giovedì 3 dicembre 2009

Vincenzo Carlomagno. Antologia di interventi critici sull'opera pittorica e poetica



Dentro la profondità dell’orizzonte. 

 Guardare e vedere la realtà per poi interpretarla con forme libere fatte di segni e colori: il pittore. Guardare e vedere la realtà per poi intervenire dentro di essa con progetti ed opere destinati a modificarne in modo stabile ed irreversibile – salvo la distribuzione - aspetto, sostanza e qualità: l’architetto. Fantastico (alla lettera) e virtuale l’uno, razionale e concreto l’altro, si tratta, comunque, di due luoghi canonici della creatività, distanti e diversi quant’è un sogno da un oggetto. Ed artistici per eccellenza: dalle più remote origini della comunicazione visiva ad oggi; accade qualche volta che essi convergano in quello specialissimo, sfuggente immaginario-concreto che è lo spazio. Lo spazio: quella dimensione che è intellettuale (lo sgomento esistenziale che scaturisce dall’Infinito di Leopardi; l’angosciante, surreale solitudine che pervade le Piazze di De Chirico…) e materiale assieme (l’ambiente dove s’agita la quotidianità d’ognuno). Esso permette di conciliare, mediante il gesto inventivo, opposti concettualmente estremi quanto un’immagine gradevole in sé, destinata ad essere soltanto se stessa, ed un’altra anticipatrice, invece, di profonde e tangibili modifiche dell’esistente. Vincenzo Carlomagno: pittore ed architetto, forse viceversa, oppure l’uno e l’altro (artista) assieme, contemporaneamente? Piacerebbe, qui, rivisitare la storia riandando a quelle luminose figure che, nei secoli, furono architetti e pittori e seppero dare prova altissima di singolare talento estetico posto a manipolare lo spazio della tela e quello delle città. Ma le citazioni fin troppo spesso generano enfasi inopportune. Meglio perciò, molto meglio, lasciarle dentro quella consapevolezza – collettiva ma, soprattutto, individuale – che si è soliti definire cultura e non erudizione. Su quanta cultura si fondi la pittura di Carlomagno, danno ampia ed attendibile testimonianza ora l’ampiezza sconfinata dei suoi paesaggi, ora il suo concentrarsi su arguzie narrative che sanno d’orto e di campo. E quel suo campire cieli ed orizzonti intensi, cupi, abbaglianti, distesi, gravidi di colori, incendiati, immobili… E quelle non insistite, eppure efficaci, allusive, reminescenze naturalistiche che creano profondità enormi e danno spazio e prospettiva da qui ad un lontanissimo oltre. A pieno titolo nel solco di una tradizione di cui cinquant’anni orsono Francesco Arcangeli intuì la grandezza – la Provincia padana che disvela le sue ricchezze e la anima antichissima – Vincenzo Carlomagno racconta, senza indulgere nella descrizione e nell’autocompiacimento, tutto il suo stare, partecipe e sensibile, dentro una natura situata sul confine tra realtà e sogno. E se le metafore sono immediatamente percepibili (e ben venga), gli orizzonti sono illimitati.

Carlo Federico Teodoro, Ottobre 1998


i "Lieder" dipinti di Vincenzo Carlomagno.

