martedì 10 giugno 2025

LA PRIMAVERA DI BOTTICELLI



Una ipotesi di lettura della Primavera di Botticelli

Di Franco Morselli



Il mio piccolo teatro,” disse Agliè, "alla maniera di quelle fantasie rinascimentali dove si disponevano delle enciclopedie visive, sillogi dell’universo. Più che un’abitazione, una macchina per ricordare.”


Umberto Eco, Il pendolo di Foucault




PREMESSA



Sarebbe incredibile che durante l’intero ‘400 non si sia mai tentato di rappresentare la sua più rivoluzionaria scoperta, la onnispiegante filosofia platonica, mediante una immagine. Una costruzione visiva che, per quanto complessa, ne fornisse immediatamente tanto la semplice chiave di lettura, quanto l’intera descrizione, nei suoi molteplici sviluppi e relative conseguenze nel tempo e nello spazio. Un’ immagine, cioè, pensata per renderne comprensibile il sistema ad un pubblico di aspiranti iniziati, o di iniziati non già pienamente immersi nella vastità e novità del portato filosofico. Condizione, quest’ultima, nella quale era sicuramente venuto a trovarsi Ficino stesso all’inizio della sua straordinaria avventura.

Sarebbe incredibile che la rivoluzione culturale che ha portato l’Europa fuori dalla Scolastica e dal Medioevo, che ha fatto del legame pensiero-immagine la cifra più qualificante del proprio esistere, con la conseguente esplosione della massima produzione artistica di tutti i tempi, avesse rinunciato a esplicare in una unica visione compendiaria tutta la vastità e la dinamica del suo pensiero costituente.

È, in sintesi, possibile credere che a Firenze, in quegli anni cruciali in cui un gruppo di intellettuali illuminati scopriva un nuovo universo dove alloggiare anima e materia, e Dio, è possibile credere che in quell’unico punto della storia non si sia voluta produrre un’opera che tutto significasse con il più compiuto e splendido dei geroglifici?

E ancora più incredibile suonerebbe se, esistendo questa magnifica opera, avendola continuamente sotto gli occhi, nessuno se ne fosse accorto.

Posto il problema in questi termini, date le coordinate spaziali e temporali del punto ove cercare la cosa presupposta, e ancor meglio, date le specifiche grafiche, coloristiche e verbali della stessa, forse non qualsiasi bambino, ma ogni attento studente di scuola media sarebbe in grado di pronunciare di slancio un preciso nome, un oggetto che eserciti di cólti esegeti studiano da anni da altre prospettive. Poi, se il nome pronunciato non suonasse così fuori luogo, il successivo problema consisterebbe nel verificare la corrispondenza tra l’immane contenuto (una nuova, totale ontologia), e l'adeguatezza della forma che lo esprime.


Il primo elemento da tener presente quando ci si ponga davanti ad una immagine rinascimentale è che detta immagine, a differenza delle sue analoghe medioevali, non descrive, ma “suscita”. È una premessa fondamentale per ogni lettura critica: nel Rinascimento e, prima di esso, nell’Umanesimo, il rapporto tra la materia della produzione artistica e l’osservatore è magico. Al di fuori di questa connessione misterica, al di fuori di questo intimo legame rituale, il mondo che l’immagine è chiamata ad assorbire e rispecchiare rimane muto e invisibile.

Nell’“interpretazione neoplatonica o mistica del simbolismo” dice Gombrich in “Immagini simboliche”, “il significato di un segno non è qualcosa che deriva da una convenzione, è invece insito nel segno stesso per chi sa cercarlo. Secondo questa concezione, che in ultima analisi deriva più dalla religione che dalla comunicazione umana, il simbolo è visto come il linguaggio misterioso del divino”.1

Eppure sull’equivoco di considerare l’opera più una semplice illustrazione che non una compiuta creazione intellettuale, si sono fondate le più importanti esegesi della Primavera che a partire da Warburg si sono succedute fino ai nostri giorni. Lo stesso Gombrich non ne è esente. Non si è cercato, nel giardino che è stato detto di Venere,2 il meccanismo capace di suscitare il cosmo in chi lo sa guardare, come nello spettatore non si è cercato il soggetto capace di accendere di rimando il cosmo nella sostanza in esso accumulata. E il quadro, che avrebbe dovuto essere filosofico, è stato ridotto, nella quasi totalità dei casi, a un didascalico elenco di graziosi personaggi impegnati in funzioni di edulcorata incisività.

È sufficiente un veloce sguardo panoramico su questa galleria di interpretazioni per percepirne la carenza di sensibilità verso quelli che dovrebbero essere gli elementi più peculiari dell'opera d’arte. La geometria, ad esempio, che informa il quadro e ne fa da base.

Un dipinto, un mosaico, un disegno, anche il più primitivo e bizantineggiante, è sempre il risultato della necessità di rappresentare bidimensionalmente una o più scene che nello spazio occupano tre dimensioni. Per questo il Rinascimento ha addirittura inventato una scienza, la prospettiva che, evoluta nella illuministica geometria descrittiva, costituisce ancora oggi un paradigma rappresentativo progettuale imprescindibile. I risultati raggiunti a Firenze nel momento in cui opera Botticelli costituiscono alcuni tra i più alti risultati sulla concezione e l’esplicazione dello spazio da parte dell’umanità: è un errore grossolano e anti storico vedere nella Primavera un corteo di figure allineate su una quinta priva di profondità. La Primavera, innanzi tutto, non è una parata di maschere più o meno simpatiche e convincenti, ma un complesso organismo la cui comprensione deve iniziare dall’architettura che gli è propria.


È un dono raro possedere conoscenze, e sensibilità, adeguate a campi così diversi dello spirito come richiederebbe lo studio dell’iconologia. Ed è ancora più difficile riuscire ad entrare con le nude armi dell’erudizione filologica in una sintonia partecipe e appassionata con il complesso, contraddittorio e rivoluzionario mondo del Rinascimento europeo, italiano, e fiorentino in particolare. Il gioco “a chi ha letto di più”, gara tipica e funzionale a tanto accademismo arrivista, è sempre in agguato. Ma lo spulcio, obbligatorio in questo caso, tra i pregi e i difetti di Aby Warburg e dei suoi eredi, approdato al segreto di Pulcinella che il testo-quadratura, il testo sul quale la figurazione calza come un abito ben confezionato, non si è ancora delineato all’orizzonte, si arena inesorabilmente sulle secche di un “non detto”. Gli stessi modi di fare storia si auto decantano necessariamente in una storicizzazione che poi, alla fine, è la vera storia. Più in particolare, data l’immensa bibliografia in cui si esplica la scuola che da Warburg prende origine, il primo passo è riconoscerla per ciò effettivamente “è”: letteratura tra letteratura, sfoggio di erudizione più o meno appassionata, ulteriore tappa nella corsa umana a comprendere ciò che dalle maglie delle precedenti comprensioni era riuscito a sgusciare. Già, quindi, niente più che dato accanto a dato, scritto accanto a scritto, prodotto accanto a prodotto.

La filosofia e l’arte, viste nella loro globalità, nelle rispettive storie, appaiono come campi ermeneutici il cui incontro non può che avvenire in un terzo campo, ermeneutico anch’esso. Forzarne la reciproca esegesi, di ciascuno con i mezzi dell’altro, presuppone un meccanicismo positivistico che dell’ermeneutica ne è l’opposto. Non solo esiste un lato “crociano” dell’arte, tanto preponderante e affascinante, quanto difficile da afferrare. Ma nel giudizio stesso “della” filosofia, “sulla” filosofia, una componente tutt'altro che secondaria è genuinamente estetica, assimilante l’oggetto filosofico ad un’opera d’arte per coerenza, proporzioni, prominenza e, ovviamente, capacità espressive.

Ovvio che ogni pretesa di superiorità teoretica di un campo rispetto all’altro sia infondata. Ovvio che ogni tentativo di risolvere l’enigma ben posto, così come ce l’hanno presentato quei “perdigiorno”3 dei fiorentini, non possa essere che un lavoro in fieri, un incessante aggiornamento. La bellezza universalmente riconosciuta della indecifrata Primavera del Botticelli è lì a dimostrarlo.




WARBURG e CASSIRER



Quanto la Storia dell’Arte debba ad Aby Warburg è indiscusso. Un peccato originale, dal quale i suoi numerosi seguaci non sono mai riusciti a prendere le distanze, è però da ascrivergli. Dopo le successive revisioni critiche, dopo i successivi smontaggi e rimontaggi del suo articolato e suggestivo paesaggio culturale, al posto della nervosa sensibilità che ne ha guidato gli studi, il suo lascito agli epigoni sembra decantarsi in una tela di riferimenti letterari e grafici, tessuta con insaziabile voracità, sulla quale forme e personaggi via via presi in considerazione dovrebbero aderire fedelmente come su un substrato fisico.

La sua lezione, al netto della sua passione, tende all’accumulo di un immenso archivio di testi ai quali l’opera d’arte possa riferirsi come più o meno perspicua mera illustrazione. Archivio destinato ad ampliarsi illimitatamente nonostante le dimensioni ipertrofiche già raggiunte, ma, alla fine, nulla più che un maneggevole serbatoio per rassicuranti, infinite teorie intercambiabili.

Oltre la densa cortina delle citazioni, oltre la loro preziosa atmosfera, gli stampi letterari sui quali il dipinto botticelliano viene calato ad informarsi individuano, all’inizio dei suoi studi, solo una galleria di attori chiamati ad una interpretazione. Una realtà più alta, il ruolo, rimane celata, quasi insospettata. Le Grazie o la Ninfa inseguita su cui si sofferma l’attenzione di Warburg stanno alla scena rappresentata come i nomi degli attori sul cartellone del teatro stanno alla parte, immutabile e già data da uno sconosciuto autore. La Ninfa, e gli altri, non sono che sostituibili incarnazioni, apparizioni contingenti di protagonisti ignoti.

Ne è, in fondo, cosciente lo stesso Warburg. Nel catalogo quasi completo dei possibili inseguimenti (Zefiro-Clori; Apollo-Dafne; Aristeo-Euridice; Africo-Mensola; Ombrone-Ambra; Cefalo-Procri)4 è implicito il riconoscimento che di questa “rapibilità” botticelliana non se ne conosca la spiegazione ultima, l’aggancio ipostatico ad una metafisica ordinata.

Nella conferenza tenuta il 25 aprile 1925 in memoria dell’amico Franz Boll, conosciuta con il significativo titolo “Per monstra ad sphaeram” è lui stesso a lasciarsi sfuggire una osservazione che rimette in discussione tutto l’apparato di riferimento all’interno del quale in gioventù aveva incorniciato Botticelli.

Tirando le somme di un ragionamento seguito fino a quel momento, l’emancipazione attraverso la religione delle più cruente pratiche dell’umanità primitiva, parlando della saga di Perseo, dice: “(...)in esso sono quasi completamente contenuti proprio quei terrificanti elementi primordiali, che sono alla base di tutte le religioni: l’esigenza di superare il sacrificio umano per placare l’ira di un demone. La spiritualizzazione di questa sanguinosa magia barbarica è infatti la meta intima di ogni religione superiore. Negli affreschi non dipinti da Cossa (sta parlando degli affreschi di palazzo Schifanoia a Ferrara) emerge in tutta la sua asprezza l’idea del sacrificio umano nella rappresentazione delle saghe degli Dei. Negli affreschi di luglio, che reggono Giove e Cibele, è ad esempio rappresentata in tutta la sua brutalità la morte del loro figlio Attis. (...) Nell’affresco di Agosto, dove regge Cerere, è rappresentato il ratto di Proserpina da parte di Plutone. Dunque ancora un sacrificio di infanti, se pure con la consolante prospettiva di un ritorno dal regno dei morti. Un motivo che sta propriamente anche al fondo della Primavera di Botticelli”.5

L’osservazione finale rimane sospesa, come in attesa di una rivelazione che né Warburg, morto pochi anni dopo la conferenza, né, soprattutto, i suoi seguaci, hanno avuto la volontà di portare avanti. Rivelazione che rimanda ad un ordine di idee nel quale lo studioso amburghese si era già immerso tanti anni prima, in un campo che a prima vista poco aveva da spartire con la pittura di Botticelli. Che in quest’ultimo ci fosse qualcosa di più che una ricostruzione ambientale capace di far andare in sollucchero esangui esteti ottocenteschi, Warburg l’aveva implicitamente accettato nel saggio dedicato agli intermezzi teatrali che nel 1589 accompagnarono il matrimonio di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Già nel 1895 quindi, data di pubblicazione dello scritto, gli era apparso chiaro che l’umanesimo fiorentino aveva avuto ambizioni ben più vaste che una riforma generale dell’estetica e dell’arte.

Giovanni de’ Bardi” sostiene Warburg, “con tatto ammirabile aveva cercato di incarnare una delle più profonde allegorie di Platone. (...) Secondo questa la musica armonica delle sfere ha origine nel modo seguente: fra le ginocchia della Necessità scende il fuso diamantino, che riunisce come asse i due poli dell’universo.”6 Poi, dopo aver espresso la sua perplessità sull’efficacia di quanto lui stesso non esita comunque a definire “simbolismo geroglifico”7,così conclude: “Bardi (...) affidò loro (agli intermezzi) l’incarnazione delle profonde idee filosofiche e delle favole de’ poeti dell’antichità sul potere della musica, dal cui studio la camerata aspettava appunto la rinascita del melodramma”.8

A contatto con la forma proto-operistica dell’intermezzo, c’è un importante dato che non sfugge a Warburg: il desiderio ultra-platonico, di cui il Rinascimento è intriso, di racchiudere in un completo sistema sensoriale, in un esaustivo e complesso geroglifico, una completa visione metafisica. Di organizzare cioè una realtà misterica che attraverso la propria immagine si autoproietti al devoto, all’istruito, all’iniziato, con la stessa forza evocativa, quasi in concorrenza, del rito dell’Eucaristia. Di incarnare appunto, qualunque significato si voglia ad esse dare, “le più profonde idee filosofiche”. Ma è proprio nella nozione alquanto generica di “profonde idee filosofiche" che si riscontra la principale problematica dell’intera scuola iconologica, problematica dalla quale non ci si è ancora del tutto liberati.

La considerazione introduttiva di Ernst Cassirer, amico e collaboratore di Warburg, al suo studio sul Rinascimento, centra in pieno la questione e ne traccia il paradigma definitivo: “Per la filosofia del primo Rinascimento non sembra verificarsi il presupposto di Hegel, secondo cui la filosofia di un’epoca racchiude in sé la coscienza e il carattere spirituale della sua intera situazione storica, per cui questa multiforme totalità si rispecchia in essa nel suo vero e proprio punto focale, nel concetto consapevole di sé.”9

Se nell’arco di tempo compreso tra Nicola Cusano e Giordano Bruno, periodo in cui Cassirer comprende il Rinascimento, al ruolo dell’Accademia fiorentina il filosofo attribuisce senza mezzi termini l’invenzione del Bello10, sembra che lo faccia soltanto per riservare un contentino a filosofi poco all’altezza del rispettivo compito. Tra un sistema filosofico strutturato, quello di Cusano in primis, o come si era visto nella scolastica e in futuro si vedrà nell’idealismo tedesco, e un tripudio di emozioni per occhi e sensi come per la prima volta si è teorizzato e realizzato nell'Umanesimo, restano pochi dubbi sulle intime preferenze dello studioso. Che, deprezzato ogni italo-centrismo, nonché ogni primato fiorentino, non avrà difficoltà a concedere al suo allora ancora compatriota Cusano, se non l’invenzione, la costruzione di una compiuta architettura filosofica per il Rinascimento.




EDGAR WIND

o il “rigoroso supercilio di certi farisei”11



La scelta di Cassirer potrebbe rimanere il peccato veniale di un filosofo comunque grande. Ma il pregiudizio implicito in quello che è di fatto un atto di accusa contro l’Accademia fiorentina ha portato con sé effetti collaterali, e relative vittime, ancora in attesa di una definitiva riabilitazione nelle sfere del Pensiero che si auto elegge tale. Lo si avverte chiaramente già in Warburg, i cui riferimenti letterari – Poliziano e Ovidio sopra a tutti – evitano accuratamente la filosofia teoretica del periodo.

Lo si avverte in modo sconcertante in Edgar Wind. “Misteri pagani nel Rinascimento”, la sua opera maggiore, attende ancora la revisione critica che la riporti al ruolo che le spetta. Uscita nella prima versione nel 1958, quando lo strappo con gli ex colleghi dell’Istituto si era da tempo consumato, sembra trasmettere nel tono generale del linguaggio un livore personale che si estende inevitabilmente all’argomento trattato. La continua ostentata presa di distanza dalle passioni peculiari del Rinascimento, l’ossessiva ricerca di giudizi sferzanti e ironici, come a volersi giustificare e difendere presso un pubblico di scettici e di empiristi, suona come una reiterata messa in guardia contro ogni sospetto coinvolgimento empatico, del lettore innanzitutto, ma anche di se stesso. È davvero un mistero come nessuno abbia mai rilevato l’incapacità del libro di spingere il lettore a oltrepassare quella soglia che l’autore stesso aveva altrove definito, parodiando Platone, “l’atrio dell’Arte”12. Necessità che, è inutile dirlo, dovrebbe essere la prima, intrinseca e sottintesa per chiunque, quando si parli d’Arte. È un mistero che si scelga di dedicare la propria vita ad un movimento culturale che fonda la sua ragione d’essere sull’eredità di “solenni perdigiorno13, come preventivamente Wind non aveva esitato a bollare i filosofi della tarda antichità. Con tutto lo strascico di giudizi ingiuriosi che la locuzione sarcastica si porta dietro: “falsa” (l’interpretazione storica), “bizzarre” (le metafore), “nefaste” (le dottrine), “tradimento” (della filosofia platonica). E poco oltre: “teoria di notevole tortuosità”, “pericolosa alchimia della mente”, “stravaganze dei neoplatonici”14. Nelle parole dell’introduzione: “Spero quindi che non mi si fraintenda, pensando che io consideri con particolare favore la dottrina dei misteri che mi accingo a esporre”15, l’identità di chi dovrebbe fraintendere uno studio sulle filosofie e sulle religioni del passato, e perché, rimane il vero mistero.

