giovedì 19 maggio 2011

LA SCUOLA DI MODENA


Presentazione a una collettiva di undici artisti che lavorano o hanno lavorato nella scuola. (Inaugurazione Sabato 28 Maggio, alle ore 17, presso la sede di Via dei Servi) 


 Di Franco Morselli


Il “Venturi” è una scuola d’arte. Anzi, il “Venturi” è la scuola d’arte della città di Modena, ed è dal 1785 che la storia dell’arte della città si identifica con quella della sua scuola. Ogni amante di storia locale, ogni appassionato d’arte che frequenti chiese e musei, ma anche negozi di antiquariato e mercatini, lo sa. Volendo, con pazienza e amore, si potrebbe ricostruire un’atmosfera che, attraverso la gravità legittimista della corte austro-estense (Adeodato Malatesta, in questo caso, sovrasta tutti), il lapidario proliferare dell’unità d’Italia (ad esempio Giuseppe Gibellini), l’ottimismo campagnolo del ventennio (dal Graziosi al Prampolini), fino all’introversa crepuscolarità del dopoguerra (Masinelli, Pelloni, Semprebon…), ci porterebbe a definire i contorni, l’atmosfera appunto, di una vera e propria scuola di Modena. Poi ci sono le gallerie, e le iniziative più o meno sponsorizzate della istituzionalità culturale, a fotografare il presente in cui la scuola è dilagata. Scegliere un nome e tralasciarne un altro sarebbe, in questo caso, di cattivo gusto. Le tre parole, “Modena”, “storia” e “scuola”, si intrecciano, si scambiano di posizione, soggetti e predicati sono intercambiabili in un libero gioco di combinazioni e sillogismi il cui significato individua sempre e comunque, alla fine, la parola arte e comprende, in modo più specifico, la modenesità dell’arte. Ma le gallerie e le istituzioni, prestigiose o di nicchia che siano, rappresentano, della contemporaneità, solo una faccia. Se il mercato esplicito dell’arte è il sangue che scorre, manca, per completare il quadro, il cuore che lo pompa. Da sempre, dal 1785, come si diceva, questo cuore è la scuola, accademia, istituto, liceo, comunque la si chiami. Ed è da questa ovvia considerazione che è nata l’idea, sono ormai tre anni, di istituire una vetrina che renda pubblica, agli allievi ma, soprattutto, alla cittadinanza che alla scuola si affida, le capacità produttive, gli ambiti espressivi e le più intime scelte artistiche di coloro che a questa sorta di motore culturale danno vita. Otto mostre in tre anni di cui questa, l’ottava, non esito a dire che sia la più importante. Per due motivi soprattutto. Uno: nasce spontanea. Mentre le sette mostre precedenti (la cui documentazione approfondita può essere recuperata sul blog citato nella retrocopertina del presente catalogo) avevano necessitato di un gruppo di lavoro che forzasse quasi una certa ritrosia da parte degli espositori stessi a farsi promotori di un dibattito e di uno scambio che li vedesse protagonisti pubblici, vincendo un’inerzia in cui, come in un vizio, la scuola sembrava essere sprofondata, per la presente mostra i motivi dell’adesione sono apparsi ai più, com’è giusto che sia, ovvi. Due: è una collettiva e, oltre a fornire una qualificata panoramica delle diverse anime che danno vita alla struttura “scuola”, rappresenta un prezioso momento di conciliazione all’interno di un dibattito a volte ruvido anche se, o forse proprio per ciò, ricco di spunti e contenuti. Cito, da “Il luogo e l’intento”, scritto con cui il gruppo di lavoro esordì tre anni fa: “Non illudiamoci. Non esiste, dietro le solenni e solari membrature architettoniche del Soli, un’altrettanto solare comunità di intenti. Spesso lo scontro tra chi vi lavora dietro si fa rude. Neppure nel mondo degli artisti è rintracciabile quella serena luce da accademia neoplatonica accarezzata, forse, solo in qualche ottimistica visione simbolista. L’idillio non fa parte della mentalità artistica, che per sua natura “forgia” e per sua natura “costringe” (…)”. L’esporre insieme non può e non vuole essere un appianare e tantomeno un nascondere, ma un superare, un andare oltre nel nome dell’arte, della storia e della scuola. È una tentazione forte, anche se forse non del tutto legittima, quella di trovare il collante che cementa la conciliazione ritrovata e reinserisce la scuola come ente nel flusso della scuola come storia. Oserei parlare di provincia, intendendone il dato culturale come una legge di proporzionalità inversa che, all’allontanarsi da pretesi centri di irradiazione, da guggenheimità sempre più trite e sempre più strillate, trova nella distanza stessa la propria vera ragione d’essere, mai dimentica della dolorosa poesia del quotidiano, o