(...) Quando si parla di produzione artistica figurativa, la nostra mente corre tra due poli opposti. Uno è l’oggetto che ci troviamo davanti, ancora vergine non solo di giudizio, ma d’ogni parametro su cui costruirlo, l’altro è la memoria di quanto già storicizzato, l’accumulo di informazioni sedimentate che costituisce il nostro bagaglio culturale. E’ dal rapporto dialettico tra questi due poli che nasce il nostro giudizio. Questo rapporto è duplice. Innanzi tutto, come si conviene ad una attività che è solamente manuale, artigianale, ed in questo suo limite trova paradossalmente l’unica vera ragione d’essere, la nostra attenzione dovrebbe essere in grado di opporre un potente filtro a tutto ciò che non è fruizione diretta; in breve, a quanto proviene dai mass media. E’ una questione di prospettiva. Il giudizio deve cambiare in funzione della distanza dalla quale giunge il messaggio. E’ l’unico modo per conservare dignità ad un’attività che altrimenti non può che svendersi. L’opera d’arte, ora, è tale solo nel momento in cui permane pura dai canali eterodossi che le procurano l’accesso alla medialità, quando appartiene a una fase in cui la rinuncia ad ogni ambigua ambizione verso posizioni cristallizanti e arbitrarie ( vedi , alla fine di il discutibile concetto di "storia dell’arte") è chiara e sincera. Il banale "esserci", motore dell’infinita sequenza di "grandi eventi", influisce per forza sul giudizio, negativamente. Non è che non auguri il successo a Carlomagno, anzi. Ma l’intimità di un opera sincera non può che essere snaturata dal bataclan di una grande mostra e, alla fine, l’opera stessa si espone al pericolo di essere scavalcata nel giudizio, che viene formulato non a lei ma alla legittimità del bataclan. L’opera di Carlomagno è aliena da questo rischio. Non costituisce ancora occasione mondana, per bei convenevoli. Appare autonoma nel suo essere in sé e nel suo essere relazionata ad una personalità che ho la fortuna di conoscere. Ecco quindi che posso tentare un collegamento, e un giudizio conseguente. Carlomagno è non solo architetto, ma insegna architettura e, non ultimo geometria descrittiva. Questo suo ruolo gli garantisce un profondo, intimo, ben digerito legame con una strutturazione dello spazio priva di tentennamenti. E’ una concezione forte, che disciplina e imbriglia con sicurezza i colori, evitando ogni narcisistica e abusata sbavatura, e che lo pone all’interno di un sistema di riferimento culturale ben preciso. E’ qui che rientra il secondo termine della duplicità nel rapporto dialettico di cui parlavo. Tra la concezione latino-occidentale dell’ "Infant terrible", dell’atto gratuito, della scalata sociale, di cui i vari Rimbaud, Gide, Maupassant costituiscono i paradigmi storici più di quanto ogni pittore sia in grado di fare, e la concezione mitteleuropea e nordica di un’arte che nel rinnovarsi si riallaccia alle tradizioni più profonde, nonché alle istanze sociali più pregnanti della propria cultura, Carlomagno sembra imparentarsi con decisione alla seconda. Mi veniva ostinatamente in mente, osservando le sue opere, la secessione viennese. Personaggi, tra gli altri, come Klimt e Schiele, in cui le forme apparenti di una rivoluzionarietà più o meno facile che attraversa tutta Europa affondano in un substrato aristocratico e popolare insieme, che salta ogni classicità mediterranea e si aggancia direttamente al decorativismo profondo del barocco e del tardo gotico. E sia chiaro che, parlando di decorativismo profondo (termine che calza a pennello per le opere di Carlomagno) non suggerisco un facile ossimoro, ma un forte legame tra un popolo intero e la propria espressione artistica che sublima l’immagine in una bellezza astratta e assoluta, e distilla la sensazione estetico-intellettuale fino alla concettualità pura delle forme musicali più sublimi, dai facili (solo da ascoltarsi) valzer degli Strauss, alle convulse nostalgie senza speranza dei lieder di Mahler. C’è sempre sottesa una geometria implacabile che genera un senso di spazio sterminato o di minuscolo frammento in questa opera, e questa geometria, quasi come un’idea platonica di una verità in sé, lega tutto a sé con la legittimazione del decorativismo. Lega tra loro i colori, le trame delle campiture e gli squilli improvvisi degli accostamenti timbrici con un esito che altrimenti non saprei definire se non musicale. E, se proprio una informalità in queste solide costruzioni la si vuole vedere, sarà quella dei Nolde e Vinnen, non quella di Matisse e Utrillo. Un’ultima domanda che mi pongo: è una musicalità nordica, struggente, quella che vedo in Carlomagno; è un virile trasporto che sa di canto silenzioso, di lieder di Schubert. Perché, dopo tanto tempo che gli lavoro accanto, non avevo scoperto questa indole del personaggio? E’ forse uno dei misteri dell’arte, ma solo di quella che vediamo davvero.