Ma il mistero più impenetrabile è da cercarsi, ancor più che nel tono, nella sostanza del libro. La conclusione che Ficino e Pico non avrebbero capito la triade platonica16 è paradossale. La stessa accusa rivolta al suo acerrimo rivale Gombrich,17 giusta o sbagliata che sia, è sconsolatamente patetica. La realtà è che Wind stesso si è scontrato con grosse difficoltà ad entrare in sintonia col concetto di triade. Un'attenta lettura delle due grandi Teologie Platoniche, quella di Proclo e quella di Ficino, avrebbe sgombrato il campo dai balbettii incomprensibili che costellano le sue argomentazioni.

Tutti i Platonici”, scrive Ficino, “con i quali concorda Dionigi l’Areopagita, sono del parere che l’ufficio naturale delle menti divine sia permanere (maneant) nella propria natura, procedere (procedant) provvedendo ed agendo, ritornare (convertant) in se stesse riconoscendo se stesse e la propria origine (...)18

Scriveva Proclo, un migliaio di anni prima:

“(...) in ciascun ordinamento vi sono questi tre principi causali, quello della manenza (μονἡ), quello della processione (προόδου), quello della conversione (ἐπιστροφή).”19.


Incontrando, per la prima volta nel presente scritto, queste tre fondamentali espressioni di Proclo, che Ficino ricalca con la convinzione del discepolo devoto, non si può fare a meno di individuare uno degli elementi più svianti nelle letture iconologiche del Rinascimento. La mentalità di Edgar Wind, ma in linea di massima di tutta la scuola che gravita intorno al Warburg Institute, di formazione prettamente filosofica, e solo esternamente pittorica, tende a sottovalutare, o addirittura a non vedere, quelle che sono le modalità rappresentative quasi stratificate nel “dna” di un artista. La stessa triade che per un letterato si esprime in una successione verbale, viene rappresentata graficamente, e artisticamente, con il primo elemento in posizione centrale. Da esso si dipartono a destra e a sinistra le due successive voci secondo regole di cui si parlerà altrove. Nessuno dubiterebbe di questa modalità in presenza di una “SS. Trinità”, o di una “Madonna e Santi”. Per le “Grazie”20 o per le “medaglie”, di Pico21 o di Giovanna degli Albizzi22, è interessante notare come ogni “curiosa discrepanza tra interpretazione verbale e fatto visivo”23 che aveva tanto spaventato Wind si dissolverebbe come in un sogno. Per quanto riguarda la Primavera, che lo studioso interpreta nel più ortodosso dei solchi warburghiani, le frecciate polemiche verso Gombrich, di cui si è già detto, non mascherano la fragilità dell’interpretazione complessiva che si appoggia sulla stessa visione distorta delle triadi: la successione discorsiva degli elementi, una “parata” che nulla ha a che fare con la pittura in questione e con la pittura quattrocentesca in genere.

Una chiara visione della triade procliana è necessaria per la comprensione dell’intero Umanesimo così come si è sviluppato a seguito degli studi di Ficino. Innanzitutto la triade è composta, ovviamente, di tre parti intimamente connesse. Secondo, la triade procliana non può essere astratta dalla catena esplicativa del reale di cui fa parte. Isolandone una all’interno dello schema organizzato dal filosofo greco, ne appare irrimediabilmente l’indissolubile connessione con l’elemento precedente da cui è stata generata. La “manenza”, cioè, altro non è che quell’elemento primigenio sdoppiato, o riflesso, ri-manente uno nel suo essere altro. È una scissione che il sistema grafico descrive con una chiarezza impossibile a parole. La triade isolata rimanda per forza di cose al quarto elemento, che in realtà è il primo, invisibile e sottinteso, dal quale i “tre principi causali” si dipartono non scorrendo, ma esplodendo come la natura delle emanazioni richiede. È da questa dinamica allargante che ha origine l’equivoco di Wind, che accusa gli umanisti fiorentini di una “tendenza centrifuga”24, come in effetti deve essere a partire da quell’elemento sottinteso. Pico, istruito sui testi di Ficino, non avrà nessuna difficoltà a percepire la triade nella sua pittorica semplicità: attraverso le tre Grazie, sostiene in sintesi, è una quarta fanciulla che ci appare: Venere, l'unità. Lo sapeva bene Wind stesso, che estrapola dalla “Conclusiones de modo intelligendi hymnos Orphei n.8” di Pico le parole esatte. Ma, come si è visto, non farà tesoro del prezioso suggerimento, che, anzi, bollerà dispregiativamente come “enigmatico”25. Quasi che l’ultimo sferzante giudizio affibbiato con la solita disinvoltura ormai alla fine del libro a uno studioso come François Masai: “Certi storici senza orecchio per il linguaggio”26, gli si rivoltasse beffardamente contro.




CREDIBILITÀ DI UN CREDO



La realtà è che qualsiasi ragionamento sulla Primavera di Botticelli affonda in una contraddizione che trascende di gran lunga la pacifica, illustrante adesione a invenzioni letterarie antiche o contemporanee all’interno della quale tutti gli esegeti hanno voluto ridurla. La ricerca della più o meno indovinata ekphrasis, più che affrontarlo una volta per tutte, sembra alla fine un modo per evitare il problema dilatandolo a dismisura. Se c’è un risultato al quale le infinite letture-fotocopia, sinistrorse o destrorse, sono pervenute all’unanimità, è stato quello di contenerne la vocazione espansiva capace di debordare in campi che i più vorrebbero tranquilli e inviolabili, e di esorcizzarne, con la loro narratività ancora medioevale, gli esiti più sgradevoli.

Ed è forse in questa sottile, garbata e tenace resistenza che si trova il primo modo in cui il quadro si fa specchio dell'intera epoca che lo ha prodotto, e di un pensiero destinato ad affascinare e repellere austeri intellettuali più a loro agio tra i goticismi delle nordiche biblioteche che tra le macchie di riarsa vegetazione e le pietre abbaglianti su cui ancora si consumava, ai loro tempi, la immemore sensualità mediterranea.


Non è stato, ovviamente, Platone, a essere preso di mira. Lo tsunami che avrebbe travolto l’Europa a partire dalla metà del XV secolo (da un po’ prima, a dire il vero), neanche il più ottuso integralista avrebbe il coraggio di ignorarlo.

Ma sul riconoscimento ad una filosofia sbocciata e sviluppata con l’amorosa dedizione di un prezioso fiore tra le mani di un sapiente orticultore, sul suo sentore da giardino ben curato, sul ritmo gioioso delle danze carnascialesche da cui è stata accompagnata, e sulle sue libertà interpretative non ortodosse, si è volentieri scatenato il “rigoroso supercilio di certi farisei”27. Contro il quale poco o nulla hanno potuto autorevoli eccezioni, non eccentrici occultisti ma studiosi al di sopra di ogni sospetto.

Non è stato sufficiente l’assoluto prestigio di Erwin Panofsky, interprete tra i più metodologicamente preparati della scuola iconologica, a fare chiarezza sulle perplessità cassireriane. Il suo giudizio su Ficino e dintorni è espresso con chiarezza nel 1939: “Originariamente, tuttavia, e in forma non annacquata, (la teoria «platonica» dell’amore) era stata parte di un sistema filosofico che va annoverato tra le più ardite strutture intellettuali mai elevate dalla mente umana. Tale sistema aveva avuto origine nell’ «Accademia Platonica» fiorentina (...)28.

Eugenio Garin è stato probabilmente il più completo conoscitore dell’aspetto letterario del Rinascimento in tutto il XX secolo. La sua concezione della Filosofia cozza violentemente contro quella di Cassirer, con il quale polemizza direttamente. Le parole rivolte al tedesco nella sua introduzione a “La civiltà del Rinascimento” di Jacob Burckhardt non lasciano spazio ad equivoci: “Sull’inesatta prospettiva del Cassirer e sulle difficoltà che ha suscitato, ci sarebbe da discutere a lungo. (...) Purtroppo un’immagine estremamente convenzionale della filosofia costituisce ancora un grave ostacolo per molti storici”.29

Nel saggio “L’umanesimo italiano”, uscito per la prima volta in Germania nel 1947, è con un altro filosofo tedesco che si scontra, come afferma nella prefazione all’edizione del 1994: nell’umanesimo “era nato un altro modo di fare filosofia. Che non era certo quello di Heidegger (...)”.30

I due grandi filosofi tedeschi, nemici in tutto fuor che nella venerazione per la filosofia monumentale, vengono accomunati dal concittadino del Rinascimento nella stessa prospettiva: “Perché ciò di cui si lamenta da tante parti la perdita è proprio quello che gli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione delle grandi «cattedrali di idee», delle grandi sistemazioni logico-teologiche (...)31. Il perimetro del “da tante parti” circoscrive uno scenario che dalla penisola italiana dovrebbe essere chiarissimo, e di cui Garin, smarcato da ogni mainstream anche per un tragico contropiede della storia, si fa isolato portavoce.

Ma è in una riflessione tratta dal saggio “Il filosofo e il mago” che il suo giudizio definitivo oltrepassa la mera legittimità filosofica e, estendendosi ad altro e più vasto ambito, si determina con completa esattezza. “Affrontare, come certuni fanno, il tema della filosofia del Rinascimento con categorie inadeguate e distinzioni non funzionali significa precludersi la possibilità di intendere forse proprio quello che c’è di più geniale e originale in pensatori come Marsilio Ficino o Giordano Bruno, a cominciare dalla teoria dell’immaginazione”.32

L’uso della parola “immaginazione”, alla quale viene conferito il più originario rilievo semantico, quello che poi in fondo non è che il vero significato letterale, descrive “in un lampo”33 l’originalità e la bellezza di quel flusso di pensiero che, come lui stesso afferma, va da Ficino a Bruno. Parole confermate, anzi, scolpite, nell’incisivo esordio con cui Michele Ciliberto, fedele discepolo di Garin stesso, diversi anni dopo, introdurrà agli scritti di arte mnemotecnica del filosofo campano: “Pensare per immagini”34, vero e proprio motto per spirito, nello spirito, della materia di cui andrà a parlare.


Il partecipare di André Chastel al lato delle “tante parti” e dei “certuni” si rivela in sottigliezze del linguaggio che rifuggono le grossolane esternazioni puritaneggianti di Edgar Wind. Eppure il tono adottato nell'introduzione al volume “Arte e umanesimo a Firenze” non suona completamente gradevole. Una preoccupazione “ridimensionante” vi aleggia sopra con insistenza, come se il cedere al fascino del ‘400 fiorentino, con la sua accademica fioritura, portasse con sé una forma di peccato, e di vergogna. È il tono di chi mette le mani avanti, di chi non vuole farsi sorprendere in un atteggiamento troppo intimo con il discutibile e l’equivoco.

Anche in “Marsilio Ficino e l’arte”, il linguaggio, pur nella sua appassionata esattezza, non si scolla da un fondo di appiccicosa autodifesa.

Ne risulta, sul piano propriamente filosofico” dice Chastel, “l’impressione che l’umanista eluda facilmente le difficoltà, e non affronti le dimostrazioni necessarie: gli storici non lo nascondono. Ma è anche vero, forse, che Ficino effettua uno di quegli spostamenti dell’orizzonte spirituale che fondano l’interesse di una filosofia”35.

Parafrasando Chastel stesso, il suo problema “è tutto qui”36: dando per scontata l’insufficienza epistemologica di Ficino, si dà automaticamente per scontato il contrappeso filosofico adeguato rifacendosi a conoscenze a priori del lettore tanto ovvie quanto sottaciute. È un presupposto un po’ ingombrante per fondarvi sopra uno studio esaustivo: 1) cosa si intende per “Tutte le dimostrazioni necessarie” che Ficino evita? 2) cos’è che il lettore sa già (e bilancia l’avventuroso entusiasmo di Ficino)? 3) perché quel “forse”, espressione, tutt’altro che necessaria, di quel dubbio onnipresente?

Ed ancora, “forse”, è per necessità autodifensive che Chastel non cita, o glissa, sui nomi di personaggi fondamentali per la comprensione di Ficino e di tutte quelle dimostrazioni così agognate.

Nel paragrafo di “Arte e umanesimo a Firenze” dedicato alle Grazie37, la stessa lacuna riscontrata in Wind costringe ad una identica domanda. La concatenazione Grazie-numero tre o principio trinitario non approda all’ultimo apologeta della triade, confuso in questa sede tra autorità cristiane e non cristiane moltiplicabili all’infinito, apologeta che già Wind aveva ignorato. Chastel non arriva alle contorte argomentazioni del collega tedesco, ma l’intero paragrafo suona incompiuto. Verrebbe da pensare che di Proclo non sappia nulla.

È, infine, con ricercata superficialità che redige le note sul tempio malatestiano di Rimini. Chastel è ovviamente in possesso di tutte le notizie documentarie connesse al tema, ma vi sorvola per l’usuale necessità di sminuirle, quasi ridicolizzarle. Cita il giudizio inquisitorio di Pio II38, l’ elogio di Valturio39, ipotizza una “identificazione simbolica del signore di Rimini col sole”40, ed infine, a seguito di un elenco di cortigiani, si lascia andare: “Tutti costoro, sembra, erano stati in rapporto con il maestro del neoplatonismo moderno, il capo della scuola di Mistra, Gemisto Pletone”41.

“Sembra” e “forse” funzionano da oscilloscopi per misurare la convinzione su cui si fonda la ricerca storica. Adombrato da un “sembra”, Pletone, profetico reinventore dell'accademia di Atene, non solo non viene chiamato in causa per chiarire tutti i tentennamenti ridimensionanti sull’accademia di Firenze, e su quelle contemporanee ad essa imparentate, ma, appena citato, viene messo da parte, giusto come l’amico imbarazzante che ci si vergogna di conoscere. “Certo il prestigio di Pletone era assai vivo a Firenze presso i letterati; (...) Ma non si riesce a immaginare Cosimo (...) che innalza un monumento di questo tipo alla famiglia Medici”42. Così, con un semplice “ma” avversativo, viene liquidato il ruolo del filosofo neopagano.

Eliminando dall’Umanesimo, e da Ficino in particolare, Proclo e Pletone, realmente non resta che un dilettantistico gioco estetico-intellettuale al quale, da storico dell’arte, Chastel si rivolge solo per collocare “storicamente” l’incredibile bellezza della produzione artistica. Con buona pace delle “dimostrazioni necessarie”.


Un paio di considerazioni di Edgar Wind, nel loro perbenismo quasi caricaturale, ci aiutano, alla fine, a farci strada nel cuore del problema.

Nel capitolo 4 dei “Misteri pagani”, intitolato “Orfeo in lode dell’Amore cieco”, quando finalmente dichiara Ficino “un pensatore neopagano”43 è percepibile tutta la soddisfazione di chi finalmente ha messo in guardia la coscienza del lettore. È una segnalazione di “vietato ai minori”: da qui innanzi solo un pubblico di specchiata virtù potrà avventurarsi nei torbidi dell’argomento libero a priori dal peccato (fatta salva, e perdonata, la pruderie necessaria a un certo ardito escursionismo). Bisogna attendere due pagine per avere una descrizione sintetica ma perfettamente esauriente di siffatto pubblico. Il tema in questione è la “componente edonistica del pensiero di Ficino”, quella stessa che lo aveva costretto alla ammissione di poc’anzi: “anche oggi”, scrive Wind, “(...) questa componente epicurea del platonismo rinascimentale sembra creare costernazione, imbarazzo e incredulità”44. Raffigurandoci quei volti costernati, imbarazzati, increduli, siamo ad un passo dal punto che Wind, forse con una certa dose di ingenuità, non esita a centrare qualche capitolo dopo. Più interessante del titolo – “Pan e Proteo”, che ne costituisce, giustamente, il simbolo – ne è la sostanza: “identità come contraddizione”, o “autocontraddizione come autotrascendenza"45, potremmo sintetizzare utilizzando le parole così hegeliane di Wind stesso. Il passo recita: “Si potrebbe pensare che, a questo punto, la mistica rinascimentale si fosse realmente arresa all’«abominevole dei pagani»: sembrerebbe infatti impossibile, anche per il più abile dei teologi poetici, conciliare col codice delle convenienze giudaico-cristiane la barbara credenza che il mostruoso è più elevato e più divino del normale”46. Il ragionamento continua con un “eppure”, al quale fa seguito tutto un elenco di mostruosità bibliche. Ma ciò che più interessa è la scoperta, qui così chiaramente proclamata, forse per la prima e ultima volta, dell’ambito delle “convenienze giudaico-cristiane”. Se il sospetto che nel perimetro di questo ambito risiedesse la tenace, sorda, e spesso dissimulata volontà di travisare una intera epoca storica, o di annacquarla, o ridimensionarla, o piegarla a declinazioni eterogenee, fosse fondato, forse il perché di tante interpretazioni contrastanti troverebbe una risposta. L’invenzione del Rinascimento è sì un presupposto necessario alla modernità, ma è anche, per quella suddetta contraddizione identitaria che di esso è teoria e simbolo, una ferita ancora aperta in una carne viva e sofferente.


