domenica 9 maggio 2010

SILVIO LEONE


8 maggio 2010: con il suo spettacolo e con le sue immagini Silvio Leone illumina di poesia la Galleria delle Statue














lunedì 3 maggio 2010

IL CIRCO GRAFICO DI UN PRESTIGIATORE MOLTO SERIO


Domenico Pirondini

Le sue "storie" possono prendere forma sul "Bologna-Modena e ritorno". E’ possibile vederlo, carte e colori, pendolare della ferrovia, fissare il mondo dal finestrino o fissarti negli occhi, tu che gli stai seduto di fronte. Così comincia un fantastico racconto che forse avrà una fine o forse no, si disperderà in altre combinazioni, verso variabili improvvise e imprevedibili.
Un delta, tanti rivoli che portano, nel mare grande dell’essere, gli accumuli ondosi degli sguardi, degli incanti, dei pensieri, dei respiri. Quando il respiro è immaginazione, stupore, altro e altro ancora… E il racconto continua, perché l’artista, come nei versi di Baudelaire, sempre preferisce il viaggio all’arrivo.
Oppure l’incipit lo trova sotto un albero osservando un piccolo ramo quasi secco mosso dal vento. Ha sete, ma la pioggia tarda a venire. E così entrano in scena, sul palcoscenico antropomorfico del nostro narratore, un piccolo, grande e magico campionario di attori: nuvole, uccelli, nidi, fiori, polvere, streghe, maestre, scolari… Un tumulto di emozioni, passioni, brividi, scorre inarrestabile, un fiume in piena scorre nei filamentosi inchiostri dal segno semplice ma elegante, essenziale ma sapiente, xilografico ma elaborato.
Piccolo, grande mondo, quello del banco di scuola, dell’ingenua infanzia, del candido inseguire un sogno ad occhi aperti, d’un lieto fine obbligato. E’ dunque a partire da un particolare insignificante che il "cantastorie" apre le pagine del suo spartito che via via si disvela, dal minimo a comprendere tutto l’universo, un repertorio infinito.
"Signore e signori", declama l’artista-attore, cilindro e naso finto, giocoso e divertente, "seguitemi lungo le strade della vita, con curiosità, e io vi scopro, vi rivelo tutto ciò che fa parte di noi, vi sorprenderò. Questo è il mio modo di esprimere la realtà, dentro e fuori: non so ancora quello che vi dirò, ma aspetto, aspetto un suggerimento, da qualcuno, da me stesso, dalle mie percezioni… ascoltate, ascoltate, seguitemi!".
D’accordo. Per dirla con Dorfles, " non è dal macro ma dal micro che dobbiamo provare, dal nostro modo di porci rispetto alle cose: soltanto muovendo dal piccolo possiamo arrivare a trasformarle e a capirle".
Da un embrione, a quell’insieme di parole e forme che inventano una vicenda. Lo osservavo attentamente, mentre con fare sornione, ci ricostruiva il suo modo di operare. Lo spiegava quasi con circospezione, ma forse no, giorni addietro nella sua casa di Bologna a noi colleghi di scuola che gli chiedavamo di aprire gli armadi. Fogli e fogli gelosamente, segretamente, o forse no, nascosti, protetti, non so, ma impazienti di mettersi in fila, a muoversi. Cassetti straripanti, fogli vocianti che aspettano, la sensazione di un libro intonso che sta per schiudersi, ma non per la prima volta, era già accaduto da qualche parte. Me lo trovo davanti, lui, un po’ incredulo, divagante, diffidente o gigionesco o ipnotico, misterioso e intrigante, occhi che scrutano da lontano.
Silenzio, poi, a me sembrava appena un ruggito, una specie di zampata (tutto teatro, insomma), e la foresta si scuote. Attenti, il leone!
Questo io ho fiutato del leone, di Silvio Leone. Ma quale Leone: il disegnatore, l’illustratore, lo scrittore, il cantore, il pensatore, il creativo, l’insegnante dell’istituto d’arte. Oppure, invece, un solo Leone: lo spirito libero e anticonformista, che ci cattura e ci meraviglia con un occhio diverso sul sensibile, che attraverso le affascinanti e metafisiche affabulazioni ci spinge nella complessità del vivere, con intelligenza mobile, con garbata ironia interrogante, insieme ad un’apertura profonda, non ci sono dubbi, su cui è complice una imprescindibile, insostituibile musa: Bebette, la moglie, ovvero il teatro. Simbioticamente la coppia è collaudatissima, anni di esperienze performative: l’attrice e il pittore, la voce e le mani, il gesto e gli occhi, visibile e invisibile in un dialogo senza tempo che tutto abbraccia e avvolge.
Ma non è certo meno significativo il linguaggio iconico. Con quello verbale mi pare in perfetto equilibrio. Il rapporto impone precisi tempi di lettura, determina il ritmo del viaggio. Le inquadrature sono dinamiche senza perdere in descrizione, i campi sono usati per rappresentare il vicino e il lontano, dall’alto e dal basso.
La tecnica, o meglio, le tecniche, sono raffinate, colte, sempre sorprendenti e diverse per soluzioni strumentali, impaginative, cromatiche e segniche, per una lettura surreale ma reale allo stesso tempo. La vecchia, cara "lanterna magica", momento culminante del suo fare scena, aggiunge quel giro di sequenze lineari, a incastro e alternate che costituiscono la struttura fondamentale del montaggio "fumettistico", del suo codice comunicativo: vi è sempre un’altra verità, nascosta, furtiva, acquattata nelle pieghe delle apparenze.
Guardare tutti, guardare tutto, guardare oltre, guardare là, in fondo.
Silvio mi ha detto che c’era una volta che lui andava allo zoo di Napoli per svago e si fermava con simpatia davanti alla gabbia del leone. Mi è facile capire che dopo un po’ il LEONE sarebbe uscito, scappato.