Franco Morselli, Ottobre 1998


Visioni 

Vincenzo Carlomagno è un architetto . Oltre ad esercitare la professione dell'architettura, Carlomagno insegna all'Istituto d'Arte "Venturi" della sua città d'adozione, Modena. Ricordare entrambe le facce della pratica di uno stesso mestiere, svolto con passione oltre che con indubbie competenze, serve a chiamare in causa gli aspetti più razionali di un fare controllato che Vincenzo - da anni mio collega a scuola e amico partecipe di discussioni e vicende - manifesta come la componente più visibile del suo carattere e del suo comportamento esteriore. Nei fatti, capita che l'anima dell'uomo possa intravedersi nel rigore di tavole progettuali tanto quanto nella vita quotidiana. Nelle une infatti l'invenzione di soluzioni formali perfette si alleggerisce nella grazia funzionale dei materiali e dei colori prescelti, nell'altra invece, l'introversione apparente si apre su squarci di passionalità pura e coinvolgente. La sua pratica della pittura non fa che confermare tutto questo. Allievo del Liceo artistico a Roma negli anni Sessanta, Carlomagno ha potuto fare esperienze ed incontri significativi che hanno comunque nutrito, sedimentandosi, ogni suo successivo operare, anche dopo la laurea in architettura, quando Vincenzo ha continuato a frequentare la pittura, pur esponendo solo saltuariamente. La piccola ma scelta selezione di suoi lavori su carta, presentati in questa mostra, dichiara di lui molto più di quanto non appaia a prima vista, quando cioè si resta attratti dal soggetto reiterato dei suoi dipinti (il paesaggio) e dalle declinazioni variate di colori e materie, ultimamente anche impreziosite da tonalità forti e da alcune varianti stilistiche significative. Intanto si deve riaffermare che lavora solo su carta e sempre sul paesaggio. Non più dunque, come in tempi lontani, pittura su tela e bisogno di dichiarazioni e prese di posizione esplicitate attraverso la pittura. Poi, si può osservare che la scelta della dimensione contenuta del foglio (il suo è un lavoro "da tavolo") dice di una volontà di raccoglimento e di pensiero intimistico che il tema prescelto e le modalità appartate della sua espressione - come della sua vita - non contraddicono. Sono proprio i modi e il linguaggio del dipingere che chiariscono la posizione e il sentire attuali di Carlomagno. Il paesaggio come soggetto e la sua percezione restano profondamente romantici; peraltro lo stesso gesto pittorico di Vincenzo, traslato soprattutto nell'ampiezza di cieli gravidi di sentimento e di colore drammatico, trasmettono un senso tuttora panico del mondo. Ma i cieli e la loro immagine sono frenati, anzi necessariamente contenuti, dalla limitatezza spaziale del foglio che condiziona l'azione pittorica.Anche la prescelta successione continua di albe, tramonti, notti, giorni che, con le loro incantevoli condizioni luministico/atmosferiche affascinano il pittore per le variazioni cromatiche, non è ormai più che l'occasione di proiettare, nel paesaggio e dentro la materia dei suoi colori, il sentimento soggettivo dello scorrere eterno del tempo e della vita, perpetuati anche attraverso la pittura.Credo cioè che non ci sia più nulla di visionario nelle visioni di Carlomagno, perché il tempo che egli trasla nelle sequenze dei suoi fogli traduce - fuori da possibili valenze metaforiche - la ritmica continuità del tempo fisico dei fenomeni atmosferici che ordinano e regolano la nostra esistenza, sempre uguali eppure sempre variati e variabili. Proprio il suo guardare (e vedere) la natura mettendo a guida di occhi e sentimenti la ragione lo porta a quella sua pittura, dove sempre compare l'idea e la forma dell'orizzonte, linea rigorosa, quasi limite fra ciò che è conoscibile o evocabile e quello che può solo rappresentarsi per affioramenti e segni che ne attenuano la certezza. Un'indicazione pittorica dunque che si fa scansione netta fra fisica e metafisica, orizzonte concreto eppure mentale (come la geometria) che induce a dimensionare cose, memorie, sentimenti e visioni. Di fatto negli ultimi lavori, mentre nel campo visivo del foglio Carlomagno alza la linea che separa terra e cielo, togliendo spazio ai gesti pittorici del sentimento, egli abbassa lo sguardo sulla materia attraverso la quale traduce in pittura l'apparizione e l'idea del mondo naturale. Attraverso l'attuale ispessimento dell'impasto cromatico (che ottiene con polveri, terre, smalti, colle...), oltretutto impreziosito da tocchi dorati che sono ora baluginii ora nette rigature di luce, credo che Vincenzo dichiari il suo bisogno di stare comunque "con i piedi a terra". Carlomagno interviene cioè a razionalizzare la sua idea e percezione di paesaggio proprio quando sembra maggiormente impreziosirla, perché gli sta a cuore non andare 'sotto' la superficie del mondo (e della pittura), ma guardare ancora - sempre diversamente - la terra e i suoi fenomeni più appariscenti ed eterni. Stupirsi ancora dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle nuvole, dei cieli e delle tempeste liberatorie, significa - io credo - voler continuare a viverle e a vederle pur conoscendole; significa non rinunciare al sentimento, ma non identificarvisi, e restituirlo per via di memoria e reinvenzione pittorica controllata.