Che è poi la stessa morale che leggiamo, intessuta in una filigrana più sottile, nel passo di Chastel dal quale era stata precedentemente estrapolata la non felicissima espressione “tutto qui”. Leggendolo per intero recita: “Il problema degli allegoristi fiorentini è tutto qui: il singolare sfoggio di esegesi di tipo alessandrino tende a trattare le epoche omeriche, Virgilio, Ovidio, come un’altra scrittura”47. Non penetreremmo mai il significato di questa espressione davvero “enigmatica” senza una buona dose di malignità. Malignità che ha almeno il vantaggio di mantenerci nel cuore del problema.

Eppure, nonostante il privilegio morale e ontologico della “scrittura” che ne traspare, che Chastel condivide con la quasi totalità degli studiosi, la realtà del dipinto, quella più autentica e non celabile in quanto oggetto artistico, contemporaneamente al di qua e al di là del mirabile rebus che ci intriga, non poteva non farsi strada con assoluta certezza negli occhi di chiunque lo osservasse.

Venere, grave come una Madonna, (...)48; “Venere sorge come una Madonna (...)49 annota Chastel.

Ma è Gombrich che centra con esattezza il nocciolo del problema: “Io sono la genitrice dell’universo (...)50. La netta autoqualificazione femminile tratta dall”’Asino d’oro” di Apuleio vale da sola tutto il tentativo un po’ goffo di ekphrasis architettato dall’allora direttore del Warburg Institute.

Pecca di ottimismo, però, parlare di “un largo iato tra il dipinto e il testo”51 come concede l’austriaco a proposito del tentativo stesso. I giudizi ridimensionanti o ironici, i titoli dispregiativi, le prese di distanza, creano nell’immensa biblioteca di scritti che riguardano il Botticelli uno iato ben più profondo tra gli autori e la sostanza, iato che si trasmette inesorabilmente al lettore sotto forma di una estraneità che nello stesso imponente sfoggio di freddi dati accumulati, lungi dal risolversi, trova la miglior conferma. Le innocue parate52, i mariti distratti con le loro sposine involate da impertinenti geni alati53, la pedante allegoria di un dotto studio54, non fanno che diluire in un bagno sterilizzante quella potente immagine genitrice, che tutto sconvolge e tutto ricompone nel suo nuovo ordine.


Verrebbe spontaneo concludere il paragrafo richiamando di nuovo in causa il “tutto qui”. Trattando della sostituzione della Madonna, studiando il modo e il tempo in cui è stata immaginata, il problema non è “credere” o “non credere”, o addirittura stilare una graduatoria tra le “credibilità di un credo”. È sufficiente riconoscere l’ambito storico nel quale quegli esploratori quattrocenteschi vivevano immersi, le coordinate culturali di un sistema religioso che si spacciava per realtà assoluta e insuperabile, metafisicamente dato con la “rivelazione” una volta per tutte; o, per usare le implacabili parole di uno studioso, finalmente empatico di Ficino, ricostruire cosa fosse allora “la legalità dominante dell’Occidente” (“vetero- e neo-testamentaria” aggiunge, forse con un pizzico di ironia)55. E, all’interno di questo mondo apparentemente immobile, porsi il problema delle necessità e dei mezzi, a volte anche ingenui, per scardinarlo dall’interno. Solo in quest’ottica è possibile valutare la portata di una rivoluzione che, in nome del progresso umano, non ha esitato a servirsi della parola, così vituperata, “magico”.

Così il lavoro “umilmente superbo”56 di un “filosofastro”57, erede di antichi “perdigiorno”58, ha eroso il dogmatismo religioso, medioevale, in cui il pensiero era stato costretto fino allora. Ci penserà la controriforma a certificare l’importanza di quanto Chastel e altri trattano a livello di un gioco raffinato sì, ma superficiale. Le difficoltà, le contraddizioni, le incertezze, naturali per un movimento che sta inventando se stesso, primo nella storia, insoddisfatto di ogni comoda “doppia verità” ancora tanto di moda, non saranno ciò su cui la macchina della conservazione farà leva per sradicarlo, e la reazione successiva se ne fregherà bellamente di quelle pretese ingenuità, cogliendone solo l’aspetto principale, quello sì dirompente, per aggredirlo con ferocia inaudita.




ERNST H. GOMBRICH



Benedetto Croce, ci sembra, ha eretto un grandissimo ostacolo sulla strada della comprensione delle arti del passato insistendo nello scindere la retorica dall’arte”.59


Le circostanze insolite di questa commissione sembrerebbero spiegare la scelta insolita del soggetto, che fa sì che il quadro (la Primavera) costituisca una svolta decisiva nella storia dell’arte europea”60.


Ma il fatto che egli (Botticelli) abbia dipinto un soggetto non religioso con il fervore e il sentimento che di solito si riservavano per gli oggetti di culto costituiva un inizio di straordinaria importanza”61.


Se il primo di questi aforismi, il dichiarato anti crocianesimo, ci introduce meglio di ogni presentazione nella geografia in cui si muove la ricerca di Ernst Gombrich, ovvia per chi rivestisse allora il ruolo di direttore del Warburg Institute, i due successivi sgombrano il campo da ogni sospetto di timidezze più o meno di comodo sempre in agguato, come si è visto, quando ci si misuri con periodi di grandi sconvolgimenti teologici. Dal linguaggio dello studioso austriaco, esente da beffe e motteggi, non traspare mai l’esigenza di mitigare preventivamente, per un oscuro conflitto della coscienza, la lampante eccezionalità dell’argomento. Sono riflessioni tratte dal saggio “Mitologie botticelliane”, pubblicato per la prima volta nel 1945 e di nuovo nel 1972 all’interno del volume “Immagini simboliche”, testo di riferimento fondamentale, e per certi versi definitivo, per orientarsi nella comprensione dell’opera di Alessandro Filipepi:

L’interpretazione che presenteremo al lettore in queste pagine cerca di fornire un’ipotesi più rispondente all’interpretazione più recente del Rinascimento. Essa prende l’abbrivio da testi che dimostrano come Marsilio Ficino era il mentore spirituale del committente del Botticelli al momento in cui la Primavera fu dipinta, e che la concezione neoplatonica degli dèi antichi era discussa nelle loro lettere. Se da un lato non vuole fornire «prove» in un campo dove prove non se ne possono fornire, dall’altro avanza l’ipotesi che una lettura unitaria delle mitologie botticelliane è possibile ottenerla alla luce del repertorio di immagini neoplatonico”. 62

E, poche righe dopo, enunciata come in una «stretta» finale, ecco (...) l’ipotesi che le mitologie botticelliane non siano illustrazioni dirette di passi letterari esistenti, ma che si fondino su «programmi» elaborati ad hoc da un umanista”. 63

L’ambiente in cui debbano essere cercati il motivo ed il contenuto dell’operazione culturale dalla quale è scaturito il soggetto pittorico è da Gombrich inquadrato alla perfezione. Il circolo intellettuale che ruota intorno a Lorenzo di Pierfrancesco Medici, e che fa del giovane l’obiettivo dell’iniziativa, è non solo dimostrato con la ricchezza di documentazione che solo un grande studioso avrebbe potuto mettere in campo, ma appare, quasi d’istinto, aprioristicamente, funzionale all’esegesi di una messa in scena così complessa come quella apparecchiata per il dipinto.

Nella figura del discepolo (Lorenzo); in quella del Maestro – o Mago – (Ficino); degli altri due mistagoghi che lo accompagnano (Giorgio Antonio Vespucci e Naldo Naldi); e nella figura dell’artefice (Botticelli), a cui è riservato il compito, attraverso la magia del pennello e dei colori, di mettere in opera la sapienza del Maestro, nella stretta connessione spirituale tra i membri di questa accademia “in nuce”, si percepisce esaustivamente ogni necessità di cogliere “il motivo”: l’intero sapere, attraverso le mani di Botticelli, Ficino volle venisse posto sotto gli occhi del discepolo. La scommessa del grande mago rinascimentale fu la magia più estrema: eseguire il sortilegio che suscitasse “il Tutto”.

Ma, se nella prima delle due aree delineate, strettamente relazionate in quello che potremmo definire l’ambito didattico o, più esattamente, pedagogico, le sue argomentazioni sono assolutamente convincenti, nella seconda – il contenuto – nonostante il radicale copernicanismo della sua rivoluzione interpretativa, Gombrich si disperde in congetture che prestano il fianco a facili attacchi critici, non ultimi quelli mossigli dal suo rivale Wind. Congetture cui la felice invenzione del «programma», con la sua vaghezza letteraria già messa in conto, non basta a conferire consistenza e credibilità. Nella serie di scene estrapolate dall’“Asino d’oro” di Apuleio64, altro non si ricava che una regressione, ancora “Warburghiana”, tesa a raccattare per l’ennesima volta gli ennesimi riferimenti letterari ai quali appiccicare le figure botticelliane. Regressione inutile, se non fuorviante, lontana anni luce da quell’obiettivo che ci si sente in diritto di aspettarci guardando a un “programma” concepito da un filosofo.

“Icones symbolicae” resta ciò nonostante il panorama più completo dell’ambito in cui deve essere visto il quadro. La valenza eversiva di un dettato pedagogico e filosofico che, iniziato quasi in sordina alla corte di Ficino, sarebbe esploso in tutta la drammaticità dei suoi presupposti cent’anni dopo, quando il suo massimo e definitivo interprete, Giordano Bruno, lo porterà alle estreme conseguenze nella sua ricerca scientifica e spirituale, non viene pretestuosamente sottaciuta. Eppure, nonostante la ricchissima documentazione del saggio sul rapporto immagine-concetto, e sul conseguente significato così gravido di conseguenze, lo sfondo filosofico, anzi, la struttura primaria di pensiero dalla quale si animano e sbalzano fuori le figure che compongono alla fine la bellezza dell’epoca, la sostanza, quindi, di ciò che lui stesso ha definito “programma”, resta per Gombrich celata dietro una doppia difficoltà. La prima, di ordine quantitativo, potrebbe essere superabile in fondo solo con una buona dose di monastica pazienza: “Le molte citazioni dagli scritti di Ficino, addotte a sostegno di questi argomenti, non dovrebbero far dimenticare che larghe zone di questa letteratura sono tuttora inesplorate e che ulteriori ricerche possono fornire paralleli più felici e pertinenti”65. Ma è sulla seconda, di ordine eminentemente qualitativo, che l’austriaco sembra gettare la spugna: “Le idee filosofiche del Ficino erano difficili da tradurre direttamente in pittura” 66, si lascia andare sconsolato, ed è una constatazione che sa di resa.

Il sospetto che alcuni luoghi di studio fondamentali siano stati poco esplorati dagli iconologi è forte. Le discipline necessarie all’iconologia portano i nomi delle esperienze più alte del pensiero e dello spirito umano: Storia dell’Arte, Storia delle Lettere, della Filosofia. E quando, come nel caso del Rinascimento, la volontà dei protagonisti fu di far rivivere un’epoca spenta ormai da mille anni, per trovare l’aggancio giusto, il nesso che fa esultare il ricercatore nel suo personale Eureka, le Storie andranno almeno raddoppiate: doppia Storia dell’Arte, doppia delle Lettere, doppia della Filosofia. Ovvio che il campo si allarga a tal punto da mettere in crisi il più tenace degli storici, soprattutto se, invece di puntare alla grande sintesi, l’obiettivo è posto nel dettaglio microscopico, nel minimo ingranaggio che in una pennellata, in un gesto, nell’intreccio di due mani, connette mondi lontani e apparentemente infiniti. È un fatto che, senza bisogno di lasciarci travolgere da quell’immensa piena che l’apertura delle cataratte dei riferimenti ficiniani si porterebbe dietro, la sottovalutazione riservata ad alcuni testi di primo piano nell’orizzonte del filosofo fiorentino, e le omissioni sui relativi influssi, susciti a dir poco sconcerto.


È comunque all’interno dello schema ambientale complessivo ricostruito da Gombrich che è possibile tentare una prima definizione, un punto d’arrivo che fermi il quadro nella sua ancora vorticosa inafferrabilità. Ci viene in aiuto Monica Centanni, con due preziose informazioni ricavate da un suo studio apparso nel 2012 sulla rivista on line “Engramma”.

Innanzi tutto la data, primo punto fermo imprescindibile.

I tre dipinti (Primavera, Nascita di Venere, Pallade) sono databili in un arco di tempo molto ristretto, collocabile al rientro a Firenze dell’artista dopo il soggiorno romano, e precisamente nel triennio che va da 1482 (la data più alta proposta attualmente per la Primavera) e il 1485 (la data più bassa proposta per la Pallade), passando dagli anni 1483/84 in cui è da collocare la Nascita di Venere”.67

Ma, soprattutto, secondo punto fermo, una seconda data: il 19 luglio 1482. È il giorno delle nozze tra Lorenzo di Pierfrancesco e Semiramide Appiani. Ed è alla luce di questo avvenimento, fondamentale nell’economia e nella politica del tempo tanto per la famiglia dello sposo, i Medici, quanto per quella della sposa, gli Appiani di Piombino, che la studiosa vede l’occasione per l’esecuzione, o il compimento, del grande quadro.68 Il “Tutto”, al quale eravamo già giunti, l’“intero sapere”, ma che si configura ora come dono di nozze, o come celebrazione, forse rappresentazione, dell'accesso all’età adulta dell’ex giovane allievo di Ficino. Certificazione di conoscenza, conferimento del grado “iniziatico” raggiunto. Primavera come “diploma”, quindi, come investitura di un adepto.




MARSILIO FICINO



Il 1482 è però anche l’anno di un altro avvenimento sul quale, forse, per via di quel pregiudizio perbenista che invischia la penna di tanti studiosi, si è sorvolato con pigrizia non del tutto innocente. Anche se il ruolo cardine di Ficino nell’elaborazione della cultura pittorica del ‘400 è stato giustamente enfatizzato, che dietro al “filosofastro”69 ci fosse l’uomo, con una sua personalità, un suo carattere, con i suoi desideri, debolezze e velleità, si tende volentieri a trascurarlo.

Le indulgenti pennellate di Chastel che ci tratteggiano un Ficino “musicista orfico per eccellenza”70, ispirato cantore e squisito compagno di teologici convivi, non distolgono, o addirittura aggravano, il suo confinamento, più che al ruolo di protagonista, con tutte le sfaccettature che il protagonismo comporta, a quello di pedante e paradossalmente asettico funzionario, comprimario in quella parte che, sotto la dicitura di “filosofo”, presuppone quasi le capacità funamboliche ma prive di spessore proprie di un caratterista.

La conferma in diretta ci giunge dalla più insospettabile delle fonti. Così il discepolo, amico e mecenate Lorenzo (il Magnifico, questa volta) saluta l’apparizione del Maestro dalle terzine dell’ “Altercazione”, un breve poema dedicato al sommo bene:


Pensai che Orfeo al mondo ritornasse
o quel che chiuse Tebe col suon degno,
sì dolce lira mi parea sonasse.
«Forse caduta è dal superno regno
la lira ch’era tra le stelle fisse»;
diss’io «il ciel sarà sanza il suo segno;
o forse, come quello antico disse,
l’alma d’alcun di questi trasmutata
nel sonator per suo destin si misse».
E mentre che tra fronde e fronde guata,
e segue l’occhio ove l’orecchio tira,
per veder tal dolcezza d’onde è nata;
ecco in un punto sente, intende e mira
l’occhio, la mente nobile e l’orecchio
chi suona, sua dottrina e la sua lira:
Marsilio abitator del Montevecchio,
nel quale il cielo ogni sua grazia infuse,
perch’ei fusse ai mortal sempre uno specchio:
amator sempre delle sante Muse,
né manco della vera sapienzia,
tal che l’una giammai dall’altra escluse71.


Eppure è proprio dall’affettuosa musicalità di questi versi che emerge impietosamente il contrasto con il racconto successivo, parafrasi rovesciata, svuotata di ogni liricità, di altra opera filosofica. L’imitazione di Dante tentata dal Magnifico con il materiale del suo pensatore di fiducia non riesce. E nel poemetto in cui è di fatto primo attore, Ficino appare costretto dalle sue stesse parole in una camicia di forza cui nessun novello Orfeo avrebbe mai aspirato.

Se ci intrigano, fino a farci perdere la testa, i poligoni amorosi tra i vari Lorenzi, i Giuliani, le Simonette e le Semiramidi, il ruolo del cortigiano-traduttore, nella gerarchia delle emozioni suscitate, resta relegato al secondo piano: un Mago Merlino che, a metterla bene, si è spazzolato via con le sue stesse mani le incrostazioni medioevali dal vecchio abito filosofico – il noioso pedagogo che, nel rapporto con le giovani e appassionate coppie di amanti, più che educare, “rompe”.


Così si è sorvolato sul fatto che nel 1482 Ficino abbia dato alle stampe la “Theologia Platonica”, probabilmente la sua opera teoretica più importante. “Punto di arrivo di una ricerca protrattasi per oltre due decenni, lungamente rielaborata, la Theologia Platonica vide la luce il 7 novembre del 1482 a Firenze per i tipi di Antonio Miscomini. Il Ficino stesso ne seguì direttamente la pubblicazione, attendendo alla correzione sino a quando il trattato andò in stampa” dichiara Errico Vitale nel saggio introduttivo alla propria traduzione72.

Anche in un’ottica personale del Filosofo, sul significato dell'evento (non si dimentichi che la stesura risale al quinquennio 1469-1474)73, sono di nuovo perfette queste altre parole di Vitale:

La Theologia Platonica costituisce il documento fondamentale, nel quale la ricerca filologica si fonde alla sintesi speculativa, dando luogo ad una summa di rara complessità”74.