CINQUE STORIE DA UNA LANTERNA MAGICA

Franca Tosi

Le storie che Silvio Leone magistralmente ci racconta, in immagine e scrittura, stanno in uno spazio simbolico variamente percorso: vi confluiscono correnti sotterranee, proiezioni dell’io, possibilità virtuali, sogni ad occhi chiusi e aperti, stati d’animo, affetti, paure, che da un profondo cuore di tenebra affiorano nella luce, manifestandosi, definendosi; ed anche voci e terra d’infanzia, ricordi, radici; le canzoni, le danze, i travestimenti, la lanterna magica, i trampoli, i giochi di prestigio, i burattini sul sagrato della chiesa, nelle fiere, sulle aie, tradizionali vene d’espressione popolare che artisti di ventura e cantastorie e guitti girovaghi hanno custodito, tramandato e a lui, e a Bebette, consegnato; ed anche spettacoli, di nicchia e di piazza, in cui pensiero, parola ed opera si son fatti testimonianza viva di un’alterità culturale da salvare e proteggere, campioni di un’arte d’improvvisazione che nella strada e nella gente della strada ha la sua cifra ed il suo margine e nell’evento, irripetibile e condiviso, la sua funzione rituale; arte trasversale, che sopravvive al diluvio massmediatico, omologante ed ossequiente, ora dilagante, che tanto della coscienza storica, dell’impegno sociale, dell’onestà intellettuale di più generazioni, ha spazzato e va spazzando via; arte di memoria, di passione, di resistenza.
Vengono, le storie di Silvio Leone, dal luogo indistinto dove l’incanto seduttivo delle favole, raccontato dalle nonne o dai fumetti, si incrocia con l’esercizio di una rigorosa disciplina manuale ed intellettuale e aneddoti ben noti, personaggi tipici, sviluppi narrativi consolidati e consueti, diventano occasione di originalità, dispiegando un apparato epistemologico largo e solido, che si intuisce conquistato con metodo e tenacia, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro; in esso, l’io e il rapporto tra l’io e ciò che è reale e non reale, la fenomenologia degli accadimenti, il loro incessante presentarsi alla coscienza ed incessantemente chiederle adattamenti, ristrutturazioni, innesti e le conseguenti mutazioni dell’io, costituiscono i fondamentali della ricerca; una ricerca tutta disposta, una volta ancora, nell’intreccio tra passato e l’orizzonte del senso della contemporaneità: da un lato, nel dialogo continuo tra saperi ereditati, conservati, amati e saperi nuovi, altrettanto amati, acquisiti direttamente nell’avventura del vivere e del conoscere; dall’altro, nell’inesauribile dialettica di confronto tra ciò che è immediato, particolare, circostanziale dato di esperienza ed una riflessione più estesa, espansa qui ed altrove, che arriva ad una rielaborazione cosmopolita ed astratta. Così, pagine di diario minimo trasmigrano nell’universalità, diventando modelli, paradigmi, parabole.
Si muovono, le storie di Silvio Leone, sulle piste di un immaginario di confine, che rievoca le letture dell’adolescenza, i loro mondi abitati da creature enigmatiche ed affascinanti, spesso ostili, minacciose, selvagge; quegli scenari un pò esotici e un po’ dietro casa, disseminati di curiosità e delizie, ma anche di pericoli e trappole; i loro protagonisti sempre in cammino, impegnati in prove da superare, alle prese con l’ignoto. E, sul confine, l’eroe, timido e intraprendente, spaventato e curioso, raccorda eventi fantastici ed eccezionali con episodi di disarmante problematicità quotidiana, coniuga l’usuale lessico familiare in metafore complesse, quasi oracolari, cambia la paura in gesto apotropaico, in attesa sapiente, in sorriso. Così, il festival della magia, la prodigiosa mano di Silvio Leone, si specchia nel festival della filosofia, il suo pensiero.
Sottoposte ad un’analisi comparativa, le cinque storie qui raccolte presentano elementi comuni.
In tutte, infatti, l’impianto compositivo segue la scansione tradizionale del racconto-fiaba.
Si presenta una situazione iniziale, caratterizzata da ambientazioni vaghe, i giardini pubblici di un paese, la stanza di casa che ospita un vecchio armadio, sentieri tra i campi, una barca sul mare, l’aeroporto di Toronto; collocazioni temporali indefinite, una notte, un giorno, adesso, personaggi poco connotati, il testimone nascosto, il narratore, il marinaio, un tale, le cui azioni sono spesso sostenute da motivazioni casuali più che causali.
Ci si trova a dover affrontare una situazione problematica, o compiere un’impresa più o meno rischiosa per il protagonista, sgradevole, imbarazzante, paralizzante: un enorme e spaventoso volatile sta in attesa nella notte, un narratore si sente in colpa nei confronti di un personaggio dimenticato, un marinaio finisce tra le piovre e non sa come regolarsi, un narratore non riesce a raccontare la storia di un viaggiatore che dovrebbe fare un viaggio ma non lo fa perché il narratore non riesce a raccontarlo, un tale si abbandona alla seduzione dell’acqua e non sa più come cavarsela.
