mercoledì 21 gennaio 2009

Fabrizio Loschi


BREVE STORIA DEL BIMBO GRASSO CHE NON FECE IL PARRUCCHIERE

I ricordi sono come fotogrammi, unirli tra loro significa montare un filmato, generare una sequenza di immagini che si possono scorrere in tutte le direzioni. Più si ordina questa memoria più è facile andare a ritroso, alla fonte all’origine stessa delle esperienze. E’ un complesso gioco di specchi, di funzioni differenti, la memoria è un insieme di relazioni tra elementi diversi che, involontariamente, si attiva ancora prima della nostra nascita. Di quel "prima" ricordo una notte calda e afosa di fine estate; aveva iniziato a piovere a dirotto con tuoni e lampi ad illuminare la veglia di mia madre.
Lei si accarezza la pancia e mi dice di non avere paura. Ma io non ho paura, lì dentro sto bene c’è caldo, spazio a sufficienza e vengo nutrito regolarmente come e meglio che in un albergo a cinque stelle. Lei parla, parla e mi rassicura. Mia madre parlandomi faceva coraggio solo a sé stessa e forse mi impediva anche di dormire. Ma, una volta nato, uscito dal posto comodo e caldo dove stavo benissimo, lampi e tuoni non mi hanno mai spaventato, conciliandomi, al contrario, sempre delle belle dormite.
Il temporale, vissuto all’interno di una casa, mi ha sempre rilassato.
In ogni caso la mia memoria compiuta inizia oggi; del prima ho solo pezzi, frammenti di immagini, parole isolate e odori di vita.
Oggi ho quasi quattro anni, fuori dalla finestra di casa una giornata qualsiasi, di una qualsiasi primavera, sfoggia un cielo luminosamente imprevisto. Qui da noi il cielo è sempre un po’ bianco e le poche volte che mi è possibile mi ipnotizzo davanti a tutto quel meraviglioso azzurro.
Mia madre mi ha appena sgridato per motivi che oggi non riesco esattamente a ricordare, ma che allora non potevo capire ne sopportare. Ricordo solo qualcosa di simile al sentirsi offesi. Offeso oltre ogni misura possibile. Ma sono piccolo e non posso reagire con azioni eroiche ne parole taglienti, quindi, non ci sono altre soluzioni possibili. Misure possibili, soluzioni possibili; un bambino piccolo ha solo piccole possibilità. Trovo uno di quegli stracci, a quadri rossi e bianchi, che si usano in cucina per asciugare mani e cose, lo apro per bene e al centro metto una merendina (nulla a che vedere con quelle contemporanee, per avere un idea dovremmo rifarci a qualche volume di antropologia culturale) alcuni pezzi di lego (gioco di costruzioni in plastica molto colorata, oramai caduto in disuso contemporaneamente all’utilizzo della manualità nelle attività ludico – ricreative dei bambini). Chiudo il tutto ed esco di casa. Ovviamente non sono solo, me ne vado via camminando mano nella mano con il mio unico amico, un orso di pezza dallo sguardo assente, ma rincuorante.
La mia fuga termina dopo alcune centinaia di metri, sulla via Emilia, vicino alla fermata dell’autobus. Contavo di salire sul numero 7, quello che portava in centro, che si fermava vicino a casa della nonna, davanti alla piazza della la misteriosa chiesa degli ebrei.
La casa della nonna sarebbe stato un ottimo luogo ove rifugiarsi.
La nonna, le sue due sorelle e una bisnonna; quattro signore innamorate di te la cui unica ragione di vita è renderti felice. Quattro donne fantastiche in una casa antica piena di angoli che chiedono di essere esplorati. Un solaio magico che contiene tutti i misteri e le avventure del mondo. A quattro anni tutto questo è il paradiso.
Ho quattro anni parlo poco e male ma non sono scemo.
Ho quattro anni e una mano grande mi ha afferrato per il colletto della camicia
Ho quattro anni e mi hanno beccato, ricondotto a forza in un luogo chiamato casa.
Ho quattro anni e sono stato sculacciato.
Ho quattro anni e non ho pianto.
Incredibile la capacità di sintesi concettuale dei bambini; in una sola azione avevo scoperto, e dichiarato, tutte le mie intenzioni. In una sola azione avevo disegnato i contorni di ciò che sarebbe stato il mio futuro.
Sarei stato orgoglioso e permaloso. Sarei stato goloso.