Due anni dopo, quindi nel 1484, conclude Vitale citando Cesare Vasoli, “Con la pubblicazione della Theologia Platonica e del Corpus Platonicumn si chiudeva, come scrive il Vasoli, «la prima fase della sua lunga attività»”75.


Nulla conferisce il giusto rilievo a queste essenziali notizie come il seguente giudizio di Eugenio Garin, l’implacabile “malleus fariseorum” contro la sedicente e sprezzante superiorità intellettuale dei nordici:

La traduzione di Platone in latino, la sua edizione a stampa a Firenze, la lunga eco in Europa, le ripercussioni nei campi più vari, costituiscono uno dei momenti più alti della storia della civiltà occidentale. La risonanza ne è presente nell’arte di Raffaello come nella scienza di Galileo, nella poesia come nella filosofia (...). Ancora Hegel leggerà e utilizzerà testi fondamentali della tradizione platonica lungo l’onda suscitata dall’opera di Marsilio Ficino”76.


Ce n’è a sufficienza per sospettare che, oltre al 19 luglio, giorno delle nozze tra Semiramide e Lorenzo, il vulcanico aio avesse in mente altre correnti di pensiero che lo riconducevano ad altra data. Se la “Theologia Platonica”, l’opera pensata e voluta come introduzione e guida all’immensa mole degli scritti di Platone, si era risolta essa stessa in un oceano insolcabile senza una ulteriore, sicura guida, è lecito pensare che fosse proprio questa l’occasione per rivolgersi ad uno di quegli ausili, al confine tra immagine e magia, così radicati nella mentalità sua e di tutti quelli del suo circolo?

Se “L’immagine perfetta", come afferma Chastel, “è, come il geroglifico, il tramite di una conoscenza superiore, lo strumento della contemplazione”77; se “Il lavoro della magia può esercitarsi solo grazie al preciso potere delle immagini”78, non erano proprio queste idee, di cui lui stesso era il principale portavoce, a suggerirne la messa in pratica nella stesura di un sempre più necessario compendio figurato, e nel suo utilizzo per l’educazione definitiva dei due giovani sposi?


Esercita una certa suggestione, presa visione di una stravagante teoria della “Nascita di Venere” in quanto allegoria della scoperta dell’America79, come si venga a creare un curioso parallelo con la “Primavera” in quanto allegoria e guida in un altra geografia altrettanto inesplorata: l’incommensurabile universo di parole in cui sotto gli occhi degli increduli intellettuali fiorentini si era disteso il platonismo. Due epopee, ad una delle quali, quella effettivamente geografica, lo stesso amico e collega di studi di Lorenzo avrebbe dato per primo voce e nome: Amerigo Vespucci.


Che però il puro geroglifico, quello consacrato da Plotino80, non fosse per Ficino l’unico artificio mnemotecnico-intuitivo a disposizione è ovvio. Per quanto privilegiato e in sintonia con la temperie culturale di cui il filosofo era il principale promotore, il mitico simbolo ideogrammatico egiziano era per i platonici innanzitutto simbolo di se stesso, di un rapporto verità-immagine declinabile negli infiniti modi che le capacità tecniche e creative del secolo, e di Firenze in particolare, mettevano nelle mani del sapiente. Che, al contrario, la ricerca di sistemi didattici più immediati, utilizzabili non solo da una ristretta cerchia di discepoli, ma da un più vasto pubblico, occupasse i pensieri di Ficino, lo dimostra l’importanza da lui data ad un episodio di cui fu spettatore nel 1475. È un oggetto meccanico che colpisce la fantasia del filosofo, un modello in movimento di un microcosmo pullulante di vita che un artigiano tedesco aveva portato a Firenze in quell’anno, e che il fiorentino descrive con ammirata accuratezza in due sue opere, la "Theologia Platonica” e la “Disputa contro il giudizio degli astrologi”.

Non so se è possibile stabilire la sequenza temporale dei due brani. Ma se la “Disputa” è stata pubblicata nel ’77, la “Theologia”, abbozzata nelle sue parti generali ben prima del ’75, rimarca, con l’interpolazione della stessa narrazione nel testo pubblicato, la centralità dell’avvenimento nelle riflessioni didattiche di Ficino.

Così è il testo della “Disputa”:

Nel 1475, nel mese di febbraio, venne a Firenze un artigiano tedesco. Mostrava tutti i giorni al pubblico un tabernacolo che aveva fabbricato con le sue mani, nel quale (come due volte ho visto io stesso) si distinguevano molte statue di uomini, cavalli, cani, uccelli e serpenti, tutte connesse e tenute in equilibrio su un perno, in modo tale che il movimento del perno le trasportava, ognuna con un movimento diverso. Le une si spostavano a destra, le altre a sinistra; in alto e in basso; quelle che erano sedute si alzavano; quelle che stavano ferme si inclinavano; alcune ne incoronavano altre; alcune venivano colpite. Si udiva un suono di tube e di corni; nel tabernacolo si verificavano nello stesso momento moltissime azioni, tutte causate dal solo movimento di un solo perno”81

Concludono entrambi i testi:

Così Dio, in virtù del suo stesso essere, che invero coincide con l’intendere e il volere, ed è come il centro assolutamente semplice di tutte le cose, dal quale, come abbiamo detto altrove, tutte le altre cose si dipartono come linee, con un semplicissimo cenno muove tutto ciò che da lui dipende”82. (Concetto già espresso, con identiche parole, come lui stesso fa notare, poche pagine prima della “Theologia”, alla fine del capitolo ottavo dello stesso libro, il secondo)83.

Ma l’analogia meccanica perfetta che organizza in un’unica coerente visione tutta la sua metafisica è riservata alle parole che precedono la descrizione del tabernacolo tedesco, e delle quali quest’ultimo non rappresenterebbe quindi che una possibile fonte di ispirazione per analoghi marchingegni descrittivi.

“(Dio) è il cardine universale di tutte le cose, fa ruotare i cardini successivi, cioè l’essenza, la vita, la mente, l’anima, la natura, la materia. E come direbbe qualche Platonico, in virtù del cardine proprio di ciascun ordine muove anche quel particolare ordine, cioè in virtù di un’unica essenza tutte le essenze, di un’unica vita tutte le vite, di un’unica mente tutte le menti, di un’unica anima similmente ciascuna anima, di un’unica natura tutte le nature, di un’unica materia tutte le materie”84.

Il culto degli automi, il sogno accarezzato fin dai tempi delle letture e delle traduzioni ermetiche, connesso alla sua visione metafisica e cosmologica, è ben radicato in Ficino. L’inizio del capitolo terzo, libro tredicesimo, dedicato alle capacità artistiche dell’essere umano, si sofferma ancora una volta su invenzioni, da sempre date per certe, di arte cinetica e di robotica:

In base alle sue conoscenze matematiche Archita di Taranto realizzò una colomba di legno, facendola librare e soffiandovi dell’aria a tal punto che essa volò. Gli Egiziani, come tramanda Mercurio, costruivano statue di dei, che erano tali da parlare e camminare. Archimede di Siracusa realizzò un planetario in bronzo, nel quale tutti i movimenti dei sette pianeti si compivano in modo assolutamente corrispondente a quello celeste, ed esso girava esattamente come il cielo”85.

Oltre la mappa concettuale, per sua natura geometrico-geografica, dalla quale il geroglifico non può evolversi, il sogno di Ficino sconfina nell’animazione. Non si capirà mai il significato del dipinto botticelliano senza percepirne, dietro alla soavità tutta italiana, la logica tedesca che ne regge ingranaggi e movimenti. Come in un fantastico carillon, o in un “altarretabel” calato sui colli fiorentini, in cui le statue, mosse da un sapiente orologiaio, mettono in scena l’eternità della loro divina bellezza.


Nel 1489, sette anni dopo la pubblicazione della Teologia e le nozze tra i due giovani, nel diciannovesimo capitolo dello “scandaloso III libro”86 del “De Vita”, Ficino rivede con maggior sistematicità gli stessi motivi. Il titolo dell’“originale” e “controverso”87 terzo libro è “De vita coelitus comparanda”, quello del capitolo diciannovesimo è già, di per sé, un motto che non richiede spiegazioni: “De fabricanda universi figura”.

Il capitolo inizia con una significativa domanda, retorica alla luce di quanto già appurato sette anni prima:

Ma perché trascuriamo l’immagine universale, cioè la figura dell’universo stesso? Sembra che da essa gli astrologi si aspettino il favore dell’intero universo. Dunque un ipotetico loro seguace, che sarà in grado di farlo, scolpirà una sorta di forma archetipa di tutto il mondo (...)88. Poi, poche pagine dopo, ritroviamo un vecchio suggerimento, rinverdito dal fatto che, in questi anni, un vero fiorentino ha preso il posto del fatale, ma ormai remoto, orologiaio tedesco: (...) e sarà utile avere dinanzi agli occhi una sfera dotata dei propri movimenti, come quella costruita un tempo da Archimede e recentemente da un tal nostro concittadino di Firenze, di nome Lorenzo”89.

La ripresa a posteriori del tema di una giostra-talismano da parte di Ficino, con le ulteriori indicazioni di materiali, colori e ideali collocazioni architettoniche, non sarebbe significativa in uno studio sulla Primavera, se non fosse che, da dentro la torre ermetica in cui è asserragliata, queste parole fanno prorompere Frances A. Yates in considerazioni che hanno quasi il tono entusiastico di altrettante esclamazioni:

L’oggetto descritto (...) sembrerebbe un modello del cielo (...); “Questa figura del mondo (...) non è fatta solo per essere ammirata (...); “Si tratta di un meccanismo cosmico”90.

Essenzialmente autodidatta, “geniale dilettante”, entrata tardi, intorno ai quarant’anni, alla corte del Warburg Institute, la Yates ne è forse la vera erede del fondatore, non per sottintesi diritti di lasciti affettivi, e nemmeno per spiccate capacità funzionarie e amministrative, ma per affinità di vocazione in quel tipo di conoscenza “non solamente secondo la lettera che uccide, ma secondo lo spirito che ravviva”91, per usare le parole di un ispirato musicista tedesco del XIX secolo. Nel suo saggio su Ficino la Yates ci presenta il filosofo là dove Chastel e, soprattutto, Gombrich l’avevano lasciato. Nella misura in cui il “De vita coelitus comparanda” conferma e organizza il materiale intellettuale maneggiato da Ficino nel 1482, la studiosa inglese non esita a lanciarsi in una ardita ipotesi, alla quale per altro, come dichiara lei stessa, non darà alcun seguito:

É certo che il «dono immenso», il dono, cioè, del «cielo stesso», indirizzato da Ficino a Pierfrancesco, era un prodotto di natura analoga a quello descritto nel capitolo XIX del “De vita coelitus comparanda”, che tratta appunto della «costruzione di una figura dell’universo». E, poche righe dopo: “Per quanto dipinta prima della stesura, o almeno prima della pubblicazione, del “De vita coelitus comparanda”, la «Primavera» di Botticelli è senz’altro un prodotto del genere, preordinato a questo scopo”92.

Fa parte dei “misteri del Rinascimento” che questa intuizione della Yates sia caduta nel nulla?


Quelle di Ficino sono ben più che esternazioni frammentarie. Una specie di meccanismo totale, volto a unificare il sapere in una serrata teoria, era già implicito nel testo filosofico da cui era partito, parallelamente al corpus platonico stesso, già dall’inizio della sua avventura nei primi anni ‘60: la “Teologia platonica" di Proclo, probabilmente l’ultimo capolavoro dell’antichità. Nella sua opera maggiore, il filosofo costantinopolitano, tra gli ultimi scolarchi dell’Accademia, l’ultimo dei filosofi antichi degni di nota, riversa l’ambizione di sistematizzare definitivamente l’immensa mole di speculazioni mitico-teologiche dell’intera civiltà che lo ha preceduto. In Proclo, concetti e Dei, ruoli e relazioni, luoghi e dinamiche, si trovano incasellati in uno schema perfetto, immobile nel suo incessante dinamismo, assoluto nella sua preclusione ad ogni possibile sviluppo. Una “teologia” – una “antropologia”, come si direbbe oggi al termine di quella rivoluzione culturale alla quale lo stesso Ficino ha dato inizio – “definitiva”.

La “Teologia Platonica” di Proclo fu tradotta in latino in due fasi: da Ambrogio Traversari e, alla morte di costui, da Pietro Balbi, su incarico del cardinale Nicola Cusano. Ficino, senza la necessità di tradurla lui stesso ed aggiungerla al suo “corpus”, la studiò su un manoscritto originale greco ricevendone un imprinting duraturo. Le linee guida, le cinque sostanze, la dialettica tripartita – che tanto affascinerà Hegel – il flusso inestinguibile della generazione, vengono dal figlinese sintetizzate in brevi note che ne colgono in pieno lo spirito93. Non ci si allontanerà molto dalla realtà a ipotizzare che fu proprio durante la lettura di Proclo che gli balenò in mente la possibilità di imbrigliare l’oceanico mareggiare del platonismo in un meccanismo perfetto, da sottoporre come inespugnabile certezza alla volgare prosaicità di scettici ed epicurei, alle tetragone presunzioni degli aristotelici, ma, soprattutto, alle perplessità e incomprensioni di iniziandi e allievi.

Proclo stesso lo aveva preceduto individuando quel modello celato a sua volta nel "Parmenide": (...) tutti i principi dogmatici della scienza teologica qui si manifestano in modo perfetto e tutti gli ordinamenti degli esseri divini mostrano di sussistere in modo continuo e coerente”94. Modello che, col flusso impetuoso della sua opera, il greco si era proposto di esplicitare.

La Teologia Platonica di Proclo rappresentava una sintesi esemplare anche per quanto riguarda la ricostruzione e l’interpretazione del platonismo”95 sancisce ancora mirabilmente Errico Vitale.


Ma c’è qualcosa in quel trattato tardoantico che va oltre la volontà della sintesi teoretica totale. Nel capitolo 29 del primo libro, sull’utilizzo teurgico dei nomi, la necessità di “vedere”, di associare un’immagine ai gradini di invito nella scala che si libra verso l'intelligibile, costringe il greco a un linguaggio che sembra proiettarsi, oltre l’ottimismo ancora principiante di Ficino, direttamente verso le “summe” mnemotecniche e magiche di Bruno. Nelle parole di Proclo si forgiano già i protagonisti che mille anni dopo avrebbero popolato i sostrati e i luoghi comuni, gli atri e i chiostri in “De umbris idearum”96, in “De imaginum compositione”97, e la potente galleria di statue nel vertiginoso cosmo della “Lampas triginta statuarum”. Trattando quei temi che, da Ficino in poi, nel rinascimento, sarebbero stati rubricati come “ermetici”, Proclo nomina i “sapienti (...) che generano statue messe in movimento dalle loro visioni interiori” e, procedendo oltre, il mito del modello acquista una consistenza e una vivacità degna già di un presepe mnemonico pagano: “anche la nostra scienza, prendendo a modello l’attività produttrice dell’intelletto, attraverso il ragionamento realizza imitazioni fra tutte le altre cose in particolare degli dèi (...). E plasmando in tal modo i nomi, mostra, con un estremo livello di approssimazione, immagini delle entità divine: infatti ciascun nome genera proprio come una statua degli dèi. E come la teurgia attraverso determinati tipi di simboli invoca la bontà generosa degli dèi ad illuminare le statue prodotte dall’arte umana, allo stesso modo appunto anche la scienza intellettiva delle entità divine con combinazioni e distinzioni di suoni fa apparire la celata essenza degli dèi”98.


Nel 1482 la mente di Ficino è occupata da due necessità convergenti: il progetto di un sigillo che coroni l’uscita della sua opera teoretica più importante, che vede finalmente la luce dopo anni di gestazione, e il desiderio di donare all’allievo Lorenzo di Pierfrancesco, giunto al matrimonio, un prezioso apparato mnemotecnico, sigillo a sua volta della sapienza raggiunta. Se un artigiano tedesco riusciva a esprimere meccanicamente tutti i movimenti della vita, se Archimede allo stesso modo era riuscito a descrivere in un unico modello le complicate funzioni del cosmo fisico, era impossibile per un pittore della abilità di Botticelli, sotto la guida del primo tra i sapienti, rappresentare il cosmo vero, quello metafisico e soprasensibile, così come si svelava nell’opera dalla quale aveva mutuato il nome per il proprio capolavoro finale e onnicomprensivo?

È così che Ficino, insieme a Botticelli, organizza la “Primavera”, una macchina a pensare, una epitome visiva che compendi l’intera filosofia recuperata, studiata e rielaborata fino a quell’anno 1482, una illustrazione della grande opera che permetta alla giovane coppia di sposi, che l’avrebbe sempre avuta sotto gli occhi, di “vedere come in un lampo”99 quel palpito dell’Essere a cui lui, Ficino, erede ultimo della catena di sapienti da lui stesso resuscitata, aveva avuto il privilegio di accedere, e che ora toccava a Lorenzo e Semiramide tenere in vita. Un punto fermo dopo anni di studi, che non solo confermasse, ma eternamente rinnovasse la conoscenza raggiunta: occasione inestinguibile per l’anima – affrancata dal “breve cerchio dell’occasione” – di essere in “sintonia coi grandi ritmi del mondo”, “poiché il suo respiro naturale è il respiro del mondo”.100

È il geroglifico assoluto quello creato dal grande filosofo e dal grandissimo pittore, glifo chiuso ai profani dietro lo schermo della sua travolgente bellezza. Ma capace di dischiudere, a chi lo sappia aprire con la chiave della vera conoscenza, alla “luce istantanea dell’intelligenza”101, l’intero “πρώτιστον καὶ κάλλιστον παράδειγμα τοῡ παντός”, il “primo e più bel modello dell’universo”102, quello descritto da Proclo e da Platone.