Si arriva al turning point, che viene prodotto da un’azione, o comportamento reattivo, o scelta operativa da parte del protagonista: il testimone abbandona il suo nascondiglio, il narratore cerca di rimediare con scuse e spiegazioni, il marinaio getta l’acqua del secchio sulla piovra, il narratore trae dalla borsa un rotolo di carta non scritta che esplicita lo stato delle cose, il tale prima si abbandona, poi lotta con l’ acqua; e questa svolta permette di superare l’inerzia. Si determina, dunque, una situazione finale risolutiva: il testimone si sistema sulla panchina al posto dell’uccello, il personaggio è perfettamente a suo agio anche senza che il narratore si occupi di lui, la piovra diventa sempre più piccola ed inoffensiva, il narratore dipinge la prima scena della storia, il tale si fonde con la pozza d’acqua che lo assorbe, migliorandola.
Secondo la tradizione del racconto-fiaba, superata la difficoltà, l’ordine è ristabilito e i ruoli sono riconfermati in un finale confortante che ripristina le condizioni dell’inizio. Alcuni elementi, tuttavia, divergono da questo prevedibile impianto classico. Nei protagonisti, travestito in diverse fogge, si ravvisa sempre lo stesso personaggio, impegnato in una serie ininterrotta di avventure; in altre parole, l’artista e il percorso che egli compie nella vita e nella conoscenza. A volte, luoghi (il paese delle piovre, l’armadio in cui vive il personaggio trascurato), tempi (il giornale che racconta ciò che non è ancora avvenuto), accadimenti (il personaggio dimenticato nell’armadio che ha una vita sua, quasi in competizione con il narratore, la pozza d’acqua che “si risente”, “si oppone per ribadire la propria identità”, l’enorme uccello in attesa che qualcuno capiti lì) sono impossibili e spingono verso un mondo che non c’è, onirico, personalissimo.
Le immagini, così sapientemente disegnate, l’orso, l’enorme volatile, l’acqua, il personaggio nell’armadio, la piovra, possono essere interpretate come archetipi e simboli che evocano per tutti situazioni esperienziali e relazionali difficili, paure, minacce, rinunce, barriere, ostacoli ad una libera affermazione ed espressione del sé, ma anche come parti di un codice di riferimento assolutamente individuale e privato, che rivela il rapporto, talvolta tormentato, che lega l’artista alla creazione artistica. In questo senso, esse si presentano in una valenza ambigua, negativa in quanto limite, fatica, selezione, esclusione, eppure positiva se stimolano a ricercare il meglio di sé, per sapersi adeguare a parametri posti da altri e dimostrare a se stessi di essere all’altezza delle richieste. Introducono, quindi, il tema, essenziale, di un imprevisto che attende dietro ogni angolo della via e della vita, incessantemente, necessariamente, chiamando ad esercizi di comprensione e ridefinizione, a pratiche di adattamento e riposizionamento.
Le frequenti metamorfosi a cui assistiamo sono espedienti narrativi che contribuiscono a determinare uno scenario mobile e fluido, fatto di passaggi di stato, possibilità aperte e cambiamenti; accennano ad una sorta di comunicazione tra elementi, di fusione, di empatia, in cui tutto può relazionarsi con tutto. In questo senso si colloca anche la scelta del finale aperto delle storie che restano sospese e ricominciano, secondo una dinamica circolare, proprio là dove il protagonista ha realizzato la sua vittoria, ha guadagnato una diversa posizione che è anche un diverso punto di vista, si è sostituito a qualcun altro, acquisendo nuove conoscenze, preparandosi a nuovi giochi, a nuove sfide.
Se l’orizzonte di senso è l’incessante dialettica del conoscere e del vivere, il gioco è sapersi modificare, travestire, rinnovare, pur rimanendo gli stessi; la sfida, è rendere inoffensivo, addirittura familiare ed alleato, il perturbante e farne, il più possibile, risorsa e ricchezza.
Dunque, la sostanza di cui sono fatte le storie che Silvio Leone racconta è, ancora una volta, venata d’intrecci: lo schema tradizionale del racconto-fiaba si incrocia con irruzioni surrealiste e grottesche, forse mutuate dalla scrittura dell’assurdo e del nonsense; la struttura profonda che in ogni storia ripete la trasposizione del rito iniziatico arcaico, sembra accogliere sollecitazioni di matrice psicoanalitica verso una terapia dell’anima e di riparazione nell’arte; la tensione pedagogica che, lievemente ma costantemente, sottende l’impianto delle storie, si stempera nella pratica di sospensione, pazienza ed autodisciplina che deriva da una lunga dimestichezza con la filosofia zen. E tutto, poi, si colora di un umorismo sornione, filantropico, onnicomprensivo, che ricorda il sorriso lontano ed imperturbabilmente sereno del Budda, ma anche quello, vicino e mariuolo, di Pulcinella.
Perché, in ultima analisi, vita, conoscenza e arte sembrano essere, inevitabilmente, terra di contaminazione. Lì, infine, ci conducono le storie di Silvio Leone, collocandoci al posto dell’enorme volatile che prima ci spaventava, facendoci assumere la multiforme forma dell’acqua, alcune volte vincendo, come con la piovra, altre imparando a perdere, a rassegnarci, a stare nel margine guardando ciò che pensavamo nostro, andarsene per conto suo, malgrado noi; continuando a seguire le tracce dell’orso alla ricerca delle tracce dell’orso, inventandoci un altro scherzo, un’altra imprevista solidarietà; anche noi librandoci in aria, mentre osserviamo volare via, insieme, corvi e spaventapasseri.