Nadia Raimondi, Aprile 2001


i "paesaggi inquieti" di Vincenzo Carlomagno 

 Mare, terra, cielo… forse, alberi. E nubi che si addensano, si dispongono secondo un disegno a noi sconosciuto, e poi scorrono e si rincorrono in una sorta di danza, come portate via dal vento che piega i fili d’erba e confonde ancora di più la percezione dell’infinito. Oppure spiagge desolate – luoghi affannati, senza memoria, che non conoscono la luce del sole – che si consumano nell’abbraccio irrisolto fra il grigio della sabbia e la linea del cielo, in un desiderio di freddo, di abbandono, di altrove, di sé. E poi giù, nel fondo, a scavare in una terra che non è più nostra, che non ci appartiene, ma che è lì, a testimoniare la finitezza dell’essere. Un altrove di rimozione e di desiderio, lontano da noi e dalle mille incombenze della quotidianità, dal ritmo serrato ed intenso della nostra esistenza: eppure, non è difficile immaginarsi spettatori partecipi ed inconsapevoli di questi paesaggi, vissuti sul filo emotivo di una distanza che ci allontana e ci cattura, costringendoci a perdersi nel nulla, ad inseguire un contatto che svanisce per sempre, proprio mentre sembra ineluttabile. Le "guaches" di Vincenzo Carlomagno sono una parafrasi dell’astrazione: individuano un percorso narrativo fatto di assenze, di esclusioni, di palpiti che hanno la forza di vivere senza che ci sia un uomo con loro: ma si accompagnano ad una fredda musicalità, ricercata come una sorta di rifugio nella mistica dispersione dell’allontanamento. Sono percorsi che tendono all’assoluto, immagini non necessariamente legate ad un luogo specifico, nelle quali non si deve andare alla ricerca di somiglianze con altri luoghi già visti, o già vissuti, o abituali abitatori delle nostre fantasie: sono, piuttosto, i confini della nostra esistenza, tensioni emotive che si colorano di azzurri, o di verdi, o di altro: sono l’attraversamento di quella banalità opprimente che è l’incedere ossessivo del giorno, della notte, e poi ancora il giorno… Non c’è il sole, mancano le tenebre, nei paesaggi inquieti di Vincenzo Carlomagno : non ci sono storie da raccontare fino a notte ai bambini che vogliono godere del fuoco, delle castagne arrosto, delle parole calde e fascinose che ti accompagnano ai limiti fisici dell’oblio. C’è un viottolo, però accidentato, pieno di sassi, di asperità, che ti conduce all’insopprimibile desiderio dell’a-spazialità e dell’a-temporalità: e potrai finalmente navigare nelle ferme acque dell’infinito.

Giorgio Berchicci, Novembre 1998


Presentazione per la raccolta di poesie: "CON GLI OCCHI SOCCHIUSI"

