domenica 29 marzo 2009

SELENITI


Nota critica alla mostra di Andrea Tedeschi



di Stefano Bulgarelli

Scrivere di un opera così profonda e vera come quella realizzata da Andrea Tedeschi, significa non solo muoversi verso un'interpretazione di quelli che sono i significati che in essa si ravvisano, racchiusi nella forma con cui si presenta al mondo, ma interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto l'autore verso quel tipo di creazione, e, una volta individuate, procedere verso quell' "oltre" in cui la stessa attività critica sente il bisogno di ridefinirsi cercando di individuare i propri scopi. In un percorso che dall'esterno si muove verso l'interno, attraverso una visione cosciente in grado di consentirci di prendere possesso dell'opera in maniera globale, devono essere poste, in principio, le ragioni di un dialogo inteso come confronto e scambio tra noi e quanto nell'opera stessa è contenuto, quindi tra noi e il proprio autore, e tra noi e il nostro io.
I Seleniti, figure senza nome, post-umani neutri e silenziosi che brillano di una luce non terrena, sono il punto dal quale partire. Sono corpi vuoti ed estranei, senza volto e senza mani e piedi, eppure, paradossalmente, presenti in maniera pietosamente fisica a partire dalla loro grandezza naturale, così come "naturale" è il loro indossare vesti umane, in modo da rendere ancora più forte e drammatico il dialogo che con essi stabiliamo. Sono stati creati anche in funzione dello spazio in cui si trovano a vivere, la sala delle statue di quella che fu la gloriosa Accademia Atesina di Belle Arti. In questo risiedono altre ragioni del loro essere. Il gesso, è la materia manipolata che accomuna quelle più antiche statue, intrise di storia e di cultura, ai contemporanei Seleniti. Gessi entrambi dunque, ed entrambi frutto di un'operazione artistica che ha nutrito quelle sculture di pensiero, di una volontà e di un intenzione. Comunicare ideali alti, le prime: il buongoverno di sé e della società, la rettitudine etica e morale racchiusa nella forma bella e quindi buona dell'ideale classico; comunicare l'incomunicabilità, i secondi, e con essa una condizione non più luminosa e alta, ma bassa e oscura, poiché terribilmente vera e attuale. E' il caos contro l'ordine.
Le più antiche statue, rivolte verso il mondo moralizzante dell'idea di cui sono custodie, hanno per secoli rappresentato modelli da ripetere per generazioni di studenti. Esse stesse, poi, sono modelli riprodotti in gesso su scala industriale e riflesso di un gusto "ufficiale" calato dall'alto, qual è quello dell'Accademia, ovvero del mondo della regola, della ripetizione, del politicamente corretto; è il principio - o uno dei tanti - di un processo di omologazione legittimata, che in futuro trasformandosi e mutandone i fini, avrebbe rappresentato una realtà universalmente diffusa.
I Seleniti rappresentano quella realtà, il cui ultimo stadio è dato dal nostro presente post-industriale e post-tecnologico. Essi si fanno traduttori, nella forma che li appartiene, di un pensiero cosciente da parte del proprio autore sviluppato quotidianamente attraverso la pratica dell'insegnamento. L'incomunicabilità che si crea col suo pubblico di interlocutori, il silenzio che si stabilisce fra loro, è stato materia di riflessioni poi tradotte in stimoli creativi. I Seleniti diventano così forme simboliche di una nebulosa studentesca che trasmette il proprio vuoto interiore, il non essere in grado di comprendere un certo tipo di linguaggio, il non reggerne e non stabilirne di conseguenza le ragioni di un dialogo. Ma sono anche molto altro: sono il frutto di un sistema che nutre i suoi figli con lo stimolo vuoto della logica del consumo e l'appiattimento che da essa deriva. Anche i Seleniti, dunque, con tutto quello che rappresentano, hanno dietro l'omologazione. A differenza però delle più antiche statue, essi non diventano modello per nessuno, se non per se stessi.
Se così si può concludere il rapporto tra l'opera e il proprio autore, per le ragioni che l'hanno portata alla luce, ancora bisogna aggiungere come essa mostri d'essere parte di una discorso assai più ampio. Si rintraccia così, come sfondo dei Seleniti, quella crisi della ragione che attraversa il pensiero del Novecento in tutte le sue manifestazioni. Dietro a quel senso di impalpabilità e di incertezza fisica che è un ulteriore aspetto che li caratterizza, c'è la stessa dissoluzione linguistica specchio della condizione contemporanea che ritroviamo già nella poesia della neoavanguardia, nel nouveau roman e nella musica di John Cage.
Uno stato delle cose che alimenta ulteriori interrogativi: c'è vita oltre quel muro di silenzio e di seriale riproducibilità? E' possibile cogliere un respiro, un flusso di esistenza, seppure minimo, alla base di ciò che non ha forma interiore, pur mostrandosi esternamente vestito secondo le regole del gruppo a cui appartiene?
Non sta a noi rispondere. Di certo, c'è che nel silenzio di una condizione azzerata si ritrovano lo spazio e il tempo della riflessione e dell'analisi, che è sempre auto-riflessione e ritrovamento di se stessi nell'altro. Perché nell'esercizio critico risolto nella scrittura, ciò che sta al di fuori divenendo l'oggetto del discorso, si pone come strumento, fonte e stimolo di indagine personale. In questo senso, attraverso lo sguardo e l'osservazione cosciente che da esso deriva, i Seleniti ci pongono di fronte a noi stessi obbligandoci ad interrogare il nostro io, proiettandolo verso territori nuovi e indefinibili. Impiegando come supporto visivo il video che completa l'opera, raffigurante un Selenite colto in un perenne e costante peregrinare, l'unico dato certo che ci rimane è che forse solamente da questa consapevolezza e dallo sforzo che essa richiede, possiamo trovare le risposte che stiamo cercando.