La conoscenza è un atto o disposizione unica. Intendo un atto semplice di forma semplice, intuizione indivisibile di un verità indivisibile, luce istantanea dell’intelligenza”103 aveva spiegato Marsilio Ficino in uno dei suoi più begli aforismi. Sarà bene averlo in mente, accingendosi a contemplare il quadro.




LEGENDA E GEOMETRIA



Per evitare inutili legende o concettuose tabelle di conversione, tentando la descrizione del quadro la cosa migliore è rifarsi alla tradizione così come ci è stata consegnata, quasi all’unanimità, dai migliori studiosi da almeno cent’anni a questa parte, e come ormai è stata accettata anche a livello della fruizione più turistica e di massa.

Innanzi tutto il titolo: “Primavera”, libero dalla “cosiddetta” di prammatica, efficace nella sua semplicità, carico di profonde suggestioni e denso dei giusti profumi. Poi i personaggi. Da sinistra: Mercurio, le Grazie, Venere e Cupido sovrastante, Flora, Clori, Zefiro. Nomi bellissimi e carichi di forze evocative illimitate, tutte capaci di deviare il pensiero verso orizzonti sempre interessanti, comunque pieni di poesia. Come fossero nomi di attori, che in effetti non c’è bisogno di sostituire, una volta analizzatane la funzione e chiarita la parte che recitano sulla scena. È sui personaggi, sulla trama di relazioni che li connette, che converrà soffermarsi un attimo: non sul cartellone degli interpreti, ma sul “quadro” come “dramma”. O meglio: sul “dramma” come “quadro”.


La composizione del dipinto appoggia su una geometria tanto evidente quanto per nulla presa in considerazione. Accecati, e appagati, da una frettolosa impressione di bidimensionalità o, che è lo stesso, da una totale assenza di profondità, gli esegeti si sono ostinati a leggerne la trama come una progressione discorsiva, svolgentesi sopra una riga di scrittura, il più della volte destrorsa, nella massima noncuranza di come il periodo storico avrebbe dovuto influire anche sull’aggiornatissimo Botticelli.

La centralità di Venere, così lampante da essere probabilmente scambiata per banale, non ha dissuaso nessuno studioso (Claudia Villa a parte) dal far prendere le mosse dell’azione dall’impeto di Zefiro. Il riconoscimento, anch’esso di una evidenza disarmante, della profonda analogia tra Venere e la Madonna, con le conseguenti analogie dei ruoli, non ha generato alcuna alternativa parimenti analoga alla consolidata e ovvia lettura di ogni scena che abbia la Vergine, o la Trinità, o un singolo elemento di quest’ultima, al centro.

La disposizione delle figure sul piano orizzontale, attentamente studiata dal pittore, si è fatto addirittura finta di non vederla, nonostante gli esiti prospettici conseguiti e la relativa valenza significativa in essi implicata. Questi leggeri scarti grafici, che il “geomètra” preteso da Platone, l’unico tipo umano ammissibile all’Accademia di Atene, avrebbe percepito con naturalezza, fanno a pezzi la lettura imperversante e nascondono, o rivelano, qualcosa più in sintonia con le esercitate orecchie di qualunque adepto di qualunque accademia di ogni tempo. Il nucleo volumetrico che ha sotto gli occhi il platonico geomètra, e attorno al quale si organizza l'intera composizione, non è un piano sul quale i personaggi si appiattiscono come su una cortina, o si allineano come su un filare. È un cono, assimilabile con discreta esattezza a un cono circolare retto così determinato: il vertice coincide col centro del ventre di Venere; il cerchio della base, parallelo e di poco arretrato rispetto al piano prospettico, circoscrive un triangolo equilatero che ne individua tre punti fondamentali: 1) il “baricentro” compositivo di Cupido, 2) il centro della proiezione di Flora sul piano orizzontale, 3) il centro del cerchio, ancora sul piano orizzontale, sul quale ruotano le tre Grazie; l’altezza giace su una retta perpendicolare al quadro prospettico, allineata con l’occhio, o “punto di vista”, dello spettatore. Sul piano, infine, a cui appartiene la base del suddetto cono si muovono i rimanenti personaggi: Mercurio, Clori e Zefiro.

Non è necessaria una grande esperienza di letture neoplatoniche per “intuire come in un lampo”104 che la geometria delineata è funzionale a un concetto letteralmente “centrale” nella rinata Filosofia predicata da Ficino: “irraggiamento”. La stereometria del quadro, così come l’hanno voluta Ficino e Botticelli, è la forma fisica e visibile dell’ “irraggiamento”.


La storia dell’irraggiamento, tra i platonici, è lunga ed ha origine nella “Repubblica” con la celebre analogia: “Per rampollo del Bene intendo il sole, generato dal Bene a sua somiglianza: l’uno ha nel mondo visibile lo stesso rapporto con la vista e le cose visibili che l’altro ha nel mondo intelligibile con l’intelletto e le realtà intelligibili”105. Culminata, dopo poche pagine, nel mito della caverna, alla metafora ottica e alla sua efficacia didattica avrebbero attinto tutti i seguaci della scuola. Al suo distillato euclideo Plotino si riferirà in numerosi passi che hanno talvolta la consistenza di minuscoli trattati. Utilizzando i concetti elementari di punto, retta, centro e circonferenza renderà immediatamente accessibile attraverso l’intuizione geometrica l’ostico misticheggiare del suo lessico cosmologico: “Esiste certamente un centro e intorno ad esso un cerchio che ne deriva irraggiando, e intorno a questo un altro cerchio: luce da luce”106.


Tra Proclo e Plotino vi sono grosse differenze espositive che solo marginalmente interessano chi scrive di filosofia. È una differenza estetica che però diventa imprescindibile quando, come nel caso in questione, si voglia comprimere, per usare le parole di Eliot, “tutto l’universo in una palla”: si desideri, cioè, crearne l’immagine che tutto comprenda, l’ideogramma totalizzante. Il propagarsi dei cerchi concentrici di Plotino diventa in Proclo un flusso impetuoso che dà origine ad una galleria di possenti figure plastiche. La forza di queste personificazioni, che altro non sono se non gli Dei della mitologia greca, rende il tranquillo fluire plotiniano, in confronto, quasi una stagnazione.

In Proclo il flusso sembra, a prima vista, assumere la forma di una catena, ed è così che Ficino lo registra negli appunti al codice manoscritto della Teologia in suo possesso, il “Riccardiano 70”107. Ma non gli sfugge, al di là di un efficace sistema di sintesi, il carattere “espansivo” della teoria, la visione di uno spazio sferico polarizzato, quasi un moderno modello di campo con la conseguente legge delle forze che lo governano: la proporzionalità inversa al quadrato della distanza. O, esprimendosi con le parole di un altro procliano della prima ora, la dualità complicatio-esplicatio in cui, secondo Cusano, in ciascun punto dell’universo la presenza divina si manifesta quasi a livello di densità-rarefazione108.


Saranno ancora le prescrizioni dei due grandi filosofi della tarda antichità a guidare lo sviluppo, oltre il cono circolare retto già descritto, della struttura organizzata dal Botticelli. Concentriche al cerchio che ne costituisce la base, il binomio Ficino-Botticelli immagina altre due circonferenze, ovviamente centrate nel ventre di Venere e parallele al “piano principale” dell’intera operazione prospettica (quello, per intenderci, inventato da Brunelleschi una settantina di anni prima). Mercurio e Clori appartengono al primo di questi cerchi, secondo in assoluto, e ne occupano gli estremi del diametro orizzontale. Le nuvole – agite da Mercurio – sulla sinistra e Zefiro sulla destra appartengono al secondo di questi cerchi, terzo in assoluto comprendendo la base del cono. Su questo semplice e razionalissimo telaio, costituito di un centro e di tre successivi cerchi concentrici, i protagonisti dell’azione si dispongono e trovano le reciproche relazioni. Un cerchio minore, un epiciclo giacente sul piano orizzontale, perpendicolare al quadro, su cui tre attrici si muovono in girotondo, marca la differenza con la stasi e i movimenti rettilinei degli altri personaggi, completando la gamma di simboli che il quadro è chiamato a rispecchiare.

L’analogia dello schema con le cinque sostanze di Proclo, le stesse che Ficino elenca puntigliosamente, per esempio, in “Sopra lo amore”, il suo scritto di maggior successo, potrebbe già concludere il presente tentativo esegetico. Le equivalenze che ne risultano con i cerchi maggiori sono le seguenti:

– centro – Bene – impersonificato da Venere;

– 1° cerchio – Nous – impersonificato da Amore, Flora e Grazie;

– 2° cerchio – Anima – impersonificata da Clori e Mercurio;

– 3° cerchio – Natura – impersonificata da Zefiro e dalle nubi;

e sarebbero già sufficienti per una chiave di lettura alternativa e convincente.

Il quarto cerchio, quinta sostanza, è apparentemente assente. Ma è una assenza su cui non è difficile far luce mettendosi nell’ottica del pittore. L’ipostasi materia, nella sua purezza, visivamente non può che coincidere con l’assenza di geometria. Materia-geometria è, per il pittore neoplatonico, un insanabile ossimoro. Il “non ancora formato”, il “non individualizzato” viene rappresentato da Botticelli come anelito, come primitiva aspirazione alla determinazione e al movimento: rappresentabile in quanto esistente, dipingibile in quanto creato, nell’ultimo elemento della serie la vita, pittoricamente parlando, c’è, ma non c’è la sua geometrizzazione. A questa palpitante attesa della materia, “ex-ducanda”, “formanda” dalla ragione nel reale, il pittore dà sfogo attraverso la ricchezza di ciò che chiamiamo sfondo, la cui superficie più neutra, il cielo azzurro, si condenserà, sotto l’azione della forza proveniente dalla centralità unificante, nella aeroformità di Zefiro, la epiforma, o protoforma, a seconda dei due modi di vedere l’universo di cui si parlerà in seguito.

Un fulmineo ripasso di una citazione di Ficino estratta dal capitolo tredicesimo, libro secondo, riportata innanzi109, conferma di essere in presenza della “Clavis Magna” necessaria:

“(Dio) (il Bene) è il cardine universale di tutte le cose, fa ruotare i cardini successivi:” – “l’essenza, la vita, la mente” (o, secondo il Riccardiano 70110, “Ens, Vita, Intellectus”, quindi il Nous, primo cerchio), – “l’anima”, secondo cerchio, “la natura”, terzo cerchio, – infine “la materia”, ovvero lo sfondo.

Con questi versi divini Orfeo cantò la natura divina:

Άενἀω στροφαλιγγι θοὁν ρύμα δινεύουσα

cioè «Da un cardine perpetuo imprimi un rapido movimento»111 conclude Ficino, blindando con l’autorità del primo fra i teologi il modello necessario pensato per la descrizione del mondo.




VENERE



Chiarito il modo di guardare il quadro, varrà la pena, come si è detto, di soffermarsi un attimo sulle figure in cui si drammatizzano i ruoli che ciascun cerchio impone, alla ricerca di non immediate ekphrasis.

Che il sistema più indicato a decifrarne con ordine i contenuti consista semplicemente nel partire dall’inizio, ove per inizio si intenda ora il platonico centro, sacello massimo della massima intensità dell’essere o, cusianamente, complicatio totale e impartecipabile, non è del tutto ovvio. Varrebbe, innanzi tutto, la proporzione tra archi di cerchi concentrici individuati da tre o più raggi, come giustamente rileva Gombrich112. Ma tale linearità non corrisponde totalmente al complesso racconto di Proclo, e neppure all’interpretazione pittorica architettata dai due intellettuali alle soglie della modernità. La marcia verso l’esplicatio, scandita dal filosofo nella sua Teologia, è meglio rappresentabile, diremmo noi pienamente moderni, attraverso un diagramma frattale dove, a qualsiasi scala lo si osservi, i meccanismi ordinatori e le conseguenti immagini risultate restano costanti, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo e viceversa. Se ne potrebbero trovare le radici, tanto esplicite quanto inconsapevoli, in diversi passi di Plotino113, oltre che in quello già citato114. Così i personaggi che popolano quella specie di imbuto pronto ad inghiottire noi già edotti spettatori, quel Tubo Venturi ante litteram, quel megafono che ci grida amplificata la voce di un qualcosa altrimenti inudibile, nella loro pittorica datità, interpretano tanti ruoli quanti sono i gradi del processo necessario per giungere dall’ente supremo fino a noi. Gradi nei quali, quindi, in un determinato istante dell’osservazione, stanno transitando. E se la bellezza è, in assoluto, come vuole Ficino, il raggio del cerchio che si sviluppa dalla Bontà115, c’è un livello di osservazione dove essa stessa è il centro irradiante, con tutte le conseguenze gerarchiche che la regola complessiva impone. E così via, in un continuum ritmato tra centro e periferia, fino alla comprensione della totalità del mondo.


Che al centro ci sia Venere, anzi, per l’esattezza, il ventre di Venere, così rilevante che c’è chi l’ha, non immotivatamente, diagnosticato gravido116, rimane però una invenzione talmente felice che ogni chiarimento letterario o filologico scivola inevitabilmente verso la più arida pedanteria. Ridurre la questione al fatto che nella scala discendente dal Bene al Tutto, a causa di quella specie di frattalità ante litteram, da qualsiasi punto prenda origine l’osservazione, il modello micro-cosmico osservato sarà in tutto e per tutto conforme a quello macro-cosmico e viceversa, non fa che ribadire la grigia inadeguatezza di un modo di pensare da “certi farisei”117 a confronto con l’intensa luce trasmessa dalla grande arte.

Percepire il perché, nelle menti di Ficino e Botticelli, nella scala della divina armonia si sia puntato il dito sulla chiave della bellezza, vorrebbe dire aver capito tutto sulla grandezza del Rinascimento, sui suoi presupposti, e sulle travolgenti conseguenze che avrebbero mutato irrevocabilmente la storia dello Spirito. Erano consapevoli che, dopo aver imposto la “Chiave di Venere” per la lettura dell’armonia cosmica il mondo non sarebbe più stato lo stesso? Più di una congettura fa pensare affermativamente, anche se si potrebbe disquisire in eterno su di una effettiva volontà provocatoria, o su tardive prove di riconciliazione, se non di pentimento, verso una imperante religiosità scletorizzata.

È una scelta comunque che, volendo, potrebbe sconvolgerci ancor più per la sua esattezza scientifica che per quella identificazione poetico-religiosa che ne ha generato l’esito immortale. L’essere, impartecipabile, è privo di forma anche se ne è l’origine. Forma delle forme, sta incommensurabilmente oltre ciò che chiamiamo forma. Ma a quanto vediamo puntando nella sua direzione gli strumenti della nostra visione intellettuale, gli occhi interiori, a questa forma primigenia percepita noi diamo il nome di Bello118. Venere è l’orizzonte degli eventi che i nostri strumenti esplorativi non possono oltrepassare.

C’è, paradossalmente, un profondo rispetto religioso in questa scelta apparentemente profana compiuta da Ficino e Botticelli, probabilmente più che in coloro che hanno preteso di rappresentare Dio, o l’arzigogolo mistico, teologico, non spazializzabile, della Trinità cristiana con i comuni artifici delle umane arti. La Dea dell’Amore muove qui i suoi primi, impercettibilmente ben cadenzati passi, sotto il segno del riscoperto Platone. E la deriva, legittima, forse necessaria, che la riconsegna quasi immediatamente al ruolo di simbolo, anzi, di vessillo, di sfrenate passioni in cui ardono della stessa fiamma maturi capitalisti finanziari, come Agostino Chigi, o arrampicatori di titoli nobiliari, come Federico II Gonzaga, o – già da qualche anno addietro l’invenzione botticelliana – tormentati uomini d’arme come Sigismondo Pandolfo Malatesta, non può, per un sottile gioco di aristocratica innocenza, esserle volgarmente attribuita. Ci importa, questo sì, che in nome delle Dee più o meno celesti che agitavano i sonni di simili cavalieri siano stati eretti templi che, ancora ai nostri giorni, trasmettono trionfalmente la potenza e la bellezza dell’amore.

Ma la Dea che qui guida la danza non è ancora l’ammaestratrice di tanti fortunati amori o, almeno, non lo è esclusivamente. E forse fu proprio per questo motivo che Botticelli, complice una sofistica poco platonica ma molto reale, sempre in agguato tra i frequentatori dei filosofi e delle corti, fu costretto, non si saprà mai quanto controvoglia, ad ovviare col quadro immediatamente successivo.

Con la sua solita dovizia di documentazione Gombrich compila un elenco di quindici commenti sulla figura di Venere da parte di altrettanti studiosi119. Ma dietro l’ostentata flemma del neutro collatore si guarda bene dal far emergere motivi che, anche solo lontanamente, possano ricondurci a un demone, a un dio socratico, a un furor ficiniano, a una convinzione entusiasticamente raggiunta. Così, tra gli elencati, B. Marrai, con la sua sensazione di “pregnanza”, o G. N. Plunkett, che ci introduce nell’ambito di ciò che “si conviene alla madre della razza umana”, restano esempi tra gli esempi, irrelati a quello che potrebbe essere un pensiero portante, vissuto fino in fondo, da parte dell’eruditissimo successore di Warburg. Peccato, perché un illuminante riscontro avrebbe potuto essere trovato nell’unico pezzo che brilla nell’altrimenti noiosa e tutt’altro che felice ekphrasis apuleiana. “Io sono la genitrice dell’universo”120, Apuleio fa esclamare a Iside. L’autopresentazione della Dea nella favola sull’asino viene riportata da Gombrich meticolosamente: c’è tutto ciò che ci deve interessare, è impossibile che il raffinato viennese non se ne sia accorto, ma non rinuncia a diluirne la sostanza nel solito brodo dell’usato, sano scetticismo.

