martedì 26 gennaio 2010

LA MATERIA E LA LUCE


Brevi riflessioni sulla fotografia e sul misticismo grafico di Davide Pecorari

Di Franco Morselli

Innanzi tutto foto è luce, la parola più alta che sia stata pronunciata per indicare ciò che sta lassù, oltre il regno della sensibilità, in quello della immaginazione o, perlomeno, della speranza. Parlando di fotografia non dobbiamo mai dimenticare questo fatto. “Dio da Dio, luce da luce” osiamo dire dal concilio di Nicea in poi. “Luce” ricorre, con abbagliante ossessione, in tutta la terza cantica della Divina Commedia, impregnando di sé la qualità del Paradiso. Intesa in questo senso la luce è il fine ultimo, ed è a questo che, ovviamente, si dovrà fare ritorno.
Ma, in secondo luogo, la luce è mezzo. È il carro del sole, il più nobile dei carri, in grado di trasportare ai nostri occhi, attraverso l’immagine, l’essere delle cose. Sta qui, più che nella contrapposizione tra riproducibilità o non riproducibilità, la tanto discussa differenza tra pittura e foto. Nel suo iper citato saggio sull’argomento (sul quale l’ambiguo aggettivo possessivo sua getta fin dal titolo un sinistro pregiudizio) Benjamin fa comunque un’affermazione illuminante: “la mano si vide per la prima volta scaricata dalle più importanti incombenze artistiche”. L’occhio cioè, l’organo del senso teoretico per eccellenza, si svincola dalla mano, organo del senso pratico. È una operazione che nel linguaggio della mistica ha un modo di dire, preciso e poetico contemporaneamente: “farsi vaso”. Ed è in questo modo di intendere la luce come mezzo che sta la vera differenza tra pittura e fotografia: luce ricevuta questa, luce ricreata quella. L’una, attività attiva, l’altra, attività passiva, contraddizione ai confini della mistica. Ogni altro concetto, come quello della riproducibilità in sé o, all’opposto, dell’unicità e dell’aura, rischiano (lo sappiamo bene quasi un secolo dopo gli scritti del filosofo tedesco) di perdersi nelle paludi della valutazione di mercato e della moltiplicazione del valore. Di entrare nel campo, cioè, della convenzionalità del valore stesso (e quindi della precedenza, se proprio si deve parlare di opera d’arte riprodotta, tra l’invenzione di Nièpce e Daguerre e quella di Palmstruch duecento anni prima: la cartamoneta).
Escludendo, forse, certi surrogati di trofei per turisti tutto compreso, la fotografia, quella vera, è la totale dedizione del discepolo, la ricettività del bodhisattva per il quale ogni dettaglio può essere Prahna che lo informa.
L’opera di Davide Pecorari risponde in pieno a questo requisito. Anzi, nella scelta del soggetto, ne fa addirittura il suo programma, inserendosi perfettamente (cosa da non sottovalutarsi per la prima mostra che l’associazione Via delle Belle Arti dedica alla scrittura con la luce) nella densa simbologia che la Galleria delle Statue implica. Nelle mani di Davide l’occhio meccanico si apre sulla materia più immediata, quasi sulla prima tattilità che un io ancora immune da esperienze culturali può esperire: la roccia, l’acqua, l’aria e il fuoco. È, a un primo sguardo, il massimo della semplicità che si possa immaginare. Ma è anche segmentazione di una scala che trova nella sala che ospita la mostra una sorprendente corrispondenza.
Il primo verso di percorrenza della scala è la salita. Terra, acqua, aria, fuoco sono gli elementi dell’antica filosofia greca, quel dover essere “corporeo, visibile e tangibile” con cui il Demiurgo, nel Timeo di Platone, “ordinando insieme l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo realizzò l’universo” (“…in modo che l’opera da lui realizzata fosse la più bella e la migliore per natura”, aggiunge Platone poche righe dopo). In questa chiave di lettura, quasi come in un idealistico site specific, l’universo neoplatonico che la ricerca di Pecorari sembra fondare, dialoga strettamente con la simbologia del luogo. Anche la sala finisce in una scala, e la scala porta ad un gruppo marmoreo che del neoplatonismo, e della risalita attraverso gli elementi, ha fatto motivo di rappresentazione plastica. Si tratta de “l’angelo e l’anima”, dello scultore Alessandro Cavazza, uno dei gruppi più belli (e sottovalutati) dell’ottocento modenese. Il soggetto è l’anima, che si identifica col discepolo, col vaso. La salita parte dalla contingenza delle cose, che si avvita su se stessa invariabile nel suo eterno movimento. Attraverso l’universo, attraverso l’etere, l’anima, sorretta dall’angelo, si libra in alto verso il regno ultimo del Bene. Il fuoco, la Gotterfunken dell’inno alla gioia di Schiller, illumina con sicurezza l’ascesa della coppia. È quasi la traduzione letterale di un bellissimo passo di Plotino. “L’anima allora accoglie l’influsso di lassù, si agita come una baccante e, pervasa da acuti desideri si fa tutta amore.(…) quando su di lei scende il calore di lassù, essa riprende le sue forze e si ridesta e mette veramente le ali e, pur essendo stordita per la presenza dell’oggetto bramato, s’innalza verso qualcosa di più grande per opera della reminiscenza. E sino a quando ci sia un oggetto più alto di quello presente, essa si innalza, portata da Colui che le offerse l’amore”.