L'UOMO NUDO E L'UOMO INCAPPUCCIATO

Divagazioni demodé sui Seleniti di Andrea Tedeschi


di Franco Morselli

Con la terza mostra si chiude il ciclo di esposizioni che l’associazione Via delle Belle Arti ha organizzato per la stagione 2008 – 2009. E’ dedicata ad Andrea Tedeschi, il primo dei tre artisti a vincolare il proprio messaggio unicamente alla scultura. Per ogni artista il medium concreto non è mai casuale, e la scelta di Andrea impone una serie di riflessioni che tentino di afferrarne non solo il senso interno, ma il filo conduttore che ne lega gli esiti alle problematiche che Cinzia e Mattia avevano lasciate aperte. L’intervento di Andrea Tedeschi può essere letto come una risposta, la prima, ad una domanda che in Cinzia urgeva remota dalle profondità dell’inconscio e che in Mattia si era fatta strada attraverso la artisticamente collaudata forma dell’enigma: adempiendo semplicemente al proprio ruolo di scultore, l’artigiano Andrea ha fatto apparire l’uomo. Ma nel nome che, come ogni demiurgo che si rispetti, ha immediatamente imposto alla creatura da lui plasmata, la risposta sembra negare già se stessa e riaprire le porte al dubbio. Il Selenita comparso tra le statue classiche è degno di tale investitura?
In arte, e in ogni testo di presentazione all’arte, i riferimenti e le citazioni concorrono alla definizione delle idee con la chiarezza e l’esattezza di simboli universali. Anche per Andrea la citazione è pronta, e l’uso che fa del gesso in questa fase di ricerca ha un precedente ovvio: George Segal. In Segal la forma umana assume, del soggetto, posizione e ruolo solo in rapporto allo sterminato campo di oggetti con cui si relaziona. Ma, così come gli oggetti, fenomenologia contingente della più prolifica tra le epoche produttive, permangono immobili nella loro intercambiabile accidentalità senza alcuna aspirazione al ruolo di Oggetto in sé, così il gesso, che dell’uomo assume solo la forma e la postura, di questa relazione col nulla si accontenta e in essa si esaurisce. Svuotata di ogni assoluto la prima relazione sintattica che la logica elementare offre al fanciullo, George Segal ce ne pone davanti ciò che resta: il CaSO4 come semplice concrezione chimica di un uomo senza qualità.
Al posto del mondo fantasmagorico ma indifferenziato in cui si muoveva Segal, nella installazione di Tedeschi l’aspirante protagonista ha per sfondo un’intera galleria e come interlocutori le statue classiche, ovvero quanto di più lontano esista da quel mondo. La greve contingenza della contemporaneità, che nel preteso soggetto accomuna i due, schiacciata da Andrea sotto un cappuccio come sotto una maschera che ne protegga l’inconsistente personalità, incontra, invece del prodotto di consumo, la nudità olimpica di chi si è sempre spacciato come eterno. La dialettica che ne scaturisce è violenta, e la crudezza del contrasto è ben messa in risalto da Stefano Bulgarelli nel suo scritto. Tre giudizi esprimono con chirurgica precisione altrettanti gradi di percezione della mostra: il primo riguarda le figure esposte, presenti in maniera pietosamente fisica; il secondo circoscrive il senso stesso dell’evento: il caos contro l’ordine; l’ultimo fa propria una sensazione sgradevole alla quale è difficile sottrarsi: che di altro non si tratti, in fondo, che di una nebulosa studentesca, ben conosciuta da chi nella scuola vive e lavora, vuoto risultato del vuoto mondo che la esprime. Ma su un punto, a ben guardare, si potrebbe dissentire dall’opinione di Bulgarelli: quando sostiene che i Seleniti, a differenza delle statue classiche, non diventano modello per nessuno. Ed è su questo punto che vale la pena di soffermarsi per una riflessione. Anche i Seleniti forse, come gli dei beati, hanno una loro storia.
La storia dei Seleniti è la storia stessa del cappuccio e dell’uomo che lo indossa. Lo stridente attrito che prende vita nella Galleria delle Statue è la proiezione di un contrasto al quale le grandi ere dello spirito ci hanno lungamente preparato. Così come per la mostra di Cinzia Ghioldi a un certo punto sentimmo l’esigenza di alzare gli occhi dalle singole opere al locale che le ospitava, con la mostra di Andrea siamo giunti al momento di alzare ancora di più lo sguardo, e estenderlo alla città intera, e oltre. L’uomo nudo e l’uomo incappucciato si alternano e si scontrano nella storia. È lo scontro tra l’espressione rassegnata e sottomessa alle forze fisiche che la natura impone e