domenica 21 marzo 2010

BERNARDO PEDRINI


INAUGURAZIONE DELLA PERSONALE







domenica 14 marzo 2010

REALTA' E MAGIA NEL COLORE DEL QUOTIDIANO




di Domenico Pirondini

“Ci si mette molto per diventare giovani” affermava, felice, Picasso.
La realtà che percepiamo è spesso diversissima dalla realtà ottica. I bambini, che non conoscono le regole della prospettiva, sono involontariamente cubisti, disegnando contemporaneamente più facciate delle loro casette e cogliendo, istintivamente, tutte le cose. La realtà cubista comprende, d’altra parte, il fattore tempo, che per la prima volta con il maestro catalano, entra nel linguaggio visivo. L’artista cubista, infatti, si immagina di ruotare fra le mani l’oggetto da rappresentare o se si tratta di una persona, di girarle addirittura intorno. In questo modo egli non coglie più un solo aspetto, limitato, ma diversi, in successione. Da questa dimostrazione mentale, conoscitiva, dell’arte funzionale del primo Novecento, prende le mosse l’esperienza colta e divertente allo stesso modo, di Pedrini, che può gioiosamente scoprirsi giovane dopo anni di intensa attività creativa e didattica.
I soggetti diventano pretesti per la costruzione di un quadro-oggetto, un quadro che “funziona”, cioè che spiega, nella migliore tradizione pedagogica, come si possa insegnare e, giocando, imparare.
Ma il percorso di Pedrini non è lineare. A partire da questi fondamenti, molte sono state le trascrizioni, gli innamoramenti, le assunzioni, gli incroci che trasversalmente hanno accompagnato la sua ricerca. Un vero e proprio “ibridismo”, come aggiunge lui stesso.
Certo, le Avanguardie hanno interrotto la nostra visione della storia come processo successivo e costante, evolutivo per alcuni e rivoluzionario per altri, ma sempre progressivo. In effetti, il tema dell’Avanguardia sfocia in un altro più vasto, quello della mutazione storica che viviamo: la modernità, che peraltro è impaziente, vivace, relativa, mobile. Non più fondata su principi eterni, ma sul tempo e il suo fluire, l’istante, il nuovo, l’incostante, il mortale, le mutazioni, l’irregolarità, l’insolito. Ma l’Avanguardia è solo un aspetto della modernità, poiché quest’ultima comprende non solo rotture, ma anche restaurazioni. Con una certa regolarità appaiono e scompaiono stili che guardano al passato e che confondono il presente.
Pedrini è attento all’arte e ai richiami della storia dell’arte, tuttavia poco gliene importa. Qualcosa lo distrae dalle concettuosità: è l’entusiasmo della scoperta, la sorpresa di una apparizione, l’incanto di uno sguardo, lo stupore di un ritrovamento, il sussulto di una rivelazione, la struggente magia di un
ricordo. Niente malinconie, ma la bellezza né troppo esibita né troppo nascosta di un riappropriarsi
del vissuto, ora nuovo, ora futuro. Dall’arcaismo dell’essenziale alla modernità di un manierismo sperimentale, dunque. I richiami sono lì, tornano, se ne vanno, ritornano, ma Pedrini, nella maturità di una sua poetica, forse non ascolta più, tira diritto con una pratica che ha il sapere del mestiere e la necessità della conservazione dei luoghi. Artiere e ambientalista, invadente costruttore fuori, virtuoso sognatore dentro.
Grattacieli, tour Eiffel, robot, vecchi televisori e moderni telefonini, Obama e Picasso, metropoli, trenini e automobiline, ciminiere, pennelli e curvilinee, strumenti da disegno e meccani, coltelli, bicchieri e suppellettili domestiche, piatti e taglieri, cannucce, bibite, zuppiere, pesci, fondi marini,
onde e cavallucci, matite e sagome infinite, motociclisti e nuvole, mani e gesti… un campionario incontenibile che solo la materia può trattenere.
La materia, i materiali, prima di tutto: carta, cartone, legno, gesso, creta, lamiera, poliuretano, nella frenetica ricerca di un riscatto, di una salvezza dallo spreco consumista dell’oggi, ma anche dalla “poltiglia” del riciclaggio. Un nuovo racconto, un altro essere delle stesse sostanze, con le loro originali qualità, durezze, levigatezze, trame, spessori, opacità, trasparenze…, un’altra storia.
Più interessato al mezzo che al messaggio, quando però la forma è contenuto. Detto con McLuhan,
il medium è il messaggio. La caratteristica del nostro tempo è la ribellione contro gli schemi imposti. Dunque i mezzi, intesi come prolungamenti che la natura ha dato all’uomo per percepire e comunicare, producono conseguenze di ordine psichico e fisico la cui intera portata può essere valutata solo con criteri nuovi, assolutamente spregiudicati. Se i veri effetti dei media non corrispondono più a quelli voluti e programmati, allora i significati psicosociali della comunicazione vanno cercati altrove: nella materia, che si fa nella forma che il contenuto assume entro la sfera d’azione di ogni singolo strumento tecnologico. Per ottenere l’essenzialità delle forme
di cui si diceva, Pedrini si serve di una semplificazione che sa di voluto e forzato primitivismo infantile e che ci ricorda le immagine naive.
Egli sperimenta i materiali per una diversa, ipnotica, demiurgica operazione di recupero.
Le suggestioni di Picasso, Delaunay, Boccioni, Depero, Carrà, le tecniche di scomposizione, simultaneità, spazialità, valorizzazione di nuovi procedimenti quali il collage, il fotomontaggio, “l’oggetto trovato”, hanno portato all’irruzione della realtà nell’opera d’arte e hanno portato Pedrini
lungo un filo diretto, a partire dagli anni Ottanta, al coinvolgimento in un gruppo FUTURE-POP,
dove la Pop-Art ispira più per le qualità fisiche, energetiche e metamorfiche dei materiali o dei prodotti industriali che non per il mito americano della accattivante società massmediatica. La tradizione del nuovo, si potrebbe dire.
Talvolta Pedrini è tentato da ironiche provocazioni neodadaiste, non dire nulla per dire con sarcasmo tutto. Ma resta prevalente una trasfigurazione, sempre figurativa, del quotidiano,
indotto dal suo antico amore per il pezzo di vita negli “oggetti-materiali” che lui preleva dalla memoria, non semplicemente decontestualizzati, ma manipolati e come rigenerati dai ritagli del disegno e dall’intervento sensualmente “caldo” ed emotivo della scultura-pittura. La sua funzione, infatti, è ben più che decorativa, ma capace di legare ed esaltare i frammenti, i relitti inquieti e frusti
oppure garruli e petulanti che emergono dalle acque dell’esistenza.
Il quadro-oggetto invita, pertanto, ad una lettura meramente soggettiva ed emancipata.