Ogni passo è un viaggio

Una stupefacente coerenza dovrebbe essere un ossimoro ma, in questo mondo dove l’incoerenza è regola, non lo è. Una inimmaginabile prevedibilità dovrebbe esserlo ancor di più ma, in un mondo di spregiudicate banalità e di ovvie trasgressioni risulta, quasi ossimoro nell’ossimoro, imprevedibile davvero. Nel senso che, quando Carlomagno mi ha mostrato i suoi ultimi lavori, mi ha spiazzato, anche se, ripensandoci poi, mi dico e mi ridico che avevo previsto tutto. Ho un testimone d’eccezione: Carlomagno stesso. Glielo avevo detto parlando dei suoi quadri, di quelle sue superfici dove continuamente, ostinatamente, il segno ed il colore intessono fitti dialoghi tra ciò che abbiamo più vicino e l’infinito, tra l’io e il mondo, tra l’anima e l’universo ( e tutto ci lascia attoniti, come se per la prima volta vedessimo ciò che abbiamo sempre visto, o sapessimo solo ora ciò che da sempre sapevamo). Gli avevo detto: "sei un poeta …". E credevo di aver detto tutto. E allora Carlomagno mi ha stupito. Mi ha donato alcuni di quei suoi preziosi libricini che stampa col computer (tre, per l’esattezza, almeno fino adesso) pieni di poesie "vere", vere in senso stretto, fatte di lettere invece che di linee, di versi invece che di macchie di colore, di ritmi invece che partizioni di carta, di parole invece che di forme. Ha cambiato filone storico, tecnicamente parlando. È saltato da un manuale all’altro: da quello di storia dell’arte a quello di storia della letteratura, costringendo noi che lo seguiamo a una elasticità mentale non priva di pericoli. Ecco che infatti, di fronte a queste nuove righe, a questa nuova impostazione della pagina, la mente non può più permettersi di correre alla Secession, a un goticheggiante espressionismo, o all’immenso Turner. Carlomagno la costringe a brancolare in altri campi, a consultare altri mondi, a sfogliare altri manuali alla ricerca di un approdo dove, ormeggiato ciò che ci sembra di aver colto, ospitati i libricini in un modo spirituale già consolidato nella storia, formulate un paio di dotte citazioni, sotto sotto speriamo di restarcene tranquilli. … Fosse tutto qui, il compito non sarebbe dei più ardui. I poeti dei paesaggi dell’anima, di quando cioè il paesaggio si fa anima e l’anima paesaggio, li conosciamo tutti. I momenti in cui compaiono una roccia, una casa, un vigneto, il mare ( sordo, indifferente, acqua che non disseta …) continuano a evocare in noi, con un brivido improvviso e garantito, tutta la precarietà del nostro essere. E i nomi si dipanano come in una collana di mestizia. Montale, soprattutto. Eliot, direi, ovviamente quello della terra desolata. Ma in Carlomagno il paesaggio si fa quadro, e i rimandi si complicano, e tutto si frantuma e si scombussola. Tentiamo con Seferis, il greco: "… e più su / lo stesso paesaggio copiato ricomincia …". Il copiato, il replicabile, presuppone il quadro, e copiato e quadro insieme presuppongono la tecnica pittorica. È il campo di Carlomagno. Forse solo Pasolini vi si è inoltrato con altrettanta sensibilità. Eccolo, ad esempio, quando ci porta in Versilia, una Versilia che " … i tersi stucchi, / le tarsie lievi della sua pasquale / campagna interamente