiente per fare un dipinto, e intanto annotasse urgenze: "nell’ansiosa attesa", come dice ancora perfettamente.
Certo siamo sempre vicini alla pittura e si riconoscono indubbiamente nelle sue poesie, come in una forma ideale, i quadri dell’artista.
Ma sono poesie a tutti gli effetti. Ritroviamo la pratica novecentesca dei versi rientrati, che ci costringono ogni volta a guardare di nuovo, che riportano la nostra attenzione su nuove forme, nuovi colori. Molti versi sono sapientemente cesurati e mettono in evidenza (a volte con la sola virtù dei suoni) i blocchi che li compongono: "tra le stesure magre di ragia" (ancora), "spazio nello spazio, luce nella luce" (lo sa, Vincenzo, di fare qui il verso al Corano?), "di luce sfolgorante e di ombra densa", "i muri umidi unti di inchiostri e di olii", "Segno dopo segno, uno scavo visivo". Altri sono quasi interamente costruiti sull’armonia dei suoni: "di color amaranto e d’aromi", "e s’incunea nelle fessure della superficie", "lieti e leggeri", "tra le stesure magre di ragia" (ancora!). Leggiamo degli a capo stranianti o comunque significativi (le cosiddette, con vocabolo non del tutto lecito ma splendido, inarcature): "Una siepe, una panchina e / lo spazio desolato di un giardino" (e tutta la desolazione, tutta la stanchezza del giardino è già detta, o ne è contraddetta, dall’attesa provocata da quell’"e" che non chiude). A volte il verso sembra dilatarsi all’infinito: "respirano nella placida dissolvenza del cielo", e, almeno una volta, la citazione, magari inconscia e comunque filtrata, è sicura: il doppio settenario, fortemente scandito, "e l’immenso stupore dei profondi silenzi" non può non presupporre L’Infinito leopardiano; quasi ritrovando la matrice di questo nella prosa verticale e fortemente scandita di Pascal: "Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraye", ‘Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi spaventa’.
Poche, rarissime volte, il testo cede: forse quando l’emozione è troppo forte o forse, più semplicemente o nello stesso tempo, quando la ragione prende il sopravvento sulla percezione. Quando i colori arretrano e le parole vogliono dire… Ma il testo proprio da quel cedimento sa rialzarsi. Dovremmo qui citare troppo a lungo, troppi versi; ci limitiamo a rimandare a Archeologie (trittico I) di cui citiamo la sola chiusa: "Una riga rossa, quella viola / e un campo azzurro. / Struttura, ragione / ma anche la vaga idea di un orizzonte".
Queste le cose più belle: la perfezione dei testi scritti a tutto tondo; l’apertura e la complessità delle serie, prima di tutto i vari Paesaggio (da I a VII). L’ultimo Trittico (Assenze) con cui si chiude la raccolta e che palesa, come abbiamo visto, un accento pascaliano, rimane notevole. E ci fa desiderare che il poeta si rimetta a cantare: "Senza compiacenze: / il blu, il nero, l’argento, / e l’immenso stupore dei profondi silenzi / tra le inutili rivelazioni di un segno".
Ci fa sperare che riesca a vincere il senso di desolazione che pur gli ha dato la voce.

Jean Robaey






oggi è ottobre

Tra i canali un incurvarsi di ombre
in distesa rinuncia
e lungo il soleggiato anello del sentiero
vecchie sagome di legno
quasi tutte sulle tinte di un rosso
appena un po’ sanguigno e umoroso.
Oggi è ottobre e tutto è natura,
di color amaranto e d’aromi.
Tra le vigne sommerse
un arancione di spatola
tra le pietre levigate
bruni inossidati.
Dalle finestre aperte tutto è chiarità,
moventi e movimenti tendono al nulla.
Oggi guarderò le cose in un altro modo.




ad ogni occhiata ( è una cattedrale )

E’ una distesa senza spazio.
È come un susseguirsi incontrollato
di forme in libertà.
- Il colore del mattone,
i cantonali di pietra d’Istria,
il ritmo binato degli archi e delle navate,
le trabeazioni, i fregi rigonfi,
le balaustre, i torricini prismici,
i cartigli e i trofei, i grandi stemmi,
i fregi, le cimase bizzarre.
È un’atmosfera che vivifica ogni cosa
che si insinua, stimola e si trasforma.
Ad ogni occhiata è spazio è luce
è immediata vicinanza e infinita lontananza.
È l’impasto delle linee estremamente sottili
che mitigano la durezza del segno
nel morbido aspetto della superficie.




le periferie

Le periferie;
le attraverso spesso e velocemente
con gli inchiostri rossi, verdi,
azzurri, viola,
neri nel loro irritarsi
e slogarsi, in tumulto di curve
che si scompaginano e rimontano
in accumuli affannati.
C’è sempre una bellezza pericolante
tra le larghe costruzioni,
le demolizioni e quei muri
che cadono uno ad uno.
Sembrano come velati
- da una membrana di colore,
dalla tonalità minore
degli azzurri imbigiti
e degli ocra deperiti a terra spenta.



con gli occhi socchiusi

Stupore e sorpresa.
Ed ecco il colore disteso
con larghezza audace tra i piani ribaltati
e le linee prospettiche fuggenti
di luce sfolgorante e di ombra densa.
Nitidi e assorti.
Il rosso iconico, il rosso orientale,
il verde tenero, il verde bruciato,
il blu orizzontale, i gialli disseccati…..
è come l’invenzione di un paesaggio
con gli occhi socchiusi.



geografia di cieli

A volte nella geografia di certi cieli
si respirano sconfinate lunghezze
di vita in movimento.
Ma la corpulenta nuvola grigia,
che nell’idea di corsa
finge l’infinito,
nella misura delle cose
svela l’imbroglio.

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