FUTURE - POP

di Cinzia Ghioldi

Tutte le cose che appartengono agli aspetti più sfacciati e minacciosi della nostra cultura ossessionata dal benessere e propinataci dai mass media, tutto ciò che odiamo ma ha su di noi un potente impatto le ritroviamo nei lavori di Bernardo Pedrini.
I contenuti si fondano sulla nostra quotidianità, la forzano, ci rispecchiano.
Che Pedrini abbia fatto parte del Futur-Pop è evidente, nel cellu-lare che squilla a rompere il silenzio, nel flash dirompente di una macchina fotografica usa-getta comprata in autogrill, nelle icone nelle televisioni, nei robot assemblati con materiali di scarto che si confrontano coi gessi della Galleria.
Perchè è qui, nella Galleria dei gessi, che il silenzio viene frantumato, l’ordine delle misure viene stravolto.
E’ qui che i colori incombono lucidi nel nostro sguardo.
Ed è qui che ci ritroviamo sommersi nel rombare delle motociclette, nei clacson polifonici, tra palazzi e grattacieli, tra smog e luci elettriche, e ancora, nell’incessante movimento di una città che non dorme mai, che per Pedrini è la Milano degli anni ’80, che ti seduce, ammiccante e poco dopo ti ripudia, quella Milano cantata da Lucio Dalla, quella città di asfalto e angoli di cielo, di caos e nostalgia.
I contenuti estetici soccombono all’immediatezza gestuale prendendo la forma di abbozzo tridimensionale nella pluralità dei linguaggi, dei materiali e delle tecniche, nel loro conseguente aspetto ibrido che avvia lo sviluppo artistico.
Il lavoro dell’artista si alimenta, si sostanzia di questa instancabile ricerca di tecniche intercambiabili, di modulazioni cromatiche nel compiacimento dell’alternarsi di legni,smalti e plastica entro spazi sottili e raccolti dove l’opera vive, si muove anche fuori dalla piena volumetricità.
Il mondo della forma e del colore viene riscattato attraverso la chiarezza compositiva articolando sagome di legno ritagliate, sovrapposte, incastrate dove oscillano ottimismo e disillusione, velocità e staticità, passato e presente, macchina e uomo.
La veemenza con la quale il suo fare si manifesta nel suo nascere rallenta e si placa come i fermo-immagine nei tele-ritratti.
E’ nella televisione, strumento della mediazione e nuovo dittatore in quest’epoca del virtuale, che ritroviamo i nostri idoli, i protagonisti non solo della Storia dell’Arte ma anche delle svolte critiche della realtà come Warhol, Picasso, Dalì, Ligabue e la Kahlo, accanto al presidente Obama.
E l’opera è servita.
E’ esplosa.
Puoi gustarla come una torta nuziale, una finestra, uno schermo o un diaframma posto tra la realtà esistenziale e una nascosta realtà immaginata.