l’emancipato disprezzo, l’aristocratica noncuranza, ad esse opposta da chi ha fatto del pensiero l’unica ragione d’essere. È un rapporto preciso tra due mondi, quello della classicità e quello del medioevo, riscontrabile in due opposte auree sul cui sfondo spiccano forti immagini plastiche quali, ad esempio, l’Apollo del Belvedere ed il Lamech di Modena. E l’enfasi che nel confronto tra le rispettive anatomie acquistano i due colli ci riporta alle fredde funzioni che, differenziate ma non scisse nel Timeo di Platone, regnano nel corpo dell’individuo così come in quello della società. È il mondo delle forze subite e quello delle forze imposte. È il mondo dei cittadini e quello degli iloti che, ostentatamente ignorati in quella che fu la culla di ogni poesia, avrebbero dovuto attendere sottomessi i rassegnati telamoni romanici che li cantassero, quasi come se il duomo stesso, coi suoi refrattari spessori da saio pietrificato, potesse essere letto come l’antitesi dell’aerea, solare, elastica nudità del Partenone. È il mondo, demodé in questi tempi di un po’ clownesca euforia sociale, della divisione del lavoro e della sua storia, sempre sottintesa o sottaciuta, sempre "incappucciata".
Anche il Selenita è eterno, e a ritroso possiamo ricostruire la sua storia. È la storia del lavoro pronto all’uso, dell’identificazione dell’uomo con la massa, del serbatoio sempre pieno della schiavitù da cui attingere. È la storia di una figura sociale il cui ultimo erede, oggi, accetta di scambiare la propria autonomia con un uniforme ritmo martellante, e la propria libertà con una regolare sincope, quasi uno spasmo, con cui un piede, una mano, la testa, accompagnano l’attesa di una sempre delusa possibilità, la ressa per un forzato evento, o un imbrancamento qualsiasi, magari nell’attesa di una retribuzione davanti alla vetrina del lavoro interinale. Solo in questo nulla, forse, il selenita attuale può vantare una unicità rispetto ai suoi predecessori, nell’illusione che scambia la schiavitù per libertà, nel fremere continuo e senza scopo, nel dimenarsi insensato e uniforme dell’esca viva nel sacchetto, come se il puro moto fosse la vita stessa, e quel fremere fosse sufficiente a circoscriverne l’individualità e la preservasse dalla presa fatale di indifferenti dita.
All’interno della elementare analisi logica insita nella bipolarità uomo-oggetto di Segal qualcosa, in Tedeschi, si è fatta strada. Il secondo termine, il complemento, in questo caso la pretesa dell’immobilità accademica, getta, come avveniva per le precedenti mostre, una nuova luce sul primo termine, e lo legittima. Non più contingenza di un prodotto accidentale nel quale solo il nulla si rispecchia, le potenze spirituali immobili solo perché eterne scoprono, e ci mostrano, il contenuto di immobilità, e di eternità, anche in quello che fino ad ora altro non era sembrato che un semplice fantoccio. Il lavoratore sotterraneo, l’artefice inconsapevole ma buono a tutto, il disprezzabile e ignobile nibelungo, scopre la sua complementarietà coi luminosi Asen. Non è ancora la dialettica hegeliana padrone-servo, non è ancora il movimento con il quale il secondo si sostituisce al primo, ma è il riconoscimento, al contrario, di una immobilità comune, proiezione di una duplice eternità che nella tipizzazione della statua si riconosce reciprocamente. Accanto al sostanziale, alle potenze palesi di ciò che volentieri viene scambiato per accademia incancrenita, gesso accanto a gesso, soggetto accanto a soggetto, di fronte al Selenita si delinea il vero oggetto, l’altro, la potenza occulta che lo alleva e che lo schiaccerà tra le sue impietose dita. Riconoscere la storia, e trarne luce, è riconoscere la propria identità, la propria coscienza, la propria appartenenza ad un organismo sociale che, con un termine ormai inusuale, potremmo definire "classe".
Il Selenita che corre sullo schermo non contraddice ancora la lezione dell’eleatico maestro. Ma un nuovo calco, recalcitrante e ottuso, popola, dopo tempi immemori, la Galleria delle Statue. Ancora una volta, come nella minacciosa profezia di Zola, eredi forse di antenati che deformi, affaticati e incerti cercavano la via della salvezza tra i labirintici racemi di una cattedrale romanica, "spuntavano degli uomini, un esercito nero, vendicatore, che germogliava lentamente tra le zolle, crescendo per il raccolto del secolo futuro, e la cui germinazione avrebbe fatto presto scoppiare la terra".