Avrei avuto sempre una forte necessità creativa.
Avrei sempre avuto la necessità di un rapporto di referenza speculare con i miei oggetti di affezione. Non avrei mai avuto nessuna attitudine all’accettare regole che non fossero condivise anche da me.
A quattro anni capii che per fuggire devi, almeno, poter disporre di te, quindi decisi di ottimizzare il tempo che mi separava dal momento opportuno. Di tempo ne avevo moltissimo, non avevo molto da fare, ero timido e goffo fin da allora; il mondo mi incuriosiva ma suoi abitanti mi facevano un po’ paura. Decisi di essere il capo dell’unico esercito possibile; certo era un bel gruppo, formato dagli eroi di sempre: il mio orso ed io. Ci saremmo divisi i compiti, io sarei andato avanti in esplorazione e lui mi avrebbe aspettato guardandomi le spalle. Sono sempre stato grato al mio orso per il suo lavoro ben svolto. Sapere che qualcuno mi avrebbe protetto mi aiutò molto in quelle mie prime esplorazioni. Di fatto non si esplorava nulla. La casa era sempre quella, l’esterno era stato proibito, quindi io ero l’unico soggetto, alla mia portata, che potevo esplorare.
Io ero l’unica alternativa al mio desiderio di andarmene.
Ero perfettamente cosciente del fatto di essere troppo piccolo per poter prendere qualsiasi decisione. La cosa non mi piaceva e mi dava molta sofferenza.
Ero triste, molto piccolo e sapevo di essere solo; feci allora di questo mio dolore impotente la chiave di accesso alle mie visioni fantastiche.
Da quel giorno, esplorandomi, ho imparato a cadere dentro me stesso e a parlare con le cose che mi circondano; ad utilizzare ogni momento disponibile per cercare le chiavi di accesso ad un mondo non visibile agli altri.
Intanto, fuori, nel mondo visibile, sono già passati quasi due anni. Dentro nel mio ho già smesso di contare i secoli.
Nel frattempo avevo imparato a leggere ascoltando le fiabe musicali. Mi piaceva da morire la voce del gatto con gli stivali, le canzoni che aprivano e chiudevano la fiaba e poi c’erano le illustrazioni grandi e bellissime; e io mi chiedevo chi era quel bambino che disegnava così bene. Non poteva essere altrimenti, perché le fiabe sono cose da bambini. Nel momento in cui riuscii a collegare il fatto che la parola che ascoltavo, dal disco in vinile a 45 giri, corrispondeva a una piccola riga piena di formichine nere pensai di avere capito il trucco. Mio padre e il mio cugino più grande di tanto in tanto mi aiutavano ad ordinare le lettere in una cosa complessa che si chiamava alfabeto.
Solo allora, finalmente, compresi. Dentro la riga stampata c’erano le lettere che poi formavano le parole che poi formavano i pensieri che poi permettevano di raccontare le storie che, se erano belle, diventavano i viaggi.
Viaggi che , a loro volta, mi permettevano di sopravvivere. I viaggi erano le mievie di fuga.
I viaggi, comunque, li facevo già da prima di imparare a leggere, disegnando motociclette cariche di tutto; sedie, vestiti, un camino che, di fatto, non ho mai avuto e poi c’era sempre il mio orso messo bene in vista tra i bagagli e la nutella, sempre nascosta da qualche parte che non si sa mai che me la becchino. Ho viaggiato ovunque, bastava girare foglio e fare un altro disegno mettere un albero o un lago sulle cartine geografiche che ricalcavo da un vecchio atlante. Forse è lì che ho iniziato a pensare che il mondo, tutto sommato, è una roba piccola e che il concetto di grandezza non ha nulla a che vedere con il pianeta dove tutti viviamo.
La scuola è molto bella. C’è un maestro elegante che fuma molto e poi c’è un buon odore di gomma da cancellare che si sente ovunque. Andare a scuola mi permette di uscire di casa più spesso, la cosa è interessante ma sono sempre un poco spaventato. Dalla mia aula si vede un grande giardino dove non si può mai andare. E’ bellissimo; è il posto giusto dove parcheggiare occhi e cervello in attesa che mi servano per qualcosa di altro magari più tardi. Anche se la scuola è bella e si imparano delle cose io non sono mai a mio agio; detesto gli altri bambini. Mi sembra che puzzino e che facciano troppo rumore, ma forse sono solo bambini; me lo ripeto spesso e questo pensiero mi angoscia. Rischio spesso di mettermi a piangere, da solo, senza motivo.