L'OPERA DI BERNARDO PEDRINI

di Enzo Silvi

I nuovi lavori che Pedrini presenta in questa mostra modenese, si pongono su una linea di continuità della sua ricerca precedente, ma la sviluppano verso nuovi contenuti legati all’attualità socio-culturale. Un gruppo di opere riprendono le tematiche della città che sale con grattacieli sempre più alti, con auto e moto che sfrecciano in centro e nelle periferie urbane su nastri d’asfalto ormai invasivi, all’interno di una civiltà urbana inscatolata che l’autore rappresenta con materiali “poveri” dal legno alle resine dipinti a smalto con una vasta, coloratissima gamma cromatica di derivazione pop.
In questi altissimi grattacieli le cui sommità si perdono tra le nuvole, sopravvive l’uomo contemporaneo diventato ormai un robot da fumetto giapponese ma ricostruito con l’iconografia metafisica dechirichiana.
Le tematiche della “città che sale” e della velocità derivano dall’avanguardia storica futurista rivisitata da Pedrini in chiave pop, collegandosi in questo al “ Nuovo Futurismo” movimento nato ed attivo in area milanese nei primi anni ottanta e teorizzato da Renato Barilli. Da sottolineare però che la ripresa delle avanguardie storiche Futurismo e Metafisica viene rielaborata in maniera personale ed inserita in un contesto ludico del tutto originale e tale da suggerire i contenuti morali dell’operazione artistica che diventa sì un’operazione di forte critica sociale ma attualizzata con un linguaggio soft e dalle connotazioni ludiche.
Si spiega perciò anche la ripresa della cultura pop, con le sue tinte piatte, i forti contrasti cromatici, l’uso di materiali popolari, i colori a smalto, l’iconografia del fumetto, la tecnica del retino tipografico. Il legame con la Pop Art si vede in particolare nelle opere più recente dei teleritratti che si rivolgono al mondo della comunicazione visiva diventa un sistema estremamente complesso soprattutto per le implicazioni sociali ed economiche.
Oggi l’universo dei media è dominato dalla televisione diventa il principale strumento d’informazione e veicolo di modelli comportamentali altamente condizionanti sia per le giovani generazioni sia per il pubblico adulto. Tra i vari media la televisione è diventata la principale fonte di informazione e, purtroppo, anche una potentissima fabbrica del consenso. In altri termini è un centro di potere capace di orientare i comportamenti e le idee della gente anche attraverso raffinate e subdole tecniche di persuasione. Non per nulla la televisione è lo strumento preferito dalle industrie per vendere i loro prodotti e dalla classe politica per fare propaganda. In entrambi i casi si tratta di una logica commerciale che di fatto crea una “cultura” povera di capacità critica, schiava dell’apparenza e dell’effimero, veicolo del consumismo. Una logica commerciale che sta alla base anche del successo dei reality show che alimentano la ricerca di visibilità spingendo giovani e vecchi a comportamenti spregiudicati e volgari a volte anche violenti. Una programmazione che esalta anzi esaspera la ricerca della notorietà (se non hai visibilità televisiva non sei nessuno), del successo, della ricchezza da raggiungere con ogni mezzo, senza andare troppo nel sottile e senza scrupoli.
Al posto di veline, letterine, meteorine, grandi fratelli, isole e fattorie, Pedrini invece sceglie una televisione diversa e sullo schermo ci propone modelli comportamentali alternativi portatori di valori ben più costruttivi in vari campi, dall’arte alla politica ed ecco, ad esempio, il geniale Picasso e il Presidente Obama che dallo schermo ci guardano da un fermo immagine che la dice lungasui significati simbolici delle icone contemporanee.
La serie dei teleritratti, dipinti con un tracciato reticolare scompone l’immagine del soggetto e ci restituisce la stessa in chiave pop alla Lichtestein sostituendo ai pixel televisivi i codici segnici della riproduzione tipografica con un rifiuto totale sia dei contenuti che del linguaggio televisivo. Quello di Pedrini si può dunque definire un processo analitico che vuole riposizionare il medium su nuovi e più avanzati territori della cultura e della comunicazione visiva.
In questa direzione la scuola dovrebbe avere un ruolo fondamentale di stimolo per un possibile recupero di tutte le potenzialità educative che un mezzo potentissimo come la televisione, se usato correttamente, potrebbe offrire alla formazione delle nuove generazioni.
Ma per fare questo la scuola dovrà dare agli studenti le capacità critiche di analisi e decodifica dei vari sistemi della comunicazione visiva contemporanea, compito certamente non facile ma non impossibile. Le opere di Pedrini ci indicano una strada percorribile.


