domenica 29 marzo 2009

L'UOMO NUDO E L'UOMO INCAPPUCCIATO

Divagazioni demodé sui Seleniti di Andrea Tedeschi


di Franco Morselli

Con la terza mostra si chiude il ciclo di esposizioni che l’associazione Via delle Belle Arti ha organizzato per la stagione 2008 – 2009. E’ dedicata ad Andrea Tedeschi, il primo dei tre artisti a vincolare il proprio messaggio unicamente alla scultura. Per ogni artista il medium concreto non è mai casuale, e la scelta di Andrea impone una serie di riflessioni che tentino di afferrarne non solo il senso interno, ma il filo conduttore che ne lega gli esiti alle problematiche che Cinzia e Mattia avevano lasciate aperte. L’intervento di Andrea Tedeschi può essere letto come una risposta, la prima, ad una domanda che in Cinzia urgeva remota dalle profondità dell’inconscio e che in Mattia si era fatta strada attraverso la artisticamente collaudata forma dell’enigma: adempiendo semplicemente al proprio ruolo di scultore, l’artigiano Andrea ha fatto apparire l’uomo. Ma nel nome che, come ogni demiurgo che si rispetti, ha immediatamente imposto alla creatura da lui plasmata, la risposta sembra negare già se stessa e riaprire le porte al dubbio. Il Selenita comparso tra le statue classiche è degno di tale investitura?
In arte, e in ogni testo di presentazione all’arte, i riferimenti e le citazioni concorrono alla definizione delle idee con la chiarezza e l’esattezza di simboli universali. Anche per Andrea la citazione è pronta, e l’uso che fa del gesso in questa fase di ricerca ha un precedente ovvio: George Segal. In Segal la forma umana assume, del soggetto, posizione e ruolo solo in rapporto allo sterminato campo di oggetti con cui si relaziona. Ma, così come gli oggetti, fenomenologia contingente della più prolifica tra le epoche produttive, permangono immobili nella loro intercambiabile accidentalità senza alcuna aspirazione al ruolo di Oggetto in sé, così il gesso, che dell’uomo assume solo la forma e la postura, di questa relazione col nulla si accontenta e in essa si esaurisce. Svuotata di ogni assoluto la prima relazione sintattica che la logica elementare offre al fanciullo, George Segal ce ne pone davanti ciò che resta: il CaSO4 come semplice concrezione chimica di un uomo senza qualità.
Al posto del mondo fantasmagorico ma indifferenziato in cui si muoveva Segal, nella installazione di Tedeschi l’aspirante protagonista ha per sfondo un’intera galleria e come interlocutori le statue classiche, ovvero quanto di più lontano esista da quel mondo. La greve contingenza della contemporaneità, che nel preteso soggetto accomuna i due, schiacciata da Andrea sotto un cappuccio come sotto una maschera che ne protegga l’inconsistente personalità, incontra, invece del prodotto di consumo, la nudità olimpica di chi si è sempre spacciato come eterno. La dialettica che ne scaturisce è violenta, e la crudezza del contrasto è ben messa in risalto da Stefano Bulgarelli nel suo scritto. Tre giudizi esprimono con chirurgica precisione altrettanti gradi di percezione della mostra: il primo riguarda le figure esposte, presenti in maniera pietosamente fisica; il secondo circoscrive il senso stesso dell’evento: il caos contro l’ordine; l’ultimo fa propria una sensazione sgradevole alla quale è difficile sottrarsi: che di altro non si tratti, in fondo, che di una nebulosa studentesca, ben conosciuta da chi nella scuola vive e lavora, vuoto risultato del vuoto mondo che la esprime. Ma su un punto, a ben guardare, si potrebbe dissentire dall’opinione di Bulgarelli: quando sostiene che i Seleniti, a differenza delle statue classiche, non diventano modello per nessuno. Ed è su questo punto che vale la pena di soffermarsi per una riflessione. Anche i Seleniti forse, come gli dei beati, hanno una loro storia.
La storia dei Seleniti è la storia stessa del cappuccio e dell’uomo che lo indossa. Lo stridente attrito che prende vita nella Galleria delle Statue è la proiezione di un contrasto al quale le grandi ere dello spirito ci hanno lungamente preparato. Così come per la mostra di Cinzia Ghioldi a un certo punto sentimmo l’esigenza di alzare gli occhi dalle singole opere al locale che le ospitava, con la mostra di Andrea siamo giunti al momento di alzare ancora di più lo sguardo, e estenderlo alla città intera, e oltre. L’uomo nudo e l’uomo incappucciato si alternano e si scontrano nella storia. È lo scontro tra l’espressione rassegnata e sottomessa alle forze fisiche che la natura impone e l’emancipato