mercoledì 21 gennaio 2009

LA SOGGETTIVA DEL PASSAGGIO

Alcune considerazioni sull’opera di Cinzia Ghioldi

di Franco Morselli
"Via delle Belle Arti" inizia la sua attività dedicando una serie di tre mostre ad altrettanti ex allievi della scuola: Cinzia Ghioldi, Mattia Scappini e Andrea Tedeschi. Li accomuna, oltre la giovane età e l’intatta passione, l’essere attualmente docenti di discipline artistiche nella scuola stessa ove hanno studiato.Il lavoro e la storia di Cinzia Ghioldi, con cui l’attività effettivamente esordisce, sono entrambi emblematici. Cinzia, da studentessa, frequentava la sezione dell’Istituto d’Arte all’interno della quale si trova la bellissima sala che ospita la mostra. Prima di riapprodare come docente alla sua scuola di provenienza, ha vissuto a Bilbao dove ha collaborato con l’università come ricercatrice. Disegnatrice, pittrice e scultrice, ha già esposto le sue opere in diverse mostre. Ma l’affermazione più importante l’ha ottenuta nel campo della cinematografia, realizzando un raffinato e suggestivo cortometraggio di animazione col quale ha conseguito il premio AVANTI al 25° festival del cinema di Torino diretto da Nanni Moretti. Ed è in questa impronta cinematografica, riscontrabile non solo nel film, ma su ognuno dei disegni e delle tele qui esposte, che risiede l’inquietante emblematicità della sua opera. La struttura di un film, serie di immagini correlate dalla logica della narrazione, se da un lato moltiplica a dismisura l’unicità del foglio o della tela, dall’altro ne unifica le immagini nella presenza forte di un protagonista. E questo scambio opera unica–sequenza, costante che percorre l’intera opera di Cinzia, aggiungendo al semplice accostamento di oggetti esposti la dimensione tempo, e, soprattutto individuando in essa un istante pregnante e preciso, getta sulla sua produzione e, direi, sull’intero evento della mostra, una luce inaspettata. Il soggetto della narrazione è una bambina, e il primo effetto, per l’osservatore, è di essere trascinato nel mondo dell’infanzia. Ma il secondo effetto, immediatamente, congela ogni leggera disposizione d’animo che istantaneamente ci si era preparata, con l’agghiacciante carrellata di accadimenti che scuotono la vita della piccola protagonista. Ci si accorge subito, prima ancora coi sensi che con il pensiero, che l’attimo dell’infanzia sospeso in Cinzia è un attimo particolare, contemporaneamente ben noto e tuttavia oscuro, e che il suo modo di descriverlo non è quello di una Alice nel paese delle meraviglie. Se il primo giudizio formulato riconduceva ad un universo di illustrazioni per bambini, non è solo l’inquietudine di certi dettagli a farci cambiare idea. C’è dell’altro che va osservato con attenzione. Le tavole sono semplici, ma non si può parlare di una semplicità disarmante. Al contrario, l’immagine che subito sembra offrirsi tenera e innocente, ad ogni tentativo di autentico avvicinamento sviluppa aculei che respingono lontano. Il segno che, sincero fino all’assoluta mancanza di mediazione degli schizzi, si condensa nell’ideogrammaticità di quelle visioni infantili è tutt’altro che un morfema destinato ai bimbi, forse neppure a tanti adulti, almeno a quelli che scivolano su ciò che vedono con distrazione e superficialità. Nelle mani di Cinzia la matita, mezzo nudo per eccellenza di chi per esprimersi non usa le parole, lascia sulla carta linee che sono altrettanti elettrocardiogrammi delle passioni. Solo in rari momenti di raffinata distrazione è leggera, ma subito, probabilmente per uno di quei moti affettivi del cuore che potremmo, pessimisticamente, definire di "consapevolezza", preme sul foglio con la pesantezza di un coltello che affonda nella carne viva. Il picco dell’elettrocardiogramma, la rappresentazione cinica e grafica del clou di sofferenza di un paziente astratto, trova nel segno di Cinzia il suo speculare grafico: è il gesto dell’affondare, dell’aprirsi in una ferita, è il semplice premere una superficie come unica rappresentazione della disperazione. E' da questo aggrovigliato mondo in cui si alternano istanti, se non di legittimo anelito, di distratta illusione con attimi di accorato dolore che si dipana la linea della figuratività di Cinzia: il soggetto bimba e ciò che il soggetto vede. O forse, più correttamente, il soggetto bimba e ciò che il soggetto sogna. Ovvio che le pugnalate di Cinzia non sono destinate a un libro per bambini. Per gli altri, per quegli