domenica 7 febbraio 2010

martedì 26 gennaio 2010

LA MATERIA E LA LUCE


Brevi riflessioni sulla fotografia e sul misticismo grafico di Davide Pecorari

Di Franco Morselli

Innanzi tutto foto è luce, la parola più alta che sia stata pronunciata per indicare ciò che sta lassù, oltre il regno della sensibilità, in quello della immaginazione o, perlomeno, della speranza. Parlando di fotografia non dobbiamo mai dimenticare questo fatto. “Dio da Dio, luce da luce” osiamo dire dal concilio di Nicea in poi. “Luce” ricorre, con abbagliante ossessione, in tutta la terza cantica della Divina Commedia, impregnando di sé la qualità del Paradiso. Intesa in questo senso la luce è il fine ultimo, ed è a questo che, ovviamente, si dovrà fare ritorno.
Ma, in secondo luogo, la luce è mezzo. È il carro del sole, il più nobile dei carri, in grado di trasportare ai nostri occhi, attraverso l’immagine, l’essere delle cose. Sta qui, più che nella contrapposizione tra riproducibilità o non riproducibilità, la tanto discussa differenza tra pittura e foto. Nel suo iper citato saggio sull’argomento (sul quale l’ambiguo aggettivo possessivo sua getta fin dal titolo un sinistro pregiudizio) Benjamin fa comunque un’affermazione illuminante: “la mano si vide per la prima volta scaricata dalle più importanti incombenze artistiche”. L’occhio cioè, l’organo del senso teoretico per eccellenza, si svincola dalla mano, organo del senso pratico. È una operazione che nel linguaggio della mistica ha un modo di dire, preciso e poetico contemporaneamente: “farsi vaso”. Ed è in questo modo di intendere la luce come mezzo che sta la vera differenza tra pittura e fotografia: luce ricevuta questa, luce ricreata quella. L’una, attività attiva, l’altra, attività passiva, contraddizione ai confini della mistica. Ogni altro concetto, come quello della riproducibilità in sé o, all’opposto, dell’unicità e dell’aura, rischiano (lo sappiamo bene quasi un secolo dopo gli scritti del filosofo tedesco) di perdersi nelle paludi della valutazione di mercato e della moltiplicazione del valore. Di entrare nel campo, cioè, della convenzionalità del valore stesso (e quindi della precedenza, se proprio si deve parlare di opera d’arte riprodotta, tra l’invenzione di Nièpce e Daguerre e quella di Palmstruch duecento anni prima: la cartamoneta).
Escludendo, forse, certi surrogati di trofei per turisti tutto compreso, la fotografia, quella vera, è la totale dedizione del discepolo, la ricettività del bodhisattva per il quale ogni dettaglio può essere Prahna che lo informa.
L’opera di Davide Pecorari risponde in pieno a questo requisito. Anzi, nella scelta del soggetto, ne fa addirittura il suo programma, inserendosi perfettamente (cosa da non sottovalutarsi per la prima mostra che l’associazione Via delle Belle Arti dedica alla scrittura con la luce) nella densa simbologia che la Galleria delle Statue implica. Nelle mani di Davide l’occhio meccanico si apre sulla materia più immediata, quasi sulla prima tattilità che un io ancora immune da esperienze culturali può esperire: la roccia, l’acqua, l’aria e il fuoco. È, a un primo sguardo, il massimo della semplicità che si possa immaginare. Ma è anche segmentazione di una scala che trova nella sala che ospita la mostra una sorprendente corrispondenza.
Il primo verso di percorrenza della scala è la salita. Terra, acqua, aria, fuoco sono gli elementi dell’antica filosofia greca, quel dover essere “corporeo, visibile e tangibile” con cui il Demiurgo, nel Timeo di Platone, “ordinando insieme l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo realizzò l’universo” (“…in modo che l’opera da lui realizzata fosse la più bella e la migliore per natura”, aggiunge Platone poche righe dopo). In questa chiave di lettura, quasi come in un idealistico site specific, l’universo neoplatonico che la ricerca di Pecorari sembra fondare, dialoga strettamente con la simbologia del luogo. Anche la sala finisce in una scala, e la scala porta ad un gruppo marmoreo che del neoplatonismo, e della risalita attraverso gli elementi, ha fatto motivo di rappresentazione plastica. Si tratta de “l’angelo e l’anima”, dello scultore Alessandro Cavazza, uno dei gruppi più belli (e sottovalutati) dell’ottocento modenese. Il soggetto è l’anima, che si identifica col discepolo, col vaso. La salita parte dalla contingenza delle cose, che si avvita su se stessa invariabile nel suo eterno movimento. Attraverso l’universo, attraverso l’etere, l’anima, sorretta dall’angelo, si libra in alto verso il regno ultimo del Bene. Il fuoco, la Gotterfunken dell’inno alla gioia di Schiller, illumina con sicurezza l’ascesa della coppia. È quasi la traduzione letterale di un bellissimo passo di Plotino. “L’anima allora accoglie l’influsso di lassù, si agita come una baccante e, pervasa da acuti desideri si fa tutta amore.(…) quando su di lei scende il calore di lassù, essa riprende le sue forze e si ridesta e mette veramente le ali e, pur essendo stordita per la presenza dell’oggetto bramato, s’innalza verso qualcosa di più grande per opera della reminiscenza. E sino a quando ci sia un oggetto più alto di quello presente, essa si innalza, portata da Colui che le offerse l’amore”.