Se loro sono solo bambini io cosa sono? Nel dubbio resto isolato e non parlo con nessuno.
Io non so cosa sono ma, so perfettamente cosa non mi piace; ad esempio che detesto farmi fotografare. Alle feste idiote, a scuola, in vacanza c’è sempre qualcuno in agguato con una macchina fotografica. Non mi piace nemmeno farmi fotografare con mio padre, o con mio cugino che è il mio mito perché è più grande, gioca a pallacanestro e fa i modellini dei carri armati che mi piacciono molto; perché sono piccoli ma uguali a quelli grandi. Quando divento grande voglio essere come lui, e anche io voglio avere un giradischi stereo per ascoltare la stessa musica che lui ascolta, anche se adesso non la capisco proprio. Odio le foto perché non mi piaccio, anche se non posso fare altrimenti; per ora debbo farmi bastare lo spazio angusto e poco arieggiato che questo piccolo corpo mi offre.
Non mi piaccio, nonostante l’amore di mio padre le coccole delle nonne e i baci di un paio di zie molto fighe. Non mi piaccio ma ogni giorno debbo timbrare il cartellino col mondo.
Prima o poi finisce. Prima o poi finisce. Prima o poi finisce
Me lo ripeto ogni giorno, mentre vado a scuola, e ogni giorno fa schifo uguale; si vede anche dalle fotografie, quelle che io detesto, che io lì non volevo esserci, che non mi piace proprio. Si vede dalle foto che sembro ritagliato e incollato. Lo capiscono tutti che, lì, dentro l’immagine, ogni cosa, bambini, scuola, paesaggio, funziona benissimo; e che l’unico elemento che non c’entra nulla sono io. Si vede subito che sono in prestito. Prestato da chi, cosa o perché non importa. Si vede e basta.
Infatti l’ultima immagine che ho conservato, tra tutte quelle accumulate durante gli adii e gli arrivederci, è quella di un bambino grasso e taciturno, prigioniero di un paio di occhiali dorati e di una giacca rossa col taglio classico con uno stemma dorato da college inglese bene in vista.
Purtroppo le vie di beatificazione piccolo borghese sono tutte in salita. Nulla può essere risparmiato nemmeno il colore… nemmeno il dolore dell’imbarazzo di rimanere immobili, impotenti, davanti all’obbiettivo. Ho amputato molto di me nel tempo, senza sofferenze ne malinconie di alcun tipo, ma non sono mai riuscito a liberarmi di quel piccolo idiota ottuso e impacciato, della sua giacca rossa, della sua inadeguatezza alla vita.
Tra me e l’obbiettivo il tempo eterno del flash, un arco, una sezione di tempo/luce che diviene materia. Un blocco da costruzione, una massa omogenea e inerte che opprime il cuore; che impedisce ogni azione, perché nessuna fuga è possibile se tu sei prigioniero in te stesso. Ho imparato a trattenere il fiato; a calarmi in un’apnea psichica dove, tra reni e polmoni, legavo il tempo al mio destino. Il tempo, sempre lui, sempre lo stesso alito di tempo, come fosse il fiato ultimo di un moribondo a tutti sconosciuto. Ma è tempo. Il mio tempo. Ho imparato a distrarmi con ostinazione e a mutare il tutto in un odore… uno qualsiasi. Il primo che la mente può evocare.
Chiudendo gli occhi il tempo era diventato la primavera, che in foglie luminose entrava dalla finestra lavando di colori esplosi tutti i giocattoli che abitavano il tappeto della mia camera. Chiudendo gli occhi il mondo spariva in un odore caldo; animale e materno, tra il vestito a fiori della mia tata e il suo grande seno.
Chiudendo gli occhi il mondo spariva, il tempo si consumava assieme agli umani che lo alimentavano; chiudendo gli occhi riemergevo altrove.