È un automatismo ormai quello che ci porta a ordinare qualsiasi serie in una scala che conduce verso l’alto. Così letta, la scala costituisce la morale. Ma nel rapporto forma-informato che scaturisce dalla registrazione visiva delle cose, per l’occhio meccanico che tutto riceve, la salita dovrebbe ridursi, tutt’al più, a un sottinteso. Il “farsi vaso”, ricettacolo delle sostanze che popolano l’universo, può ridursi a una dualità molto più semplicemente strutturata. È un attimo di equilibrio che forse la cultura orientale ha messo a fuoco più di quella occidentale. Visti in questo senso i composti, i miscugli di elementi che le fotografie ci documentano, appaiono ai nostri occhi come sordi, circoscritti nella loro autonomia, sospesi ognuno nella propria forma che è già punto d’arrivo ma non giudizio. È come se il protagonista della mostra, lo spettatore, facesse un passo indietro, come se l’unico comprendere fosse il non comprendere. Come se la scala fosse diventata orizzontale, esile passerella sul nulla, tra due nulla. Un bellissimo passo, nella “Vita di Milarepa”, descrive la constatazione, muta e attonita, ovvia ma sempre sorprendente, che forma e sostanza sono la stessa cosa: “Dal vaso rotto, i residui stratificati depositati dall’ortica uscirono in un solo blocco verde che aveva la forma del vaso”. Potremmo dire che non solo l’osservatore si è straniato, ma il vaso si è ritratto, e il bisenso insito nel verbo staglia per lo spettatore una potente immagine che è già fotografia in sé e senso della stessa.
Infine, dopo il percorso in salita dell’iniziazione, dopo l’istante di stasi, clou della formazione, la serie di fotografie degli elementi può anche essere letta alla rovescia. Giù, giù, dalle forme più complicate alle più semplici, fino a immedesimarsi con la roccia, a essere sasso. Dalla fiamma alla pietra, da una domanda in cui si riassume forse tutto ciò che siamo e percepiamo, alla risposta che non c’è risposta. È il cammino inverso attraverso gli stadi della creazione, la catabasi, o il descensus, di cui il Virgilio di Hermann Broch rappresenta l’esempio più angosciato.
Le fotografie degli elementi percorrono entrambi i versi, immobilizzando in impassibili registrazioni i singoli momenti del percorso. Ed è in queste silenziose macchie di colore che l’arte del fotografo rivela la sua vera sapienza, la sua disponibilità a fondersi, instancabile spettatore e ricettore, con la luce che da ogni gioco di superficie emana. Ogni foto della mostra presuppone una vocazione, una chiamata, e a ogni chiamata corrisponde una risposta pronta del vaso di elezione, del devoto, quasi del Fal Parsi, il puro folle, ma soprattutto il discepolo per eccellenza, a cui nel dramma wagneriano sul misticismo è destinata l’ultima e definitiva redenzione.
Ma è nella visione d’insieme, nel “montaggio” di parti che dialogano, che si contraddicono e si integrano, è in questo tutto che dobbiamo leggere la qualità ultima dell’evento. Esposta al rischio quasi di una indifferente ontogenesi palindroma, o, al contrario, di una distaccata percezione paratattica, la chiave di lettura della serie fotografica trova la sua vera ragione d’essere nel processo stesso della rilevazione della luce, del naturale tendere della fotocamera e di colui che se ne è fatto portatore verso la stessa scintilla che trascina gli angeli e le anime. Risolta in una naturale ma raffinatissima texture di colori, l’energia dell’acqua che vivifica le rocce, o quella del vento, dell’anemos, radice etimologica di quell’anima alla quale tutta la materia sembra, nella mostra come nel mito, tendere, o quella del fuoco, che tutto attrae a sé e tutto consuma perché tutto si rigeneri, è resa magistralmente da Davide Pecorari nella fisicità felice che la luce dona a chi la vuole cogliere. In ciò risiede il significato vero dell’evento, il lato edificante anche di colui che apparentemente si era limitato a “farsi vaso”.
Non esiste cioè, alla fine, un’arte che possa esimersi dall’attività stessa dell’artista, anche se, nella rapidissima e istintiva meccanicità del “clic”, l’amore panico e inconsapevole per ogni dettaglio del creato sembrerà il più delle volte avere il sopravvento.





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