umana, / espone, incupita sul Cinquale, / dipanata sotto le torride Apuane, / i blu vitri sul rosa …". E poco oltre così ci dipinge la Riviera: "… molle, / erta, dove il sole lotta con la brezza / a dar suprema soavità agli olii / del mare …". Compito esaurito, allora? Abbiamo già trovato, quindi, il punto del secondo manuale ove inserire Carlomagno? Non credo … C’è ancora qualcosa da aggiungere, un tassello manca. Qualcosa che sfugge alla retorica un po’ pedante di ogni presentazione … La quiddità che non si lascia incasellare. Ma tentare di parlarne è rischiare di cadere nel banale, è rischiare di appiattire i complicati labirinti di rimandi con cui Carlomagno ci accompagna nel suo viaggio. È un viaggio, forse, il quid. Ma non è il viaggio di chiunque: è il viaggio di un pittore. È l’andata e il ritorno tra linee e la parola, tra la frase e il colore, è il movimento che chiude un cerchio che mai avrei pensato potesse essere chiuso. Perché dentro quel cerchio ci sta tutto, tutto viene percorso da quel viaggio. La poesia e il quadro sintetizzano gli estremi delle cose, e tra gli opposti Carlomagno vede distendersi, e ci mostra, l’universo intero. C’è il presente e il passato, il ciottolo e la pianura, la sinapsi e il sistema, il pollice e l’orizzonte. E il mezzo si fa colore, e il colore si spande e ci trasporta ovunque, delicato e preciso come una larga pennellata di acquarello. Carlomagno descrive minutamente tutto descrivendo, sta qui la sua genialità, il momento della descrizione stessa. E così ci disorienta, e ci sorprende. " La fine di un racconto" dice "è sempre confine / tra tagli di pensieri / e limiti di fogli". Forse l’unità di spazio e tempo che i fisici predicano da un secolo è tutta qui. Qui è il tempo vissuto e quello delle relazioni tra le cose. È il tempo della poesia che tutto unifica. Qui è ( mi sia permessa un’ultima citazione, la più grossa ) "… legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna … ". Ed è qui, infine, l’unità dei due manuali, l’unità delle arti, quindi, e l’unità dell’uomo. Unità di ritorno, ciclo che si chiude. Nel viaggio di Carlomagno ogni passo è un viaggio, e il viaggio altro non è che un lungo passo. Ma per Carlomagno, penso, il viaggio non finisce qui. La casa sul mare non è ancora stata raggiunta. Nessuna anima, credo, è definitivamente salpata per l’eterno e lui ha ancora la disponibilità a raccontare. Nella instancabile ciclicità del suo vagabondare ha ancora troppi muri scrostati da decifrare, e le periferie infinite sono ancora solcate da troppi fossi dimenticati tra le rigide inquadrature del cemento. E poi il cielo … e la luce … E’ tutto così instabile … Come si può pensare di arrivare a un punto fermo? Ha ancora molto da osservare il cuore-occhio di Carlomagno. Buon per noi, che volentieri continueremo a farci accompagnare attraverso i suoi fogli scritti o colorati, noi che, grazie a lui, qualcosa abbiamo già raggiunto o ricordato. (O, pigri spettatori di una parvenza opaca, non avremmo preferito, forse, restarcene sprofondati nel comodo alibi della realtà impossibile? Per quanto tempo ancora l’eterno artista che nutre quei manuali infierirà col suo " perfido sorriso" sopra al brumoso torpore che ci avvolge?).