È un automatismo ormai quello che ci porta a ordinare qualsiasi serie in una scala che conduce verso l’alto. Così letta, la scala costituisce la morale. Ma nel rapporto forma-informato che scaturisce dalla registrazione visiva delle cose, per l’occhio meccanico che tutto riceve, la salita dovrebbe ridursi, tutt’al più, a un sottinteso. Il “farsi vaso”, ricettacolo delle sostanze che popolano l’universo, può ridursi a una dualità molto più semplicemente strutturata. È un attimo di equilibrio che forse la cultura orientale ha messo a fuoco più di quella occidentale. Visti in questo senso i composti, i miscugli di elementi che le fotografie ci documentano, appaiono ai nostri occhi come sordi, circoscritti nella loro autonomia, sospesi ognuno nella propria forma che è già punto d’arrivo ma non giudizio. È come se il protagonista della mostra, lo spettatore, facesse un passo indietro, come se l’unico comprendere fosse il non comprendere. Come se la scala fosse diventata orizzontale, esile passerella sul nulla, tra due nulla. Un bellissimo passo, nella “Vita di Milarepa”, descrive la constatazione, muta e attonita, ovvia ma sempre sorprendente, che forma e sostanza sono la stessa cosa: “Dal vaso rotto, i residui stratificati depositati dall’ortica uscirono in un solo blocco verde che aveva la forma del vaso”. Potremmo dire che non solo l’osservatore si è straniato, ma il vaso si è ritratto, e il bisenso insito nel verbo staglia per lo spettatore una potente immagine che è già fotografia in sé e senso della stessa.
Infine, dopo il percorso in salita dell’iniziazione, dopo l’istante di stasi, clou della formazione, la serie di fotografie degli elementi può anche essere letta alla rovescia. Giù, giù, dalle forme più complicate alle più semplici, fino a immedesimarsi con la roccia, a essere sasso. Dalla fiamma alla pietra, da una domanda in cui si riassume forse tutto ciò che siamo e percepiamo, alla risposta che non c’è risposta. È il cammino inverso attraverso gli stadi della creazione, la catabasi, o il descensus, di cui il Virgilio di Hermann Broch rappresenta l’esempio più angosciato.
Le fotografie degli elementi percorrono entrambi i versi, immobilizzando in impassibili registrazioni i singoli momenti del percorso. Ed è in queste silenziose macchie di colore che l’arte del fotografo rivela la sua vera sapienza, la sua disponibilità a fondersi, instancabile spettatore e ricettore, con la luce che da ogni gioco di superficie emana. Ogni foto della mostra presuppone una vocazione, una chiamata, e a ogni chiamata corrisponde una risposta pronta del vaso di elezione, del devoto, quasi del Fal Parsi, il puro folle, ma soprattutto il discepolo per eccellenza, a cui nel dramma wagneriano sul misticismo è destinata l’ultima e definitiva redenzione.
Ma è nella visione d’insieme, nel “montaggio” di parti che dialogano, che si contraddicono e si integrano, è in questo tutto che dobbiamo leggere la qualità ultima dell’evento. Esposta al rischio quasi di una indifferente ontogenesi palindroma, o, al contrario, di una distaccata percezione paratattica, la chiave di lettura della serie fotografica trova la sua vera ragione d’essere nel processo stesso della rilevazione della luce, del naturale tendere della fotocamera e di colui che se ne è fatto portatore verso la stessa scintilla che trascina gli angeli e le anime. Risolta in una naturale ma raffinatissima texture di colori, l’energia dell’acqua che vivifica le rocce, o quella del vento, dell’anemos, radice etimologica di quell’anima alla quale tutta la materia sembra, nella mostra come nel mito, tendere, o quella del fuoco, che tutto attrae a sé e tutto consuma perché tutto si rigeneri, è resa magistralmente da Davide Pecorari nella fisicità felice che la luce dona a chi la vuole cogliere. In ciò risiede il significato vero dell’evento, il lato edificante anche di colui che apparentemente si era limitato a “farsi vaso”.
Non esiste cioè, alla fine, un’arte che possa esimersi dall’attività stessa dell’artista, anche se, nella rapidissima e istintiva meccanicità del “clic”, l’amore panico e inconsapevole per ogni dettaglio del creato sembrerà il più delle volte avere il sopravvento.





DERMAMATERIA

Su Davide Pecorari



Di Fabrizio Loschi

Caratteristica di ogni materiale, naturale o artificiale esso sia, è ciò che viene comunemente definito la "vena".
Stratificazioni geologiche, venature vegetali o impercettibili segni nelle estrusioni dei materiali sintetici rappresentano i movimenti congelati all’interno della materia stessa.
Gli scultori sostengono che la materia è una sola e che il segreto della sua lavorazione si possa racchiudere nella lettura corretta di ogni singola vena.
Se la materia racchiude ogni forma la superficie ci introduce alla forma stessa.
Il perimetro della ricerca fotografica di Davide Pecorari è delimitato dal tema dei quattro elementi naturali, dove l’occhio del fotografo indagando attraverso un’estetica di superficie, d’impostazione apparentemente naturalistica, ci invita ad una riflessione tra derma e materia.
La superficie si scioglie nell’immediatezza dello scatto fotografico svelando la sua natura più intima fatta di milioni di texture che, nella loro naturale sovrapposizione, determinano l’evocazione della materia.
Qui il derma del fuoco è un colore che scalda la materia della pietra in uno scatto.