Qui, comunque, anche l’esegeta più ardito avrebbe dovuto fermarsi. È qui che lo strumento, anche il più sofisticato, cozza contro l’orizzonte degli eventi. Plotino e Proclo si sono prodigati a spiegarcelo.

Nel ricco elenco di Gombrich, tra gli inflattivi modi escogitati per afferrare ciò che gli occhi percepiscono in quella figura che riempie di sé il “Vestibolo del Bene”121 e spremerne qualche inedita qualità, non c’è traccia del percorso opposto: quali possono essere state le indicazioni programmatiche per graficizzarla, o glifizzarla? Voluto il “Protiro di Dio”, come determinarlo? Ficino non ha dubbi, e così si esprime in quel passo cruciale nel quale ci siamo più volte, per forza di cose, imbattuti: “Così Dio in virtù del suo essere, che è, per così dire, il centro semplicissimo delle cose, da cui tutte le altre si dipartono come delle linee, con un facilissimo cenno, muove tutto ciò che da lui dipende”122. Letto ora, sembra che parli già al suo collaboratore-artista.

Fin qui il gesto, la posizione. Ma un altro nucleo ottico-concettuale aleggiava già nella mente del filosofo, scoperto in Platone123 e prontamente ripropostogli da Proclo fin dalle prime righe della sua opera maggiore: “ἀγαθοειδής”: “di forma simile al bene”124. È lecito pensare i due intellettuali quattrocenteschi disquisire su questo primo, decisivo “glifo”, ed ottenerne quel risultato che ben conosciamo?




LA TRIADE



Gli appunti manoscritti sul codice di Matthieu Camariotès risalgono con ogni probabilità al 1463125. É lecito supporre che nel corso dello studio di Platone, iniziato l'anno precedente, i tre termini della triade, celati quasi sottotraccia nel Filebo, abbiano potuto passare inosservati all’ancor giovane studioso figlinese. Ora invece, in quelle parole non destinate alle stampe, sembra quasi di avvertire il riverbero dell’enfasi data da Proclo alla sua decisiva scoperta: “Fluunt a primo uno duo principia abstracta ab ente, scilicet finitum et infinitum, post que est mixtum ex utroque quicquid sequitur in entibus”126. “Discernitur”, “sequitur”, “Sequitur post”127, “è discernibile”, “segue”, “segue poi”, la triade dei principi causali che, diciotto anni dopo, confluirà, costituendone l’ossatura, in quella invenzione visiva che accompagna e sigilla il primo periodo degli studi di Ficino: “ens”, “vita”, “intellectus”128.


Della forma triadica è così intrisa la storia del pensiero occidentale che tre dei suoi massimi autori, in epoche e aree geografiche lontanissime tra loro, vi hanno dedicato le loro più significative opere. Non sarebbe eccessivamente fantasioso leggere quei monumenti dello Spirito come una unica immensa trilogia che ne marca il ritmo più accettato: antichità, medioevo, modernità. Ipotizzando il quadro che stiamo osservando come la prima rappresentazione della triade emancipata dall’usuale dogma della trinità, il ruolo di cardine culturale, o di fulcro storico già implicito nel rinnovato culto di venere, ne conseguirebbe una ulteriore e decisa conferma.

Nell’incommensurabile poema di Dante, la triplicità che lo impregna si dispiega come simbolo che ammanta la sterminata moltitudine delle anime, ad essa sottoposte, nel bene come nel male, ipostasi immobile e sovratemporale, oggetto solo di fede e non di conoscenza, in ossequio alla religione dichiarata del poeta.

In Proclo la triade è eminentemente motrice, ingranaggio incessante che scardina la monolitica compattezza dell’origine per proiettarne nella “potenza” l’infinito ma geloso “atto”. Questa necessità proto-immanentistica che, come un efficace lubrificante, impedisce al complicato meccanismo dell’ultima teogonia di incepparsi, conoscerà in Hegel, milletrecento anni dopo, la sua massima espressione e, nell’assoluto ateo e autoreferenziale della sua logica, il suo trionfo.

In queste due opposte visioni del mondo, quello della rivelazione e quello della immanentistica pagana e neo-pagana, risiede, forse, il nocciolo di una contraddizione che Ficino, e con lui tante anime belle che in quel secolo d’oro sognarono una definitiva conciliazione tra fedi e popoli, si sono trascinati dietro per consegnarla, irrisolta e irrisolvibile, a quegli attori che, nei secoli successivi, ne avrebbero vissuto l’intero dramma sulle proprie carni.

Ma il punto da tenere fermo nel presente studio è che la triade procliana, quella definitiva, proposta come conclusione di tutta la filosofia platonica, nell’anno 1482 era stata individuata con assoluta chiarezza. Se è presente un nocciolo duro nella filosofia di Proclo espresso con incisiva determinazione, in un contesto che altrimenti non può che apparire come arena per le più ardite avventure ermeneutiche, questo è la sua triade; fondamento, pilastro, e motore, di ciò che Giovanni Reale non avrebbe esitato a definire, con la supponenza di una pretesa superiorità storica e teologica raggiunta, “un raffinato, ma assai fragile castello di carte”129, e, non contento, poche pagine dopo: “un grandioso castello di carte, assai fragile”130.

Proclo usa tre coppie di termini per definire la sua triade. Il primo termine di ciascuna coppia ne è il referente ontologico o, come spiega lui stesso, la “monade universale”. Il secondo termine, o “principio causale” secondo la sua definizione, rappresenta l’aspetto temporale-meccanico, l’entità che, altrimenti astratta, ne estroflette la vocazione partecipativa. Le tre coppie sono: ουσία-μονή; ζωή-προόδου; νοῦς-ἐπιστροφή131. Ficino, riprendendo la terminologia già usata nel codice riccardiano e confermandola nella propria teologia, traduce con: Ens-maneant; vita-procedant; intellectus-convertant132. Michele Abbate rende: essenza-manenza; vita-processione; intelletto-conversione133.

A ciascuna di queste tre coppie Proclo associa infine una terza annotazione, una specie di battesimo per antonomasia che ne descrive la principale qualità. Questi attributi, imprescindibili per il pittore quando voglia “immaginare” il concetto, sono i seguenti: ἐφετόν - desiderabile (l’ente), ἱκανόν - adeguato (la vita), τέλειον - perfetto (l’intelletto)134. Sarà bene tenerli in mente, perché saranno loro, nei paragrafi successivi, a fare da guida nella ricerca di “desiderabili”, “adeguate” e “perfette” ekphrasis.


Resta incredibile lo smarrimento di uno studioso come Edgar Wind, incapace di ancorarsi a questa definitiva acquisizione di Ficino, basicamente ortodossa per qualsiasi platonico, per disperdersi in un labirinto di estensioni analogiche, metaforiche, e artistiche, elaborate dall’ingegno del fiorentino e del suo ammiratore-rivale Pico della Mirandola, quest’ultimo giunto a Firenze nel 1484, a giochi “triadici” ormai conclusi, che di quelle elaborazioni letterarie e cortigiane si era esclusivamente nutrito. Resta incredibile che sulla debolezza di queste interpretazioni il tedesco fondi gran parte della sua confusa lettura mitologica.

E resta incredibile come sarebbero bastate suddivisioni meno cervellotiche delle arbitrarie e formalistiche triadi destra-sinistra di Wind135 per proiettare immediatamente, attraverso l’unica triade reale che deflagra dall’unità di Venere, il capolavoro botticelliano al ruolo di emblema – avrebbero detto allora “cosmico”, diciamo noi ora “storico” – che gli spetta nel flusso trinitario della cultura occidentale.




AMORE



Al vertice superiore del triangolo equilatero che si ottiene dividendo in tre il cerchio della mente, al posto, quindi, della μονή e della ουσία, Botticelli ha dipinto Amore.

Possiamo supporre una perfetta sintonia con l’amico filosofo: (…) si dice che lo Amore regna innanzi alla necessità: perché lo Amore divino a tutte le cose nate da lui, ha dato origine.”136 Vedendo, in seguito, cosa il Ficino intendesse per necessità, e come la volle rappresentata, la “incarnazione” del ruolo sarebbe già più che comprensibile.

Amore è la prima figura in cui si scompone l’essere impartecipabile dell’Inizio. La filiazione è tanto scontata da suonare più tautologica che deduttiva. Se mai ci fosse bisogno di una conferma per percepire la tonalità, l’aura rinascimentale di tutto l’apparato intellettuale che il quadro rispecchia, la posizione di Amore al suo interno spazzerebbe via ogni dubbio.

Chiave di volta di tutta la complessa architettura, Spirito Santo ante rivelazione (quindi più eterno dell’eterno), Amore occupa qui, sulla superficie dipinta, il posto che, per i sensi, il Sole occupa nel cielo.

Dal Simposio di Platone, testo originario che gli assegnò quel ruolo da cui nessuno mai più l’avrebbe scalzato, Proclo, nella sua Teologia, cita: “non è possibile ottenere un aiutante migliore di Amore”137. E più avanti, ribadendo, e chiarendo, lo stretto legame tra le realtà prime e le seconde: “Dunque l’elemento che riunisce alla bellezza divina tutte le realtà inferiori e le raggruppa in una familia (…) a mio giudizio (…) non è altro se non l’amore”138. La valenza grafico-pittorica, quindi la sintesi da condividere con il pittore, può essere trovata in annotazioni tanto puntuali da suonare quasi disarmanti. È Ficino che parla, nel suo “Libro del Sole”: “Il Bene in sé (…) ha sempre e dovunque come compagno l’amore”139. E, poche righe dopo, il “tocco” compositivo: “Ma è soprattutto il Sole a poter significare Dio”140. Ci figureremmo alla perfezione il ruolo giocato qui da Cupido quando ne afferrassimo l’insospettabile ma non per questo meno intima parentela, la primogenitura, con lo Spirito Santo incontinente di luce che inonda la Cattedra di San Pietro del Bernini.


A questa prima entità della Triade che ha ottenuto scomponendo il Bene e che Ficino e Botticelli hanno dipinto con le forme dell’alato fanciullo saettante, Proclo assegna un nome che corrisponde all’aggettivo che meglio la qualifica e la determina: “Desiderabile”141. Le parole con cui viene descritto il Desiderabile sono quasi un duplicato di quelle con cui è stata descritta l’entità prima: nel fanciullo la qualità altrimenti “complicata” della Madre, secondo la corretta regola triadica, permane, e si esplica in quella forma alla quale il Sole, per posizione e azione, più si avvicina.


Ma se si deve dire in breve la proprietà del Desiderabile: come il dispensatore della luce procede con i suoi raggi verso le realtà seconde e fa rivolgere verso se stesso gli occhi e li rende di “forma simile al sole”142, e somiglianti a se stesso e attraverso una somiglianza di altro genere li connette ai propri fulgori, così, a mio giudizio, anche il Desiderabile proprio degli dèi solleva tutte le realtà e le trasporta in alto verso gli dèi in modo ineffabile con le proprie irradiazioni, (...). Dunque di tutti quanti gli enti è il punto centrale, e intorno ad esso tutti gli enti e tutti gli dèi hanno ad un tempo le essenze, le potenze e le attività. E la tensione verso di esso ed il desiderio da parte degli enti sono inestinguibili. Infatti, pur essendo inconoscibile e incoglibile, gli enti bramano questo Desiderabile. E dunque non potendo conoscere e cogliere ciò che bramano, tutti danzano intorno a esso, e da un lato con travaglio riescono per così dire a presagirlo, dall’altro ne hanno un desiderio incessante e continuo, poiché si sentono privi della sua natura inconoscibile ed ineffabile, non potendo abbracciare e stringere a sé il Desiderabile. Infatti, pur trascendendo insieme tutti gli enti, è in ugual modo in tutti presente e li muove tutti intorno a se stesso, pur essendo per tutti incoglibile”143.


Al sommo dell’archivolto del Tempio dedicato al “primo e più bel modello dell’universo”, Amore, a noi successivi osservatori, sembra quasi porsi come centro di un’altra emblematica grande triade della cui ambiziosa impalcatura, forse, neanche alla cerchia di Ficino era sfuggita la trascendenza storica. Delle innumerevoli triadi che costellano gli scritti di Ficino, quella con cui esordisce Giovanni Cavalcanti già nelle prime righe di “Sopra lo amore”, che ha l’onore di funzionare da chiarimento introduttivo, ha innanzi tutto il compito di fugare ogni dubbio sugli eccessivi scollamenti dalla realtà di uno schema così consono a “qualunque platonico filosofo”. E lo fa con la più oggettiva delle osservazioni: in ogni cosa sono da considerare tre parti che, più o meno, coincidono con il passato, il presente, il futuro. A parte il fatto che in questo passo Ficino insegna la giusta lettura di ogni figurazione triadica, che parte dal centro (presente) e si irradia ai lati (passato e futuro), la lode intessuta da Cavalcanti ha per esempio Amore, il tema dell’intera operetta, e, in particolare, la sua storia: la sua eccellenza attuale, quel che gli va innanzi in quanto antichissimo, quel che ne segue, dove apparirà la sua meravigliosa utilità144.

Dato ai nostri occhi il “presente” di Amore, così come e dove l’accademia di Careggi l’ha voluto e dipinto, non è impossibile fantasticare sul “prima” e sul “dopo” che ne descrivono l’arco di tempo che è, a ben guardare, l’intero arco della Rinascita – come se la rinascita dell’antico fosse coincisa con la rinascita dell’Amore – e contemplarlo tutto intero, dalla nostra abissale distanza, nella sua meravigliosa unicità. È Ficino stesso a guidarci verso il passato di questa intuitiva triade attraverso l’elogio di Guido Cavalcanti, antenato del suo diletto Giovanni, che, secondo le parole che fa pronunciare alla voce di Cristoforo Marsuppini, da filosofo, tutte queste cose artificiosamente chiuse nelli suoi versi”145. Dolce Stil Novo, quindi, come passato e prima pietra. E, forse, al suo vertiginoso culmine, sarà “l’amor che muove il sole e l’altre stelle” a sigillarne lo sfolgorante incipit (“amore – id est Spirito Sancto”146 chiosa Cristoforo Landino, nel suo commento alla Divina Commedia, giustificando implicitamente la collocazione del genietto bendato all’interno della rivoluzionaria composizione religiosa di Botticelli).

Ma è nell’allora imprevedibile “dopo”, alla fine della parabola discendente, che trova compimento, e commento, la sospetta nonchalance con la quale il pittore fiorentino aveva tratteggiato il piccolo arciere. Cent’anni dopo il quadro, tra le fiamme galanti di manierati spunti poetici accese per la celebrazione di donne amate, e le fiamme reali in cui si volle veder ardere chi in questa rivoluzione troppo umana ha creduto fino in fondo, un sonetto, di cui Giordano Bruno è tanto convinto da ripeterlo identico in due dei suoi scritti più importanti, ci riconduce, da spettatori ormai quasi annoiati, a una scomoda verità che nemmeno gli iniziati responsabili dell’infantile geroglifico avrebbero voluto riconoscere:


Amor per cui tant’alto il ver discerno,
ch’apre le porte di diamante nere,
per gli occhi entra il mio nume, e per vedere,
nasce, vive, si nutre, ha regno eterno.
Fa scorger quant’ha il ciel, terr’, et inferno,
fa presenti d’absenti effigie vere,
repiglia forze, e col trar dritto, fere,
e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno.
O dunque, volgo vile, al vero attendi,
porgi l’orecchio al mio dir non fallace,
apri, apri, se puoi gli occhi, insano e bieco:
fanciullo il credi perché poco intendi,
perché ratto ti cangi ei par fugace,
per esser orbo tu, lo chiami cieco147.


Così, tra un volgo vile accecato dai prodromi di quella incontinenza di cui si è detto, ma che già si manifestava in quel febbraio del 1600 in tutta la sua impetuosa debordanza, così, apparentemente, termina l’avventura tripartita del defilato pargoletto che gli umanisti fiorentini vollero ricondurre, e dipingere per la prima volta, al posto che gli spettava




LA PRIMAVERA



Il personaggio che occupa la seconda stazione del primo cerchio è una donna, anzi, una bellissima donna, che la tradizione chiama “Primavera” e i più smaliziati Flora. È forse uno dei più bei visi femminili, sicuramente uno dei più evocativi e emblematici, della pittura di tutti i tempi. È ritratta alla sinistra di Venere, in posizione avanzata rispetto a quest’ultima, e cammina lungo una linea retta che interseca il quadro prospettico di circa 45°, verso l’esterno.

Sul perché dell’avanzamento si è già detto: è la conseguenza dell’essere “emanato”. Dire che la bella donna “procede” è fin banale. Se di allegoria si deve parlare, questa donna è l’allegoria della “processione”, o προόδου.


Sulla disposizione destra e sinistra (da parte dei protagonisti del dipinto: d’ora in poi ci si riferirà sempre a questo orientamento, contrario, quindi, alla percezione dell’osservatore) si dovrà risalire a due veloci, e apparentemente marginali, osservazioni di Proclo nelle pagine conclusive della sua opera maggiore. Sia all’azione del sole, sia a quella delle Moire148, ultime attrici di quella impetuosa cascata di personaggi che ha fin qui descritta, sulla scorta di Platone, Proclo associa la figurazione anatomico-poetica delle mani, come mezzi elargitori di essere dagli enti precedenti a quelli successivi, alle valenze diadiche della generazione e del ritorno. La Moira che agisce solo con la mano sinistra è Atropo, l’“inevitabile”, quindi la “necessità”. Ficino, attentissimo ad ogni sfumatura ermeneutica dei testi dei suoi maestri, non può che collocare la Primavera, o Flora, a sinistra di Venere. Il primato morale della mano destra, di conseguenza qui assegnato all’intelletto, e la subordinazione della sinistra, associata alla vita, informerà di sé i dipinti moraleggianti incentrati sul bivio, o “Y” pitagorica, come il “sogno del cavaliere" di Raffaello o i vari “Ercole al bivio”.

(Sarebbe interessante sapere, nel dipinto che Ficino volle su di una parete dell’Accademia, chi, tra l’allegro Democrito e il triste Eraclito, avesse goduto il privilegio di stare alla destra del mondo149).


I significati del “dritto” e del “circolo” hanno invece in Proclo ben altro e più strutturato rilievo. Il capitolo 8 del libro VI contiene, sotto forma di commento a un passo delle “Leggi” di Platone150, una pagina fondamentale all’interno della sua teologia. Qui, applicando quello che lui stesso aveva definito il metodo pitagorico151, “immagina” il suo pensiero attraverso l’utilizzo di forme geometriche elementari, la linea retta e il cerchio, forme già menzionate152 ma non ancora definitivamente chiarite nel rispettivo ruolo. È un passaggio che non solo rimarca il significato di quelle figure, ma cela in sé, dispiegandolo in una scenografia quasi plastica, quasi tangibile, l’intero impianto concettuale di un’opera così vasta e, a prima vista, così dispersiva. Come per le precedenti annotazioni sulle mani, anche qui ci troviamo in quegli ultimi capitoli dell’intera opera ove la discesa degli dèi dalle precedenti vette inaccessibili richiede una determinazione figurativa più vicina ai nostri sensi.

Ed inoltre il «portare diritto a compimento» e il «compiere la rotazione secondo natura» significano rispettivamente la processione della totalità dell’universo a partire da Zeus (infatti il «diritto» è simbolo di processione), e la conversione verso di lui (infatti egli, permanendo in se stesso ed essendosi convertito verso se stesso in modo intellettivo, fa convergere tutte le cose in direzione «della sua propria specola»)”153.

<il Demiurgo> in base a queste duplici potenze genera due sorte di dèi: l’uno dà ordine al sensibile in base al «diritto» che è in lui, mentre l’altro in base al «circolare» eleva tutti gli esseri verso di lui”154.

“(...) il primo è atto a definire il movimento che procede verso tutte le cose e che dà ordine a tutte per mezzo di limiti, di forme e di rapporti, il secondo invece è atto a definire il movimento che si arrotola su se stesso e che richiama a sé tutte le cose”155.

Argomenti che trovano Ficino particolarmente ricettivo:

Se (Dio) regge il moto degli animali, essendo esso per sua natura progressivo, lo aiuta ad avanzare. Se guida i cieli, essendo per natura portati a ruotare a causa della loro sfericità, li aiuta a muoversi secondo un’orbita circolare”156.

E, ormai nella fase conclusiva della propria opera:

“(…) essi (i platonici) ritengono che la difficoltà della vita umana è accresciuta dal fatto che il moto e la disposizione dell’anima, in quanto è intellettuale e razionale, deve essere di tipo circolare. E analogo deve essere anche il movimento e la forma del veicolo etereo. Invece nel corpo composto l’anima nel vivificare, percepire, perfezionarsi, messo da parte il movimento circolare, in certo modo diviene soggetta a un moto rettilineo”157.

É, alla fine, lo stesso lessico geometrico che, prima di Ficino, Cusano aveva proiettato sullo schermo della sua metafisica, il distillato esplicativo della sua simbologia trascendentale. Così lo riassume Graziella Federici Vescovini nella “Storia della Teologia”:

I problemi matematici e la loro trattazione hanno una utilità trascendente nelle figure teologiche, perché nelle figure del circolo, del triangolo, della rettitudine, della circolarità egli (Cusano) spiega applicate a Dio, si trova il complemento di ciò che possiamo sapere”.158

Ce n'è a sufficienza per completare la visione della struttura che regge il quadro.

Guardando con attenzione il triangolo del Nous inscritto nella prima circonferenza, individuati il circolo orizzontale centrato nell’angolo inferiore destro sul quale ruotano le Grazie, e la retta orizzontale obliqua passante per l’angolo sinistro su cui avanza Flora, concentrandosi su questi due movimenti, alla luce dei significati accettati in ambito platonico-pitagorico, il senso complessivo del carillon mnemotecnico di Ficino e Botticelli avrà svelato quasi l’intero suo mistero.


Ma quella ninfa che incede obliquamente alla sinistra di Venere, e al cui volto associare, anche se del tutto immotivatamente, il nome di Simonetta procura un sottile brivido, vive innanzi tutto dei significati che spettano alla seconda voce della triade. Primavera o Flora, o Simonetta, o tutti gli altri nomi che le vogliamo attribuire, la bella ninfa occupa, come si è detto, il posto di ζωη-προόδου, cioè vita-processione.

Ribadito che ciascun terzo della triade ripete le sue peculiarità identiche a se stesso a partire dagli dèi intelligibili giù giù fino agli ultimi dei encosmici, dalle determinazioni elencate da Proclo si ricava un ritratto completo dell’attore qui rappresentante. Il passo ove Proclo associa l’aggettivo “adeguato” alla coppia vita-processione (come già aveva associato “desiderabile” alla coppia essenza-manenza) costituisce una più che esauriente descrizione normativa di Primavera, o Simonetta, o Flora.

“ (...) l’ “Adeguato” è colmo della potenza simile per forma al Bene, e procede verso tutte le cose, e tende e porge i doni degli dei a tutti gli enti. Tale riteniamo infatti che sia l’adeguatezza, una potenza che si diffonde e si estende fino alle ultime entità, e che rivela la volontà priva di invidia degli dèi, e che non rimane ferma su se stessa, ma che raccoglie in modo unitario il carattere sovrabbondante, inesauribile, illimitato e generativo dei beni della realtà divina. (...) l’Adeguato dà inizio alla processione e alla moltiplicazione della totalità dei beni, ed invita e suscita l’originarietà dell’uniforme realtà del Desiderabile verso sovrabbondanza generativa (...)159.

La pro-mozione nell’aggettivo “adeguato” del binomio processione-vita si arricchisce nel passo di due altre voci complementari – se non sinonime alla radice del loro essere – che ne completano il modo di porsi. La prima voce è la “potenza”, con tutta la pregnanza filosofica che la parola implica in ogni riflessione post-platonica e post-aristotelica. La seconda è l’“illimitato”, il secondo termine della triade primigenia individuata nel Filebo di Platone. La coincidenza dei due principi in quella che Proclo chiama “sovrabbondanza generativa” ben si presta alla elaborazione pittorica che Botticelli pone sotto i nostri occhi.


Scendendo di grado, come per tutte le voci della triade, si incontrano in Proclo le qualità sempre più esplicitanti, in termini di umana comprensione, delle proprietà intelligibili altrimenti non ancora personificabili nella forma statuaria di una Dea o di un Dio.

Nel capitolo 10 del libro IV, l’individuazione si fa decisamente puntuale. Il centro della seconda triade del Nuos, quindi la processione degli dèi intelligibili-intellettivi – processione della processione, in pratica – è contemporaneamente, geometricamente, il centro di tutte le discese del Nous stesso, il punto medio tra l’essere impartecipabile e l’anima divina. Il concetto di processione-vita si trova quindi, direbbero gli astrologi, nella sua propria casa, con l’effetto che le spettanti proprietà risultano definite e valorizzate al massimo.

Ed inoltre la prima triade è risultata paterna (infatti è in base alla divina unità e al limite che è venuta a sussistere, ed è limite degli intelligibili tutti, limite che è segreto e supremo); questa altra triade invece è materna, in quanto è venuta a sussistere in base all’illimitatezza e a quella potenza.

Questo ordinamento infatti è femminino e generatore ed ha la proprietà di produrre tutti gli enti per mezzo di potenze intelligibili. Ed è proprio in considerazione di ciò che Platone ha chiamato esso «luogo» nel senso di «entità atta ad accogliere» delle cause paterne ed in quanto partorisce e spinge le potenze generatrici degli dèi a far sussistere le realtà inferiori; in effetti, dopo aver denominato la materia «luogo delle forme», egli la chiama «madre» e «nutrice» di principi causali che procedono verso essa a partire dall’essere e dalla causa paterna”160.

“(...) è con le proprie potenze generative ed originarie che fin da principio ha trattenuto e continua a contenere in se stessa tutte le processioni delle entità derivate, le loro forme di molteplicità e la loro varietà”161.

Il richiamo al primo termine della triade, il “limite”, e alla sua connessione con l’idea di mascolinità, completa una figurazione che poco aggiunge alla costruzione della μονή.

Invece il “carattere femminino” introduce all’ambito immaginativo fondamentale, che tutti gli altri compendia e riassume, per descrivere la processione. Carattere all’interno del quale è implicito, quasi tautologico, il ruolo di “madre”, così come, inoltrandosi nella specificità dell’ambito, se ne giunge inevitabilmente alla radice ipostatica “denominata materia” o “luogo delle forme” (“ὒλην τόπον ειδων”)162.

Il mascolino è analogo al limite, mentre il femminino è analogo all’illimitato”163 conferma Proclo poche pagine dopo.

È la femmina, afferma Proclo164, la femmina come “alterità”, a separare l’essere e l’uno, a sbriciolare “l’essere in enti molteplici e frammentare l’uno nelle enadi più particolari”165. È la femmina che “incita l’essere a processioni”166. Sia pure la deificazione di una eternata polizianesca Simonetta, ma da questa fanciulla, “in pie’, con di fior pieno un grembo”167, la tremenda coppia Ficino-Botticelli pretende, a ben guardare, un compito che avrebbe fatto tremare di sgomento la giovane morta sei anni prima.

Infine, procedendo, avvicinandosi ad una individualizzazione sempre meno astratta della funzione pura fin qui delineata, Proclo utilizza per la prima volta, invece della qualità, il nome proprio. I “Padri intellettivi” sono proiezioni nell’universo nominalmente definibile dei principi unificatori innominabili. È a questo livello che la trascendenza, pur rimanendo tale, si piega, con il nome, a ricevere quella forma figurata che chiamiamo Dio. I tre dèi della zona intellettiva sono Crono, Rea e Zeus168. Per il primo, Crono, come per il concetto di limite, nulla di normativo viene aggiunto, per ora, alla immagine della μονή come era stata già rappresentata. Ma nel tragitto che stiamo ora seguendo, che è l’iter della processione, Rea è la figura in cui ci siamo imbattuti: “causa intellettiva generatrice di vita”169, la definisce il filosofo, nel caso ce ne fossimo dimenticati. “Essa fa dono anche agli esseri viventi mortali dell’elargizione della natura”170, riassume. Siamo probabilmente al cospetto dell’immagine che più calza con la creazione botticelliana: Rea è il primo nome, teoricamente motivato, che potremmo assegnare alla “Primavera”.

Ma, per secondo, segue subito “Demetra”: “secondo Orfeo, la divinità intermedia, in quanto è unita a Crono (…) è chiamata Rea, invece in quanto introduce Zeus (…) è chiamata Demetra”171. Rea e Demetra sono la stessa cosa, la stessa entità, ed è con questo secondo nome che la raffigurazione della προόδου si relazionerà, come si vedrà, all’entità ancora misteriosa che si cela dietro la terza stazione della triade ma, soprattutto, alla sua propria emanazione e figlia che la segue.




LE GRAZIE



Nessuno dubita che le tre fanciulle intreccianti una danza circolare alla destra di Venere siano da identificarsi con le Grazie. Ma il fatto di trovarsi al terzo e ultimo angolo del triangolo iscritto alla base del cono irraggiato conferisce loro una molteplicità di significati che trascende di gran lunga l’aggraziato giochetto che a tanti discepoli di Warburg piacque scoprire in Seneca. Anche l’entusiastica, forse tardiva, intuizione di Pico, l’unità-trinità del quartetto Venere-Grazie, troppo riassumendo, troppo svelando, non aiuta l’ipotetico osservatore, Lorenzo di Pierfrancesco e-o Semiramide che sia, a quella ascesa subitanea che il sistema botticelliano esige. L’epiciclo in sé concluso rispetto alla macchina pittorica ne contiene l’intera valenza e, alla fine di un percorso che ha visto sgranarsi i ruoli di Venere, Amore, Primavera, simboleggia un ritorno che non ha dimenticato, e non dimentica, le tappe del suo cammino. L’asse intorno al quale ruota il leggiadro gruppo è imperniato nel punto dove ci si aspetta l’ἐπιστροφή. Anzi, l’ἐπιστροφή si manifesta come asse, attorno al quale si svolge la danza. Qui tutto si riflette, diremmo noi, a livello di maggior consapevolezza, a livello, appunto, di intelletto: come Ficino precisa citando Platone, “l’essenza è stabilità”; “la vita è movimento”; “la mente riflessione”172.

Il terzo aggettivo che Proclo associa alla terza coppia, νους-επιστροφής, così come alle precedenti aveva associato “desiderabile” e “adeguato” (e che, non dimentichiamolo, sono le prime aggettivazioni in cui si scompone il Bene), è “perfetto”173.

Il perfetto è in grado di far rivolgere la totalità delle cose e condurla verso la causa in modo circolare, (...)174. Quasi un movimento raccoglitore e riordinatore di una realtà che si era dissipata, a prima vista irrecuperabilmente, nella precedente stazione.

Poi, più avanti, dai massicci blocchi espositivi della sua Teologia, Proclo fa emergere anche per questo ultimo aggettivo idealità identificanti, metonimie che cominciano a individualizzarlo. Completando il parallelismo con la triade del Filebo, dopo le associazioni limite-forma-principio paterno e illimitato-materia-principio materno estroflesse nelle prime due stazioni, il filosofo stabilisce la terza e ultima, quella per la fase convertente: il “misto” come prodotto dei due precedenti principi. Ma, precisa, “Il misto (…) è triadico (…). Il misto è monade, per il fatto che partecipa dell’Uno, ed è triade, nella misura in cui in ogni misto devono trovarsi, secondo Socrate, queste tre entità: «Bellezza», «Verità», «Proporzione»175.

Il modo in cui Proclo ne determina i poetici e filosofici ingredienti176 ci fornisce, in primis, la possibilità di attribuirli alle rispettive dee che li incarnano. In sintesi, Proporzione è la manenza, Verità la processione, Bellezza la conversione.

Attenzione, però, perché il tutto deve essere visto dal centro che lo irradia, quindi da Venere. Solo dal punto di vista del centro, e secondo la stessa logica globale che si ripete, può essere letta la triade riassuntiva, e i tre corpi possono accedere ad un definitivo battesimo.

Accanto a Venere guida la danza Proporzione, l’entità che regna sul misto. L’imperio discreto di questa sicura e posata giovane, il gesto delle braccia e delle mani, l’atteggiamento incoraggiante di governo verso la sorella a destra, e di temperante freno verso quella a sinistra, ne certificano l’intima parentela con la Venere da cui deriva.

Alla sua sinistra è Verità, la quintessenza distillata dalla putrefazione della vita. Il ruolo di Verità, e quindi della Vita, non risulta ancora chiaro dopo la conoscenza di una Demetra rimasta astratta. Bisognerà attenderne gli effetti sulla successione, ovvero sulla figlia, per capire da dove ha origine Verità, e il relativo dramma. Nel quadro Verità, mentre danza con le sue sorelle, sembra, contemporaneamente, muoversi su un immaginario cerchio centrato, come sempre, in Venere, sospinta nel suo moto da Demetra stessa, l’implacabile dispensatrice.

Alla destra di Proporzione è Bellezza. La posizione di Bellezza è la conferma di quanto ipotizzato in questa sede. Bellezza è la chiave di lettura, il punto di partenza: per la costruzione del geroglifico, ma anche per le sue implicazioni sull’intera epoca in cui è stato concepito. Bellezza è l’ultima entità della triade minore così come della maggiore. E, in sintonia con Platone, e con tutto il neoplatonismo precedente a Ficino, ne raccoglie le ricchezze, le testimonia e le trasmette:

Ed il proporzionato è principio causale per il misto del fatto che l’essere è uno, il vero del fatto che è realmente, infine il bello del fatto che è intelligibile. Dunque l’essere in senso primario è intelligibile, realmente essere e più uniforme; e l’intelletto a sua volta risulta unito a esso in base alla sua affinità con il bello”177.

È un passo importantissimo nell’economia dei Platonici. Il bello è principio causale del fatto che l’essere è intelligibile. Quindi, se noi siamo legati all’essere, se riusciamo quasi a percepire l’Uno, lo di deve solo alla bellezza. La bellezza è il tramite tra noi e l’Uno, o tra noi e il Bene. È il ruolo che occupa fin dai tempi del Simposio di Platone. È l’idea centrale del Rinascimento, ed è da questa intuizione che gemma la pretesa di una processione pittorica “in chiave di Venere”.

Bellezza è l’entità che ci risucchia, attraverso il tubo Venturi dell’irraggiamento, verso quell’orizzonte degli eventi ove si infrange la visione. Dove, come sottolinea Landino, anche il “velle” del grande poeta psiconauta, “non potendo io adempiere el mio disio che era contemplare ad perfectione la trinità” si deve accontentare dell’immagine, di una bellezza estrema, ma surrogata: “lo Spirito sancto mi volse a volere quello che io potevo”178.