adulti di cui si diceva prima, è arrivato invece il momento in cui soffermarsi un attimo a meditare. Ovvio che anche qui, quindi, come al solito, si debba ripartire da un soggetto. Partire da un soggetto, per chi abbia intenzione di capire, semplifica le cose. Basta un piccolo gesto della volontà: dismettere la propria uniforme di certezze ed entrare in punta di piedi, con delicatezza, nel mondo dell’inaspettato che una bambina dalle gote rosse offre. Attenzione però: il viaggio che ci viene offerto non va verso nessuna mirabilandia oltre lo specchio. Lo spazio del viaggio è qui, visibile e tangibile sotto i nostri occhi, perché il reale, a chi lo vuol vedere, cela alla fine un mistero solo, forse neppure il più importante. Una mostra, abbiamo detto, è anche la sala che la ospita. Non è un atto di maleducazione alzare gli occhi dalle opere esposte e indugiare un attimo sulle qualità del luogo. Se una sala neutra, quella tipica delle gallerie d’arte, è ottima per le quotazioni di mercato, non è questo il caso di Via Delle Belle Arti che punta a rappresentare quasi, come abbiamo visto, una intera storia e un intero mondo. La volta della galleria incombe aulica, incutendo quasi una sorta di rispetto o soggezione. Aleggia nella sala, in un’epoca che fa del mistero una passione diffusa, l’ombra dell’inquisizione e della massoneria. E i gessi che la arredano saldano le radici del luogo a un passato ancora più viscerale: l’ancestrale dialettica tra i corpi che torce i lottatori già copiati dal Canova; gli infiniti dubbi sul valore della bellezza che si fanno perplessità e disperazione sul volto di chi ne è vittima passiva; la dolce estasi senza tempo dei due amanti; l’incedere trionfale del cavallo che mantiene inalterata la sua orgogliosa tracotanza tanto nelle mani del predato che in quelle del predatore. È un mondo, appunto, la galleria dei gessi. È un mondo che, a chi lo sa guardare, offre l’intera storia, non quella dei fatti ma quella degli eterni stati d’animo che l’altra hanno nutrito e generato. È la realtà, il "reale", per chi accetta la storia come tale. Eppure a noi, compiaciuto soggetto turistico che si guarda intorno, quasi smaliziato deus ex machina che tutto ha capito e tutto può, mancava, dentro la sala che sintetizza tutto, quel piccolissimo quid, quell’attimino da nulla che tutto rimettesse in crisi e tutto riaccendesse di una nuova luce. Mancava, visitando la sala e visitando la mostra, il ricordo degli ultimi istanti ai quali la mente riesce a risalire, i più lontani, cioè i primi. Erano sensazioni rudimentali, primitive, che un po’, quando riaffiorano alla mente, ci si vergogna a ricordare. Erano, successive a quella preistoria di noi stessi, le prime prese di contatto tra un "io ci sono" ancora incredulo e una realtà sempre più grande, sempre più sconfinata, spesso popolata di mostri e di minacce, che ci ha rificcato in quel mistero dal quale credevamo di essere appena usciti. È l’istante, letterariamente abusato, dell’iniziazione. È l’istante in cui, come in una galleria di personaggi da museo, ci sfilano davanti le statue della realtà. Ci sono tanti modi di affrontare questo momento. La letteratura privilegia il mago, l’interprete tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto, ma ognuno di noi sa, dentro di sé, che il mago non c’è stato. Ognuno dentro di sé sa, con assoluta certezza, che non c’è altra via se non cavarsela da soli. La bambina dalle gote rosse è ancora sola in mezzo al guado, e ce lo descrive con tutta l’ansia e la realtà di chi non ha ancora dato un nome a quel che accade. Una corazza sì, quella ha cominciato a costruirsela e forse, vestita di questo abito ruvido e un po’ spinoso, forse, gradualmente, non sentirà più la necessità di affondare la matita come un coltello sulla carta, offesa dalla disillusione che sempre comporta quel passaggio. La bambina è ancora lungo il guado, e dal guado, dove ci trasporta come in una soggettiva piena di cinematografica vitalità, vede intorno a lei esseri che non si sono ancora cristallizzati in statue, in concetti, cioè, domati e pronti ad ogni evenienza. Ma è da questo guado, in questo rito di passaggio rivissuto nel modo più scevro da ogni goffaggine antropologica, che le tavole di Cinzia offrono, emblematicamente, la salda base all’immensa struttura storica che le ospita: la nascita del soggetto che alla realtà dona la vita.

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