Un’osteria dell’apennino emiliano tra il fumo amaro dei sigari, il suono delle carte sbattute sul tavolo, due bestemmie e il colore rosso dei bicchieri pieni di vino. Il luogo giusto dove fermarsi, dopo chilometri di curve, per pisciare e bere qualcosa. Un posto dove sparire o parlare di nulla col primo che capita. Un giusto luogo di un altrove qualsiasi… ho mescolato due racconti di adulti sconosciuti e le impressioni di un vecchio bar del centro storico, dove sono entrato una volta sola con mio nonno. A mio nonno, lo imparai più tardi, le osterie piacevano molto, e forse era proprio per quello che mi aveva chiesto, quel giorno di non dire nulla a nessuno. Io non avevo capito; mi sembrava non ci fosse nulla di male in quel posto lì, le persone mi sembravano simpatiche e una vecchia barista con i capelli a carciofo mi aveva regalato un cioccolatino. Ma il nonno mi aveva guardato come si guardano i grandi tra loro e io mi ero sentito importante. Quello sarebbe stato il nostro segreto.
Ma le osterie non sono posti per bambini, con o senza segreti. Il tempo, urla un senso di colpa e dice che sono troppo piccolo per ordinare da bere e che forse qui, o lì, non dovrei stare.
Vado. Rientro nel mio corpo, lo trovo subito tra tutti gli altri; il mio è quello che mi piace di meno.
Rientro ed esco ancora, perché intanto hanno interrogato qualcun altro e io sono libero di andarmene nuovamente.
E’ molto caldo qui sulla spiaggia. La luce è quasi bianca e la sabbia si fonde in un mare trasparente. Lei è bellissima capelli rossi e costume azzurro. Lei è bellissima, i suoi occhi guardano solo me. Non posso sapere il suo nome, l’ho conosciuta da poco, l’ho incontrata sulle pagine di una rivista di mia madre, il mare invece è una cartolina che ci hanno spedito certi amici dei miei genitori, antipatici e presuntuosi. I piedi affondano nella sabbia e tutto il resto della mia anima nell’odore dei suoi capelli. Da qui vorrei non dover tornare mai più. Ma tra un battito di ciglia ritroverò un maestro, un parente noioso, il cortile dove tutti giocano a calcio e io guardo e basta. Tra un attimo devo tornare non sono certo di cosa troverò; ma sono pronto a tutto.
Dentro, fuori… per milioni di volte scappato; salvato, fuggito verso un infinito altrove.
Ogni bambino si rifugia in un mondo parallelo cercando di sopravvivere all’inadeguatezza del suo presente. Anche io fuggivo il mio presente ma capii subito che nel futuro ci sarebbero stati molti guai, poche garanzie e tanto tempo perso in rituali inutili e sbiaditi.
Eppure, di tutto questo, ne ero certo, sarei stato avidamente goloso.
Dalle elementari alle medie la mia vita non cambiò granché. Cambiava solo il giro vita, sembravo destinato ad un costante ingrassare, del resto in questa parte del mondo, quella visibile a tutti, la cosa migliore pareva essere il cibo. Più che mangiare, vista la mia voracità, sembrava quasi che volessi eliminare forme di vita considerate inferiori. Non provavo pietà di nulla e poi avevo sempre un enorme vuoto da riempire dentro me. A distanza di tempo capisco meglio i miei silenzi e le mie timidezze. Forse stavo solo digerendo.
Rimanevo basso, ingrassavo, tacevo e guardavo la mia faccia esplodere di brufoli, ma non mi preoccupavo, tanto non sapevo cosa farmene io di una faccia.
L’unico segnale concreto della mia evoluzione era sulla carta. Disegnavo sempre meglio, copiavo quel che capitava. Quando non capivo come era fatta un’immagine la ricalcavo appoggiato ai vetri della finestra. Era un modo per aiutare la mano a capire la strada che avrebbe dovuto percorrere con la matita. La cosa più bella era vedere la mano che capiva davvero, che imparava in fretta le curve e le rette e che, dopo un poco, ce la faceva da sola senza aiuti e senza bisogno di ricalcare.
Nel frattempo, tra cibi, disegni e silenzi, si alternavano le estati; e tra i brevi soggiorni in montagna e le lunghe umiliazioni marittime si infilava sempre un periodo strano.
Mia madre faceva la parrucchiera nel centro della città. Il suo salone era uno di quei posti dove le signore per bene si davano appuntamento tra loro per dimostrarsi reciprocamente di essere per bene; pare lo fossero davvero. Tra rotocalchi e complimenti sciocchi passavo le mattine d’estate a spazzare da terra i capelli tagliati, a sciogliere retine e bigodini immerso nell’anestesia delle lacche spray; le stesse che hanno creato l’attuale buco nell’ozono.
Tutte le signore si complimentavano con mia madre per la mia educazione e per i miei bei modi. Per forza, la differenza tra me e un soprammobile stava solo nel fatto che io respiravo.