dell’oggetto sì lontano, ma ripercorso con la sincera partecipazione del vissuto. Sono undici gli artisti che aderiscono a questa collettiva, ciascuno con una spiccata personalità e una radicata maturazione nell’ambito della propria ricerca. Qualcuno lo conosco bene, e da tempo ne seguo il lavoro. Per altri vederne l’opera è stata una splendida sorpresa. Racchiuderli in una formula non è facile e, se la mia impressione non troverà riscontri, chiedo anticipatamente scusa. Comincio da Pedrini, alla cui passione si deve la presente mostra (e che perciò ringrazio con tutto il cuore): è futurpop, parola che potrebbe sembrare un po’ ambiziosa se non fosse che gli oggetti che rivisita, forse i più odiosi, certo i più invadenti, tra quelli che ci circondano (ciminiere, auto, cellulari), acquistano tra le sue mani un’affettuosità irresistibile. Di Canova non sapevo nulla. I suoi dipinti non solo non hanno bisogno di commenti, ma, avendo nominato prima i maestri della grande stagione modenese delle nature morte, aggiungiamoci un Bertoli, uno Spattini, un Bassi, e la continuità di cui siamo alla ricerca è per lui, grazie a lui, garantita. Per Scappini coniai un titolo che ritengo ancora valido: “lo sfondo senza il protagonista”. Topos eminentemente metafisico, l’assenza dell’uomo tra architetture che lo presuppongono ma non lo ospitano materializza la domanda, conferisce forma fisica alla forma letteraria dell’enigma. E l’artista si guarda bene dal risolverlo. Altra splendida novità è per me Artioli. Neppure sapevo che dipingesse. Amante dei viaggi come lui non posso che ringraziarlo per come ha saputo suggerire un modo di rivivere i ricordi, di selezionare e ordinare, e sedimentare in qualcosa di essenziale, ciò che, lo so bene, rischia in continuazione di sfuggirci tra le dita. Carlomagno lo seguo da anni. Raffinato e sensibile poeta, il suo sguardo indaga la tensione tra ciò che è immensamente lontano e ciò che è immensamente vicino, e tutto sublima con i versi e coi colori. “c’è il ciottolo e la pianura, il pollice e l’orizzonte, la sinapsi e il sistema…” avevo detto una volta di lui, e l’avevo paragonato a certi struggentissimi romantici tedeschi. Pecorari fluttua ai confini della mistica. Vaso di elezione, direbbero i mistici di lui. La sua furia onnivora esita a essere compresa in poche immagini. Per lui tutto è da fissare. E per tutto si intende proprio tutto: ciò che si alterna nel tempo e ciò che si distende nello spazio. Le migliaia di immagini che ha scattato costituirebbero, messe in fila, un poema cosmico, un Mahabharata della modernità. Cinzia Ghioldi è la più difficile, forse perché è una donna, forse perché il suo soggetto è sempre una bambina (o due, come nel disegno presentato). Soggetto assoluto, protagonista irrelato, la bambina eterna che Cinzia descrive non si confronta col mondo: lo subisce. E l’attimo del subire non si fa storia, non si fa esperienza, rimane dolore puro che agghiaccia tutti noi. Pisco lo conoscevo solo dalle caricature, oltre che dalle appassionanti narrazioni sui retroscena della realtà. La sua pittura è rebus, il significato, riservato all’iniziato, è la fine di un percorso obbligatorio. l’immagine che presenta è zeppa di simboli sui quali non vedo l’ora di venire illuminato. La sua padronanza della tecnica xilografica è straordinaria. Di Coppelli avevo visto, di sfuggita, alcune immagini fumettistiche ma, soprattutto, conoscevo la sua instancabile voglia di giocare con la coscienza altrui, a scopi più o meno dichiaratamente terapeutici. Che l’arte possa essere una terapia è argomento ricco di fascino e contraddizioni, che ci trasporta in un labirinto simile a quello multiforme che l’artista taumaturgo ha voluto esibire in questa sede. Leone è un mago. Uno dei più autentici: quelli da strada. I suoi magici tocchi di acquerello tracciano figure che animano storie più vere di quelle vere: indiani, orsi, viaggiatori, e scorci di strada, alberi dietro i vetri, aule della scuola, studenti e colleghi di lavoro. Nulla sfugge all’amore che trasuda da quei segni. Nulla è indegno di essere narrato dalla sua magica lanterna. Ho tenuto per ultimo Caselli. Non lo conosco bene anche se bastano pochi segni per avvertire tutta l’energia della sua persona, la potenza e la determinazione del suo fare. Caselli è l’artefice, e quando parlavo della mentalità artistica, che per sua natura “forgia” e per sua natura “costringe”, forse pensavo a lui. A tutti loro va il mio grazie e, penso, non solo il mio.

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