domenica 6 dicembre 2009

VINCENZO CARLOMAGNO



Alle origini del paesaggio


Silvia Ferrari


Natura, spazio, colore: questo il lessico primario dei paesaggi di Vincenzo Carlomagno, gli elementi minimi declinati in infinite varianti, ognuna capace di esprimere una suggestione sempre diversa, un nuovo racconto, una visione continuamente mutata di quel rapporto spirituale esistente tra l'uomo e la natura.
La serie di paesaggi presentati oggi appartiene a un corpus di opere su carta di piccolo formato, realizzate tra il 1997 e il 2005, un periodo relativamente lungo se si considera la qualità eclettica del lavoro dell'autore, come a indicare una stagione particolarmente intensa del suo percorso e forse il nodo più problematico in cui evidentemente temi e motivi formali hanno trovato pieno sviluppo in una riflessione insistita e profonda, talvolta con esiti di distesa armonia, talvolta con accenti più drammatici.
Di fronte alle vedute sconfinate, estreme e prive di ogni elemento che non sia l'orizzonte, la terra e il cielo; di fronte allo sguardo assoluto e totalizzante su un mondo che nel mutare delle condizioni e dei colori pare racchiudere il mistero dell'esistenza, si è testimoni silenziosi del dispiegarsi di uno scambio puro e diretto tra sentimento e natura, del rapporto contemplativo tra l'animo umano e l'intima essenza del mondo.
Nell'estrema semplificazione dell'immagine, così come nella riduzione della rappresentazione a un'essenziale equilibrio tra composizione e valori cromatici, è ravvisabile non soltanto una visione virginale del paesaggio, ma anche una stretta corrispondenza tra emotività del soggetto e la parvenza esterna della natura. Un paesaggio al limite, quindi, luogo di una soggettività assoluta, dove è portato all'estremo il confine tra visione naturale e visione immaginaria.
La pittura diviene così condizione ideale per sperimentare e verificare il concetto stesso di paesaggio ancor prima del manifestarsi dell'immagine, soprattutto nella sua essenza di "spazio che si costituisce oggetto di esperienza estetica e soggetto di giudizio estetico", come viene definito da Rosario Assunto nel libro Il paesaggio e l'estetica, dove si deduce che "il paesaggio è spazio, ma non soltanto spazio. [...] E' più che spazio soltanto". Se è vero che nelle opere di Carlomagno il senso dello spazio ha un valore fondante non solo in ambito formale, ma anche e soprattutto concettuale, è altrettanto vero che è in quel più che va ricercato il senso più profondo della sua personale interpretazione del paesaggio, un senso che si spiega nella disposizione dell'autore a proiettare fuori di sé, sugli aspetti del mondo naturale, il proprio io fino a tradurre la natura stessa in un grandioso scenario esistenziale dei propri paesaggi interiori.
Ecco allora come il rigore compositivo, che affida alla linea dell'orizzonte l'organizzazione visuale dello spazio, solidamente strutturato tra alto e basso, arriva a privarsi di quasi ogni appiglio visuale per l'occhio per disegnare distanze non misurabili, come a dire di una natura inconoscibile, oggetto di un confronto ineluttabile che può divenire minaccioso, oscuro e perturbante, laddove espliciti segni annunciano tale intonazione emotiva; così appaiono le sagome nere dei rari arbusti o degli alberi dalle chiome dense e disegnate come vortici di materia, che gettano altrettante ombre sul terreno come anime inquiete; o le colonne di fumo grigio che salgono da un punto indefinito in lontananza, forze premonitrici di infausti eventi; o i cieli addensati di nubi livide rese impetuose da un gesto pittorico irruente; o, infine, i campi incolti arruffati da grovigli di segni a pastello sconvolti da spinte invisibili.
La capacità evocativa viene qui conferita all'organizzazione tonale e all'intensità gestuale e materica della pittura; la pennellata energica, rapida e densa si sovrappone al rigore della scansione spaziale dell'immagine, interrompendo il nitore dell'architettura visuale e lasciando all'esperienza del colore, di quei "colori affaticati dal tempo", pura libertà espressiva fino a giungere ad esiti di estrema astrazione formale. La stessa libertà espressiva, lo stesso procedere per assenza di struttura narrativa, la stessa trasgressione dei codici imitativi che si ritrovano nei versi poetici che accompagnano la ricerca visiva dell'autore, una consonanza linguistica tra pittura e poesia che si avvale dei medesimi intendimenti formali.
Ma questa totale adesione al sentimento della natura sa restituire anche significati di un'affettività più serena, dove l'uomo sembra ricostituire un rapporto misurato, di calma meditazione; così appare con maggiore evidenza nelle opere dove prevale un'accentuazione della costruzione prospettica dello spazio, quando, cioè, la struttura spaziale dell'immagine si impone alla forza del colore e si preoccupa di costruire piani digradanti per creare una profondità. In tali esempi si fa più nitida la definizione della forma, mentre il colore e la pennellata assumono un tono certamente meno drammatico, per generare una dimensione di più classica, pacata armonia.
Di altra intonazione i paesaggi, parte di un gruppo di opere a pastello, caratterizzati da toni vivaci e contrastanti e dal segno deciso e veloce: particolari di tronchi nodosi, vedute di spiagge, litorali lontani, vegetazioni marine e lingue di terra viste attraverso l'impedimento in primo piano di parvenze di sottili fusti di alberi, canneti che dividono la superficie cartacea in campi consecutivi secondo cadenze ritmiche solo apparentemente casuali che conferiscono alle immagini inconsuete soluzioni visive.
L'aspetto contemplativo e riflessivo è all'origine della ricerca sul paesaggio di Carlomagno; in particolare il generare quella linea d'orizzonte, il separare il campo visivo con quella retta che definisce per sempre ciò che è cielo e ciò che è terra non può prescindere dalle speculazioni filosofiche sull'infinito e sulla limitatezza. Il paesaggio è sì uno spazio limitato, ciò che viene scelto dallo sguardo perché adatto a ritrarsi in pittura, riportato nel campo definito e chiuso del quadro; ma è anche uno spazio aperto sull'infinito; è, cioè, come ancora sottolinea Rosario Assunto, "presenza dell'infinito nel finito". Se infatti il cielo in sé non può essere considerato paesaggio, la sua presenza all'interno dell'opera contribuisce a definire il paesaggio stesso. Giacomo Leopardi ha parlato dell'infinito in un paesaggio limitato dalla presenza di una siepe, mettendo in evidenza la centralità del limite. L'orizzonte delinea quel limite, aprendo lo spazio all'infinità del pensiero, uno spazio che, si noterà, non è mai vuoto, bensì denso di materia ansiosa, mutamento continuo, divenire di sentimenti e stati d'animo di ciò che si rivela essere la limitatezza dell'uomo di fronte alla natura.
In questo sguardo visionario sul mondo e sui suoi fenomeni, anche la luce rivela la propria origine spirituale e non più naturale; albe, tramonti, pomeriggi non esprimono tanto condizioni atmosferiche, ma l'aura di un tempo metafisico, rappresentazione del tempo infinito, immutevole, identità che attraversa il passato e il futuro senza alterarsi.
Guardare i paesaggi sfuggenti, silenziosi e deserti dove in nessun modo compare la presenza umana e avvertirne invece la spiritualità così manifesta in ogni suo aspetto; propria dell'arte come della natura è la capacità più intima di restituire al nostro sguardo quel passaggio dal visibile all'invisibile e il mistero dell'animo umano che avvolge le cose.

































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