Franco Morselli, febbraio 2008.


i paesaggi interiori

Da anni seguo con attenta ammirazione la pittura di Vincenzo Carlomagno e, ogni volta che ho modo di vedere i suoi lavori, trovo un continuo miglioramento nella materia pittorica delle sue opere, una conquista sempre più sicura di stile, un approfondimento di analisi e una raggiunta sintesi che non ha proceduto a sbalzi per suggerimenti esterni, ma per una graduale decantazione del proprio linguaggio, ora aspro e violento, ora commosso con giusta misura e con accenti di delicatezza. Il mondo pittorico di Carlomagno è assai vario, ed egli non ha bisogno di prendere in prestito formule altrui, come tanto spesso si vede oggi fare anche da parte di artisti non più giovani. Le figure, le nature morte, i paesaggi (sempre uguali eppure sempre variati e variabili ), le composizioni di fantasia che appaiono nei suoi dipinti hanno fatto parte della sua vita, sono stati visti, contemplati, rivissuti da lui. La conquista del proprio stile non è avvenuta in lui acriticamente, ma per quel misterioso senso di cultura istintiva, che hanno gli artisti davvero dotati. Essi procedono infatti con gusto profondo nella loro scelta, ed è quello che li salva da diffusissimo cattivo gusto odierno che s’abbandona alla deformazione patologica. La materia costitutiva della sua pittura, giovandosi della sua lunga esperienza, è ora d’una decantata purezza armonica e d’una forza espressiva veramente rare. Pochi sanno oggi, come lui, interpretare la Natura, raccontarla in sospesa meditazione con colori squillanti di luce, con rattenuta parsimonia di gesto, di segno, con l’asprezza – quasi – della materia ridotta all’essenziale, con sensibilità così attenta e così accuratamente poetica. E, con tutto questo, Carlomagno non è un pittore puramente naturalista, ma in possesso di quella grazia che sa far proprie le suggestioni migliori provenienti dalle tendenze più vive dell’arte odierna, non escluso l’astrattismo geometrico e quello espressionistico. Questo artista, così preso dalla sua "idea fissa" (nel senso dato a queste parole da Valèry), ha scavato in se stesso un mondo semplice, alto e vario, che egli arricchisce vieppiù col passare degli anni proprio per le pure qualità della sua pittura, la quale conta in termini lirici sulle sue tele. Egli ha saputo cogliere dal mondo esterno, passandolo attraverso il suo travaglio spirituale, quelle verità essenziali che fanno delle sue opere altrettante poesie visive per virtù degli accordi e dei contrasti tra le tonalità e fra i colori caldi e quelli freddi, distribuiti con felice invenzione. Si veda come in questi lavori recenti (tutti su carta) esso si sia ancor più affinato nella sua funzione trasfiguratrice, acquistando una sonorità e una illuminazione interiore capaci di renderlo favoloso. Nonostante la complessità compositiva, i lavori mostrano un sapiente equilibrio strutturale e i colori, per alcuni versi, mi ricordano alcune straordinarie intuizioni coloristiche di H. Matisse; si ponga mente alla qualità del rosso iconico che ritorna in più di un dipinto, invadendo lo spazio e le cose: un rosso che verrebbe da definire orientale nel contesto di una tensione spiritualizzante relativamente nuova nella storia del nostro pittore, se non fosse riconducibile, con maggiore probabilità, ad una memoria della migliore tradizione paesistica della scuola romana che Carlomagno conosce molto bene. Sempre attento a quanto avviene nel mondo della cultura, Vincenzo Carlomagno ha ritenuto dal cubismo e dalla metafisica la partitura architettura, i piani ribaltati, le linee prospettiche fuggenti verso l’interno del quadro, le quinte e le spicchiature geometriche di luce sfolgorante e di ombra densa che sommuovono la fisicità del tema imprimendole movimento in modi inattesi e spesso drammatici, tra improvvise accensioni di colore e perentorie dislocazioni degli elementi del racconto, che perciò si fa sorprendente e vario nell’unità organica di una posa robusta e sanguigna. Nei lavori recenti, c’è una struttura compositiva che è tutta sua: quei segni veloci (articolati energicamente), quelle parvenze, quelle larve ( così compresse nello spazio) sembrano voler denunciare i dubbi, l’insorgere di interrogativi sul proprio status e sul proprio destino, i vuoti, la nostalgia delle cose, la testimonianza di un’ansia esistenziale; quei fiori che sembrano messi a repentaglio l’uno contro l’altro, hanno la durezza e la crudeltà del ferro, non vogliono mai allettarci promuovendo i nostri svagati semi-pensieri sulle piacevolezze del creato, ma imporsi suscitando stupore e sorpresa, come occasioni, quali effettivamente sono, di una salda presa di possesso del reale, propria dell’intero cammino del pittore. La natura, dopo essersi lei stessa ridotta a simbolo, è entrata a far parte degli oggetti. Le figure diventano presenze intriganti, inquietanti metafore dell’assenza; in paesaggio con figura la maschera androgena dell’uomo senza tempo diventa presenza metafisica nella natura, l’albero della vita che solca la mano raccontandone il destino. Lo svolgimento del segno (o della pennellata) è rapido, la visione di Carlomagno diventa un’emozione cromatica e costruttiva forte, con vibrazioni squillanti anche dove la materia risulta sfatta o in procinto di decomporsi, di disgregarsi; il racconto diventa fiabesco, la decantazione della carica sentimentale ci comunica un senso di calma estatica, di ripiegamento quasi religioso sulle viste della natura. Nelle sue composizioni ora, ogni oggetto sentito è trascritto come reperto archeologico di uno scavo interiore e di una illuminazione mnestica. Ma è anche vero che quel suo cercare ‘dentro’ la materia colore fa sì, che la superficie del dipingere diventi direttamente spazio psichico, di evocazione, poetica soglia introspettiva, periscopio verso le stanze del labirinto dove i sensi interni ricompongono e scompongono la materia dei sensi esterni, delle impressioni, delle sensazioni, dei ricordi, delle voci, fondendola ai sedimenti profondi degli strati della memoria collettiva, ancestrale. Dall’insieme di questi ultimi lavori, si manifesta con varietà di argomenti il mondo di Vincenzo Carlomagno, che non ripete qualche clichè conquistato nelle passate esperienze, ma che vivendo a contatto con diversi aspetti della vita li approfondisce e ne sa dare l’essenziale. Il rinnovarsi continuo del suo stile, come un fenomeno della Natura, avviene su temi antichi come il mondo, ed è (sempre) un rinnovamento non di maniera, ma dovuto al suo amore per gli spettacoli grandi e esili del Creato, amore che si tramuta in una carica di vitalità pittorica, esprimentesi con carattere proprio e con sintesi d’un’attualità colma di echi poetici e di durata.

Matteo Ghiotti, aprile 2009.

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