Mi piacevano da morire i colori dei bigodini e quelli delle creme dall’odore acre che le signore si facevano spalmare in testa sui capelli. Dopo, una volta cotti dal calore del casco, non mi piacevano più perché sembravano capelli normali e io non capivo il senso di tutto quel lavoro.
Solo il punk, anni dopo, mi avrebbe ridato la stessa emozione estetica.
Spazzavo per terra e tenevo in ordine gli asciugamani. Prendevo complimenti e piccole mance; non era affatto male; e a mia insaputa iniziava a delinearsi una ipotesi di destino possibile. In fondo mia madre era la prima della sua stirpe ad essersi liberata dal peso di un lavoro dipendente, quella era l’impresa di famiglia, funzionava, c’erano dipendenti e la clientela non mancava di certo.
Chissà, come si diceva: un giorno tutto quello sarebbe stato mio.
Merita un appunto a parte, la tipologia di donne che mia madre e la sua socia hanno sempre scelto, come lavoranti dipendenti, in quaranta anni di lavoro. Per motivi diversi ognuna di queste ragazze risultava brutta; tutte erano bravissime, simpatiche e grandi lavoratrici, alcune di loro erano davvero molto intelligenti, ma sempre comunque inguardabili. Le possibilità ad oggi sono solo due:
La prima è che mia madre e la sua socia fossero molto più femministe e progressiste dei loro colleghi e di quanto andavano dichiarando.
La seconda ipotesi accetta il fatto che le due socie fossero, come io sostengo da tempo, due geni del marketing. Effettivamente, in quel contesto, ogni signora che usciva dal salone di bellezza era in pieno diritto di sentirsi una diva e una strafiga.
Come tutti gli ottusi non sono stato particolarmente precoce e sveglio, ma stare in mezzo a tutte quelle donne iniziava a piacermi. Nel mio immaginario confuso mescolavo forme, odori, sguardi costruivo e smontavo bellezze ideali fatte coi pezzi che avevo a disposizione. Una sorta di protoerotismo da autopsia: le gambe di questa, gli occhi di quella, un sedere di qua, una bocca di là. Dentro tutto si mescolava. Le clienti della mamma si fondevano con le altre donne viste per strada, pezzi di signore incontrate sull’autobus riapparivano nelle fotografie dei giornali.
Anche il dottor Frankenstain deve avere avuto un infanzia strana e complessa.
Poi, con suono di ghigliottina, ricominciava la scuola, le inadeguatezze, le lezioni stupide e prive di vita, gli insegnanti annoiati l’odore pessimo dei panini alla mortadella, chiusi a macerare dentrole cartelle. I miei tre anni di medie sono stati ad oggi gli anni peggiori della mia vita. In una cava a contare sassi avrei imparato molto di più.
Ma era una scuola per bene, dove vanno i ragazzi per bene, figli delle famiglie per bene e di quelle signore per bene, sempre le stesse, che si incontravano nel salone di mia madre. Una scuola davvero per bene, dove ci sono pochi meridionali e i professori sono professori. Io dovevo solo essere contento di stare in quella scuola; io che in fondo ero il figlio di una modesta famiglia piccolo borghese.
Io ero una sorta di miracolato, l’unto dal signore della scalata sociale.
Dio come era felice mia madre. Dio come sono stato di merda io.
Non avevo ancora fatto nulla, ma già sapevo che tutto questo "per bene" non avrebbe fatto per me.
Nella mia classe i ragazzi erano tutti belli, atletici e vincenti fin da allora. Tutti erano sportivi, quasi tutti erano biondi, anche se spesso in modo sospetto. Ma tutti erano molto belli. A dire il vero non proprio tutti, oltre a me e ad altri due erano scarti di produzione umana; anche un altro, in verità, era molto brutto ma era talmente ricco che la sua bruttezza non si vedeva quasi. Le ragazze, invece, non me le ricordo proprio non ho mai avuto il coraggio di guardarne una negli occhi. Con gli altri due brutti c’era una sorta d’intesa, perché anche gli scarti possono fare gruppo, ma tra di noi non potevamo dire di essere veramente amici poiché nessuno parlava. Eravamo tutti e tre troppo timidi, ci limitavamo a stare vicini durante la ricreazione, in quell’unico angolo lasciato libero dalle spavalderie sportive degli altri. Nessuno parlava, stavamo vicini con gli occhi bassi, come un gruppo di animali spaventati colti di sorpresa dalla pioggia. Io sono sempre stato convinto che anche gli altri due cadessero spesso dentro sé stessi. Forse, oltre a essere tutti brutti, ci eravamo riconosciuti, ma non posso esserne certo; tra di noi non parlavamo mai.