disprezzo, l’aristocratica noncuranza, ad esse opposta da chi ha fatto del pensiero l’unica ragione d’essere. È un rapporto preciso tra due mondi, quello della classicità e quello del medioevo, riscontrabile in due opposte auree sul cui sfondo spiccano forti immagini plastiche quali, ad esempio, l’Apollo del Belvedere ed il Lamech di Modena. E l’enfasi che nel confronto tra le rispettive anatomie acquistano i due colli ci riporta alle fredde funzioni che, differenziate ma non scisse nel Timeo di Platone, regnano nel corpo dell’individuo così come in quello della società. È il mondo delle forze subite e quello delle forze imposte. È il mondo dei cittadini e quello degli iloti che, ostentatamente ignorati in quella che fu la culla di ogni poesia, avrebbero dovuto attendere sottomessi i rassegnati telamoni romanici che li cantassero, quasi come se il duomo stesso, coi suoi refrattari spessori da saio pietrificato, potesse essere letto come l’antitesi dell’aerea, solare, elastica nudità del Partenone. È il mondo, demodé in questi tempi di un po’ clownesca euforia sociale, della divisione del lavoro e della sua storia, sempre sottintesa o sottaciuta, sempre "incappucciata".
Anche il Selenita è eterno, e a ritroso possiamo ricostruire la sua storia. È la storia del lavoro pronto all’uso, dell’identificazione dell’uomo con la massa, del serbatoio sempre pieno della schiavitù da cui attingere. È la storia di una figura sociale il cui ultimo erede, oggi, accetta di scambiare la propria autonomia con un uniforme ritmo martellante, e la propria libertà con una regolare sincope, quasi uno spasmo, con cui un piede, una mano, la testa, accompagnano l’attesa di una sempre delusa possibilità, la ressa per un forzato evento, o un imbrancamento qualsiasi, magari nell’attesa di una retribuzione davanti alla vetrina del lavoro interinale. Solo in questo nulla, forse, il selenita attuale può vantare una unicità rispetto ai suoi predecessori, nell’illusione che scambia la schiavitù per libertà, nel fremere continuo e senza scopo, nel dimenarsi insensato e uniforme dell’esca viva nel sacchetto, come se il puro moto fosse la vita stessa, e quel fremere fosse sufficiente a circoscriverne l’individualità e la preservasse dalla presa fatale di indifferenti dita.
All’interno della elementare analisi logica insita nella bipolarità uomo-oggetto di Segal qualcosa, in Tedeschi, si è fatta strada. Il secondo termine, il complemento, in questo caso la pretesa dell’immobilità accademica, getta, come avveniva per le precedenti mostre, una nuova luce sul primo termine, e lo legittima. Non più contingenza di un prodotto accidentale nel quale solo il nulla si rispecchia, le potenze spirituali immobili solo perché eterne scoprono, e ci mostrano, il contenuto di immobilità, e di eternità, anche in quello che fino ad ora altro non era sembrato che un semplice fantoccio. Il lavoratore sotterraneo, l’artefice inconsapevole ma buono a tutto, il disprezzabile e ignobile nibelungo, scopre la sua complementarietà coi luminosi Asen. Non è ancora la dialettica hegeliana padrone-servo, non è ancora il movimento con il quale il secondo si sostituisce al primo, ma è il riconoscimento, al contrario, di una immobilità comune, proiezione di una duplice eternità che nella tipizzazione della statua si riconosce reciprocamente. Accanto al sostanziale, alle potenze palesi di ciò che volentieri viene scambiato per accademia incancrenita, gesso accanto a gesso, soggetto accanto a soggetto, di fronte al Selenita si delinea il vero oggetto, l’altro, la potenza occulta che lo alleva e che lo schiaccerà tra le sue impietose dita. Riconoscere la storia, e trarne luce, è riconoscere la propria identità, la propria coscienza, la propria appartenenza ad un organismo sociale che, con un termine ormai inusuale, potremmo definire "classe".
Il Selenita che corre sullo schermo non contraddice ancora la lezione dell’eleatico maestro. Ma un nuovo calco, recalcitrante e ottuso, popola, dopo tempi immemori, la Galleria delle Statue. Ancora una volta, come nella minacciosa profezia di Zola, eredi forse di antenati che deformi, affaticati e incerti cercavano la via della salvezza tra i labirintici racemi di una cattedrale romanica, "spuntavano degli uomini, un esercito nero, vendicatore, che germogliava lentamente tra le zolle, crescendo per il raccolto del secolo futuro, e la cui germinazione avrebbe fatto presto scoppiare la terra".

























Nessun commento: