lunedì 3 maggio 2010

IL CIRCO GRAFICO DI UN PRESTIGIATORE MOLTO SERIO


Domenico Pirondini

Le sue "storie" possono prendere forma sul "Bologna-Modena e ritorno". E’ possibile vederlo, carte e colori, pendolare della ferrovia, fissare il mondo dal finestrino o fissarti negli occhi, tu che gli stai seduto di fronte. Così comincia un fantastico racconto che forse avrà una fine o forse no, si disperderà in altre combinazioni, verso variabili improvvise e imprevedibili.
Un delta, tanti rivoli che portano, nel mare grande dell’essere, gli accumuli ondosi degli sguardi, degli incanti, dei pensieri, dei respiri. Quando il respiro è immaginazione, stupore, altro e altro ancora… E il racconto continua, perché l’artista, come nei versi di Baudelaire, sempre preferisce il viaggio all’arrivo.
Oppure l’incipit lo trova sotto un albero osservando un piccolo ramo quasi secco mosso dal vento. Ha sete, ma la pioggia tarda a venire. E così entrano in scena, sul palcoscenico antropomorfico del nostro narratore, un piccolo, grande e magico campionario di attori: nuvole, uccelli, nidi, fiori, polvere, streghe, maestre, scolari… Un tumulto di emozioni, passioni, brividi, scorre inarrestabile, un fiume in piena scorre nei filamentosi inchiostri dal segno semplice ma elegante, essenziale ma sapiente, xilografico ma elaborato.
Piccolo, grande mondo, quello del banco di scuola, dell’ingenua infanzia, del candido inseguire un sogno ad occhi aperti, d’un lieto fine obbligato. E’ dunque a partire da un particolare insignificante che il "cantastorie" apre le pagine del suo spartito che via via si disvela, dal minimo a comprendere tutto l’universo, un repertorio infinito.
"Signore e signori", declama l’artista-attore, cilindro e naso finto, giocoso e divertente, "seguitemi lungo le strade della vita, con curiosità, e io vi scopro, vi rivelo tutto ciò che fa parte di noi, vi sorprenderò. Questo è il mio modo di esprimere la realtà, dentro e fuori: non so ancora quello che vi dirò, ma aspetto, aspetto un suggerimento, da qualcuno, da me stesso, dalle mie percezioni… ascoltate, ascoltate, seguitemi!".
D’accordo. Per dirla con Dorfles, " non è dal macro ma dal micro che dobbiamo provare, dal nostro modo di porci rispetto alle cose: soltanto muovendo dal piccolo possiamo arrivare a trasformarle e a capirle".
Da un embrione, a quell’insieme di parole e forme che inventano una vicenda. Lo osservavo attentamente, mentre con fare sornione, ci ricostruiva il suo modo di operare. Lo spiegava quasi con circospezione, ma forse no, giorni addietro nella sua casa di Bologna a noi colleghi di scuola che gli chiedavamo di aprire gli armadi. Fogli e fogli gelosamente, segretamente, o forse no, nascosti, protetti, non so, ma impazienti di mettersi in fila, a muoversi. Cassetti straripanti, fogli vocianti che aspettano, la sensazione di un libro intonso che sta per schiudersi, ma non per la prima volta, era già accaduto da qualche parte. Me lo trovo davanti, lui, un po’ incredulo, divagante, diffidente o gigionesco o ipnotico, misterioso e intrigante, occhi che scrutano da lontano.
Silenzio, poi, a me sembrava appena un ruggito, una specie di zampata (tutto teatro, insomma), e la foresta si scuote. Attenti, il leone!
Questo io ho fiutato del leone, di Silvio Leone. Ma quale Leone: il disegnatore, l’illustratore, lo scrittore, il cantore, il pensatore, il creativo, l’insegnante dell’istituto d’arte. Oppure, invece, un solo Leone: lo spirito libero e anticonformista, che ci cattura e ci meraviglia con un occhio diverso sul sensibile, che attraverso le affascinanti e metafisiche affabulazioni ci spinge nella complessità del vivere, con intelligenza mobile, con garbata ironia interrogante, insieme ad un’apertura profonda, non ci sono dubbi, su cui è complice una imprescindibile, insostituibile musa: Bebette, la moglie, ovvero il teatro. Simbioticamente la coppia è collaudatissima, anni di esperienze performative: l’attrice e il pittore, la voce e le mani, il gesto e gli occhi, visibile e invisibile in un dialogo senza tempo che tutto abbraccia e avvolge.
Ma non è certo meno significativo il linguaggio iconico. Con quello verbale mi pare in perfetto equilibrio. Il rapporto impone precisi tempi di lettura, determina il ritmo del viaggio. Le inquadrature sono dinamiche senza perdere in descrizione, i campi sono usati per rappresentare il vicino e il lontano, dall’alto e dal basso.
La tecnica, o meglio, le tecniche, sono raffinate, colte, sempre sorprendenti e diverse per soluzioni strumentali, impaginative, cromatiche e segniche, per una lettura surreale ma reale allo stesso tempo. La vecchia, cara "lanterna magica", momento culminante del suo fare scena, aggiunge quel giro di sequenze lineari, a incastro e alternate che costituiscono la struttura fondamentale del montaggio "fumettistico", del suo codice comunicativo: vi è sempre un’altra verità, nascosta, furtiva, acquattata nelle pieghe delle apparenze.
Guardare tutti, guardare tutto, guardare oltre, guardare là, in fondo.
Silvio mi ha detto che c’era una volta che lui andava allo zoo di Napoli per svago e si fermava con simpatia davanti alla gabbia del leone. Mi è facile capire che dopo un po’ il LEONE sarebbe uscito, scappato.

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