Implodere nello spazio che il tuo corpo ti mette a disposizione, ho scoperto molti anni dopo, è una tecnica di sopravvivenza psichica che molti detenuti sopravissuti ai campi di concentramento hanno messo in atto. Io l’ho fatto e sono sopravissuto.
Il 1978 è un anno davvero importante. Il punk arriva, per la prima volta, in Italia in prima serata su Rai 2 e, nello stesso anno, qualcuno mi chiede, sempre per la prima volta, cosa mi piacerebbe fare dopo le medie. Due momenti storici; un anno indimenticabile.
Dopo il primo tentativo di fuga il mondo si era accartocciato attorno a me, questa volta una mano amica mi regalava un paio di forbici.
La professoressa di educazione artistica mi consiglia di iscrivermi all’Istituto d’Arte; io dico subito di sì, mio padre ci pensa, mia madre sviene.
Io non so come stiano le cose adesso ma allora secondo la tradizione cittadina, l’Istituto d’arte era un covo di studenti fannulloni, sovversivi e drogati. Questi deliziosi aggettivi si utilizzavano sia per gli studenti che per i professori e peggioravano se si parlava delle studentesse e delle professoresse. Mi padre continuava a pensare e mia madre continuava a svenire.
Io tacevo ma in gran segreto iniziavo a dimagrire, camminando molto e soffrendo in silenzio. Incrociavo le dita perché si sussurrava che da qualche parte in casa ci fossero già i moduli di iscrizione che mio padre era andato a ritirare.
Millenovecentosettantanove, settembre, ore 10 del mattino
Entro per la prima volta all’istituto d’arte in una condizione mentale tra lo stato confusionale e l’euforia degli ebeti; avevo una sola domanda che mi ronzava in testa: riuscirò a sopravvivere a tutta questa eccitazione? Non sapevo cosa mi sarebbe accaduto ma per darmi un tono avevo applicato al mio zaino militare delle spillette comprate al mercato con i nomi dei miei gruppi preferiti, Sex Pistols, Devo, Clash, Ramones… certo, erano solo feticci di plastica ma riuscivano a darmi sicurezza; e poi non dimentichiamoci che il mio orso di peluche mi ha abbandonato già da alcune pagine.
Ho fatto solo pochi passi quando qualcosa di grande mi ha sollevato al grido di "hei! E’ arrivato un altro idiota!" io mi sono trovato steso a terra in mezzo ad un gruppo di ragazzi vestiti di nero con i capelli dritti in testa e tutti colorati.
Ero a casa. Cazzo!
Per la prima volta in tutta la vita il mio cervello e il mio corpo erano nello stesso posto.
Nel breve tempo di un mese avevo perso completamente ogni possibile riferimento con la mia vita precedente. L’idiota grasso con la giacca rossa e gli occhiali dorati non era morto, ma almeno restava nascosto quasi tutto il tempo. Mentre i capelli cambiavano colore io cambiavo modo di pensare alle cose e la mia mano disegnava diversamente cose diverse.
Forse tutto andava troppo veloce e il rischio era quello di perdersi in un vortice di emozioni.
Ma che fare se dai quattro ai quattordici anni ero stato un rifugiato? Chiuso dentro me stesso, in fuga costante dai bombardamenti del mondo esterno, vivevo dentro il mio uovo e partecipavo al mondo solo il minimo indispensabile; quel minimo sindacale che sancisse quotidianamente la mia appartenenza alla categoria dei vivi. Avevo chiesto asilo politico al mio cervello, nell’attesa di avere il diritto a crescere autonomamente, a dire a fare ciò che davvero pensavo. Avevo atteso il tempo in cui sarei finalmente nato con il mio permesso. Avevo visto un sacco di cose nelle mie fughe, tra un apnea e l’altra, e adesso volevo toccarle tutte con mano, capire se erano vere e, se sì, che sapore avevano. Dovevo recuperare un sacco di tempo e c’era molto lavoro da fare.
Bene, ero nel posto giusto.


Fabrizio Loschi
Gennaioduemilanove

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