Detta così, potrebbe sembrare che, vista dalla periferia, la bellezza non sia che un’esca. Ma il nesso che lega Bellezza e Bene è, diremmo noi, “strutturale”, ed ha un nome che Proclo non esita a pronunciare, e a spiegare nella sua funzione: “somiglianza”.

“(...) è necessario che ciò che procede proceda in ciascun ordine naturale attraverso una somiglianza”179

“(...) ciascuno dei principi causali trasmetterà certamente ai propri prodotti generati la sua forma ed il suo carattere specifico (...)180.

E, infine: (...) la diminuzione dell’essenza è un eccedere per via della dissomiglianza rispetto al principio causale e dalla lontananza dal Principio Primo”181

Sono, in fondo, a ben guardare, tre note esplicative delle regole e dei nessi in cui si articola tanto la meccanica della processione quanto quella della conversione. Ma quel che più importa in questa sede è che le tre annotazioni slittano, come spesso accade in Proclo, verso un ambito puramente visivo, incentrato sul valore ottico della somiglianza-dissomiglianza – valore che ben si presta ad essere rappresentato in pittura (e rimarcando, con la terza nota, anche dal punto di vista del dettato grafico, la già rilevata analogia con la teoria del campo fisico e le relative leggi che lo descrivono).

La “somiglianza” è, in sintesi, il nesso che conduce per mano, quasi attributo o strumento di Ermete, attraverso i gradi della conoscenza. É, direbbero gli escursionisti, la staffetta ottica dei segnali posti lungo il sentiero. Non è un caso che Bellezza e Mercurio siano stati raffigurati da Botticelli come due figure speculari, e l’impulso che la fanciulla riceve da Proporzione si proietti, “per speculum”, alla Natura, attraverso Mercurio con l’identico gesto della sua mano destra.


In questo splendido girotondo delle Grazie, che Botticelli ha mirabilmente sublimato traendolo dai, in confronto, goffi tentativi dell’antichità, e che pochi studiosi, se non nessuno, hanno provato a decifrare fino in fondo, sotto l’impassibile sguardo di Proporzione, Verità e Bellezza si fronteggiano. Ma non si identificano, come trecento anni dopo avrebbe preteso Keats. Bellezza sa cosa è Verità, e la guarda negli occhi senza paura. Dalla sua consapevolezza, che qualcuno ha scambiato per voluptas, coinvolge a sé verità-vita e il suo scandalo, e la assolve.


Cedendo alla tentazione di compilare una breve silloge delle espressioni più graficizzabili con cui viene descritto l’intelletto si rischia di cadere nel banale. Fermo restando che anche una visione così esterna può fungere da stimolo e tramite per un approccio più profondo, nell’economia di uno studio che miri a indicare nuovi orizzonti per la comprensione di uno dei quadri più ammirati della storia, se ciò può fornire una ulteriore prova della connessione ipotizzata, vale la pena di rischiare.

“(...) per quale motivo l’intelletto volge verso se stesso lo sguardo ed è in se stesso, se non perché è limitato da ogni parte, converge verso se stesso ed intorno a se stesso raccoglie le proprie attività?”182.

Nel quesito, chiaramente retorico, che già da solo vale l’identificazione dell’intelletto con il gruppo delle Grazie danzanti, l’“architettonica” – in senso kantiano – si somma alla teoresi pura. Il tema è l’invenzione della figura (σχήμα quando, come è enunciato poche righe avanti, il dio sovrano intellettivo, in base al principio causale di “limite e perfezione”, “assegna alle entità indeterminate la determinazione”. È tanto potente la volontà pittogrammatica in questa fase, così conseguente con se stessa e le proprie necessità illustrative, che, subito dopo, con un’altra domanda ugualmente retorica, Proclo si domanda, e ci domanda, il perché dell’uso del sostantivo “sfera” (σφαίρα), archetipo orfico, parmenideo e pitagorico della più perfetta autoreferenzialità e chiusura in se stesso, per definire l’intelletto.

Concetti ribaditi poco oltre:

Tutte le entità intellettive in effetti si compenetrano reciprocamente e sono le une nelle altre in conseguenza di una determinata mirabile comunione, imitando l’unità propria degli intelligibili attraverso la reciproca presenza degli uni negli altri e attraverso la loro reciproca commistione. Ed in effetti lo “Sfero” di quell’ambito è la dimensione intellettiva, che agisce in se stessa ed in relazione a se stessa e che procede verso se stessa (...)183.

“(...) ogni intelletto è convertito verso se stesso, ma, convertendosi verso se stesso, agisce in relazione a se stesso, ma agendo in relazione a se stesso e non in relazione alle entità esterne, è al contempo intelligibile e intellettivo: in quanto ha intellezione, è intellettivo, in quanto è oggetto di intellezione, è intelligibile”184.

Infatti esse (entità desideranti), convertendosi verso se stesse e convergendo in direzione di se stesse, scoprono le loro proprie cause e tutte le entità che sono rispetto ad esse anteriori; e quanto più è perfetta ed uni-forme la conversione in relazione a queste ultime da parte delle entità desideranti, tanto più esse sono in contatto con i loro propri oggetti di desiderio”185.

È impossibile non percepire la cadenza di girotondo infinito in queste parole di Proclo sull’essenza della conversione. Ma tanta enfasi concessa a questa divina caròla avrebbe avuto poco senso senza uno sbocco adeguato: il “ragionamento” (λογισμός). Il filosofo, partendo da un passo del Timeo186, vi dedica alcune tra le sue più ispirate parole. Sono da leggere con molta attenzione, perché, nella omologia ragionamento-Grazie, potrebbe esplicarsi il senso finale, quello morale, dell’intero racconto pittorico.

Ebbene, il ragionamento è intellezione suddivisa che guarda verso se stessa e che cerca in se stessa ciò che è bene. Infatti chiunque ragioni, passa da un pensiero ad un altro e convertendosi verso se stesso ricerca il bene”187

“(l’intelletto) trova se stesso entrando in se stesso, e con ciò ha immediatamente scoperto ciò che è”188.

Dunque il volgersi dell’intelletto verso se stesso lo si chiami ragionamento”189.

Questa immagine di sapore così hegeliano: “volgersi a se stesso”, autoriflettersi, che sta all’intelletto come la “potenza generativa” sta agli intelligibili-intellettivi, non poteva lasciare indifferente Ficino. Nel seguente passo della sua Teologia ne dimostra la totale e convinta assimilazione dell’impianto concettuale su cui si basa. È una compiuta descrizione, assolutamente procliana, di come appare il moto della mente nella sua fase più propria, quella ermeneutica, epistemica e sociale. È, pittoricamente parlando, un testo nel quale è esaurientemente spiegata la presenza delle Grazie in questa fase del processo. Grazie che nella loro immagine consolidata simboleggiano contemporaneamente sia la rotazione che l’autocontemplazione, entrambe illimitate.


“(...) la mente ha la capacità di espandere la propria attività in modo illimitato, senza stancarsi mai. In primo luogo, essa è in sé quasi senza limiti; perché conosce se stessa e perciò la sua intellezione, che scaturisce dalla sua stessa sostanza, nella quale si riflette. Il moto circolare è infinito perché non tende al raggiungimento di un termine estrinseco, per acquietarsi in esso una volta che l’abbia raggiunto, ma torna alla propria sostanza, avido di se stesso. Ora, questo desiderio di sé non si estingue mai. Di conseguenza, la sostanza che, per desiderio di se stessa, si sia una volta aperta la strada verso di sé, e abbracciandosi si sia contemplata da ogni parte, pungolata da un perenne desiderio, continuerà liberamente a contemplarsi in eterno. Dunque, il movimento dell’intelletto, essendo circolare e ritornando su se stesso, in quanto è intellettuale, è senz’altro sempiterno”190.


Discendendo, o espandendosi, attraverso la progressione triadica, al livello dei Padri intellettivi nei quali ci eravamo già imbattuti, dopo i nomi di Crono e Demetra, Proclo assegna un preciso ruolo alla altrimenti remota epistrofé: è quello del Demiurgo, l’amministratore del “misto” e gestore della “proporzione”. Il suo nome è Zeus191. Se associare Demetra alla primavera non è difficile, vedere nelle tre discinte fanciulle il grave Zeus può riuscire imbarazzante se non ridicolo. Eppure la visualizzazione pittorica delle qualità e prerogative dell’intelletto è, in termini mnemotecnici, estremamente efficace, anche se ad esse Proclo ha abbinato una figura maschile, anzi, la più maschile di tutte. É sufficiente, come al solito, seguire passo passo le istruzioni che l’antico scolarca sembra dettare direttamente all’erede fiorentino e al suo magico braccio operativo.

Sul mestiere del Demiurgo: (...) tutte le cose sono messe in ordine dalla più forte delle proporzioni ed il Demiurgo, in base a questa proporzione, fornisce agli interi e alle parti l’ordine indissolubile insito nell’universo e l’armonia proporzionale reciproca”192.

Sul perché la freccia di Amore (Crono tra i Padri intellettivi) è rivolta al circolo delle Grazie: “Crono è l’oggetto di desiderio di Zeus”193.

Il nascondimento, i misteriosi e maliziosi veli deputati ad un sottile gioco di vedo-non vedo: «l’artefice e padre» del cosmo Timeo afferma che «è un’impresa scoprirlo ed una volta scopertolo è impossibile comunicarlo a tutti quanti»194

E, quasi di seguito:

“(...) è difficile da conoscere per le entità che vengono dopo di lui, ma non inconoscibile, ed è celebrato con discorsi misterici, ma non indicibile in modo assoluto”195.

Quanto Ficino fosse penetrato dentro questi misteri e avesse fatta sua l’identificazione procliana Giove-Grazie, lo dimostra questo giudizio espresso sette anni dopo l’esecuzione del quadro, forse in “velata” polemica con l'eccessivamente vezzosa versione pichiana dello stesso tema:

Dunque, per abbracciare assieme in un sol colpo le tre Grazie, finiremo col far ricorso a Giove (...)196.




CLORI E ZEFIRO


Ricordando che, con buona pace della lettura lineare warburghiana, ogni cerchio è causa di quello successivo, in quello ulteriore, dedicato all’anima divina, due personaggi ne occupano gli estremi del diametro orizzontale, in una simmetria compositiva e funzionale raramente messa in risalto dagli osservatori.

A sinistra di Venere, Demetra genera Persefone-Core: (…) la causa divina della vita particolare si è eternamente unita alla forma universale generatrice di vita, che i Teologi chiamano anche “madre” della dea sovrana197, e così anche lo stesso Platone che ovunque a Demetra congiunge Core, e pone a capo la prima come causa rigeneratrice, mentre l’altra la celebra come ricolmata dalla prima e ricolmante a sua volta gli esseri di livello inferiore”198. A destra l’Intelletto invia Mercurio o, secondo le parole di Protagora199 puntualmente annotate da Proclo, “Zeus invia Ermete”200. Sono le due straordinarie figure in cui si riassume l’immane compito dei νέοι θεοί, gli “dei giovani”201. O, per esprimersi come Ficino nei suoi appunti riccardiani, gli “Dei particulares”202. Trovandoci al livello dei creatori del moto, o, forse, della degenerazione “nel” moto, non doveva sforzarsi più di tanto Ficino per concordare la scena con Botticelli. Già nel 1469, nel suo capolavoro “De Amore”, così sintetizzava l’immagine dell’Anima del Mondo e le due funzioni che è chiamata a svolgere:

L’Anima del Mondo, e qualunque altra anima, è mobile cerchio, perché per sua natura, non senza discorso conosce, né senza spazio di tempo adopera: e il discorso da una cosa in altra, e la temporale operazione, senza dubbio moto si chiamano”203.


Nella prima funzione, secondo l’ordine orario di lettura del dipinto o, come direbbero gli esoterici, secondo la via della mano sinistra, quindi nella funzione della “temporale operazione”, il pensiero ficiniano si trova ad affrontare un intricato nodo concettuale. L’intera problematica del pensiero antico legata al moto come rapporto tra spazio e tempo (il moto, e l’intera meccanica, come contingenza degenerativa rispetto a una entità immobile nella sua perfezione, o, volendo, il problema del moto nella sua forma pre-galileiana) è stata risolta nella drammaturgia pittorica in modo sorprendente, fornendoci, se mai ce ne fosse bisogno, un motivo in più di ammirazione per le inedite capacità, quasi l’istinto, dei circoli intellettuali rinascimentali di fondere in un unico pensiero altissima filosofia e altissima arte. Rappresentando l’attimo in cui Core, la dea giovane, incontra l’anima della natura, il sotterfugio grafico-pittorico capace di far scattare il concetto giusto tra gli accoliti raggiunge nella scena di Botticelli una delle sue più alte vette. È il punto in cui l’energia riversata nella fanciulla imprime la geometrizzazione all’informità dello sfondo, ne “condensa” la nientità in qualcosa. Ma, soprattutto, in assoluto, è il punto in cui la legge, il dettato iperuranio, si esplica, o si scatena.


L’azione della coppia comunemente identificata con la ninfa Clori e il vento Zefiro non solo comprime nella drammaticità del gesto la conseguenza necessaria dell’eredità materna, ma fissa e determina nella simultaneità scenica la nozione stessa di “necessità”. Proceduta dalle entità femminili dell’Iperuranio – che Socrate elenca e Proclo registra: «scienza», «giustizia», «verità» e «Adrastea»204 «necessità» attraverso Clori e Zefiro si informa nella natura. Facendo risalire l’ambito della legge al legame Demetra-Core ((…) nelle leggi, celebrando le dee portatrici della legge, (Platone) fa risalire all’unità di Demetra con Core tutta la vita conforme a legge”)205 se ne circoscrive l’imperio alle forme della Vita o, che è la stessa cosa, si costringe la Vita stessa, ad essere, per essere, a loro sottoposta. Infine, nel campo semantico di Adrastea – l’inesorabile – si sventagliano, oltre alle determinazioni individuate da Socrate (scienza, giustizia, verità) altre precedenti, o seguenti, a seconda di come ci si senta platonici o empiristi, che comportano i concetti come “causalità”, “meccanismo”, “dramma”, “violenza”, fino alle dicotomie estreme nelle quali sembra esaurirsi l’esistenza: caos-determinismo e libertà-necessità. La scienza è, attraverso tutta la drammaticità della vita, consapevolezza della legge. E la legge è posta (θεσμός) da Adrastea.


Sembrerebbe, avvicinandosi al bordo del dipinto, essere arrivati fino ai confini del caos, e che quell’essere alato che afferra la fanciulla, e lo sconquasso panico che ne segue, siano prodromi a un annullamento generale dell’ordine che con Venere aveva armonicamente preso forma: “La qualità vacilla, poiché, nello stesso momento in cui nasce si disperde attraverso l’estensione e la profondità della materia, come se si immergesse nel fiume Lete”206. Oppure potremmo parlare di un caos sotto controllo, e cercare conferma, per questo ossimoro di nuovo così pre-hegeliano, in un passo che ci chiarisce, una volta per tutte, cosa nel circolo di Ficino intendessero per “causa” e per “catena di causa ed effetto”.

Ciò si può intuire anche dal fatto che, come il primo in natura, che è Dio, è del tutto attivo e nulla patisce, così l’ultimo, che è la materia corporea, è necessario che patisca da tutto e per se non agisca minimamente su altro, non essendovi nulla al di sotto di essa che da essa possa patire. Se nella somma e infinita unità la potenza attiva è infinita, nella infinita molteplicità non vi è alcuna potenza attiva, ma una infinita natura passiva”207.


Eppure si è voluto che la serie delle varie Clori, Dafne, Euridice, Mensola, Ambra, Procri, Orizia e Persefone, le eterne inseguite che molti identificano con la ninfa botticelliana, subiscano l’azione del loro brutale inseguitore. Quell’intruso azzurrastro che sulla tavola pittorica recita il ruolo che gli stessi vorrebbero essere già appartenuto a Zefiro, Apollo, Aristeo, Africo, Ombrone, Cefalo, Borea e Plutone, l’“eterno inseguitore”, e che pretenderebbero anche come incipit dell’intera azione, è la vita stessa, e si muove nel terzo cerchio in ossequio alla legge che gli è propria.


Ma l’indicazione definitiva dell’intero sistema della natura, quello alla sinistra di Venere, Proclo la fornisce in questa dettagliata visione di Core:

“(...) la Core che è unita a Plutone partecipa in certo modo anche delle componenti poste agli estremi, e d’altra parte ha ottenuto la sua processione in modo specifico al livello intermedio; ecco perché viene denominata “Persefone” in virtù del suo “entrare in contatto”, come si è detto, con la generazione e con le cose che sono soggette a movimento. In effetti i caratteri che si confanno alle componenti poste alle estremità sono, come si è visto, quello della non-mescolatezza e quello della verginità, mentre alla componente intermedia, che si compiace delle processioni e delle moltiplicazioni, appartiene in modo specifico la mescolanza ed il contatto con gli esseri generati. Pertanto questo essere oggetto di un rapimento è il carattere di Core: esso infatti è perfettamente stabilito in lei, ed inoltre rende partecipi gli esseri di ultimo livello di se stesso e della generazione di vita che proviene da esso”208.


È in questa breve riflessione: “Questo essere oggetto di un rapimento è il carattere di Core”, purtroppo mai sufficientemente sottolineata, che si pone la chiave dell’intero sistema della natura secondo Proclo e, di conseguenza, secondo Ficino e Botticelli. Chiave per capirne gli enti e i relativi rapporti: causalità, meccanismo, dramma, violenza. O, determinandosi gli stessi con moto contrario verso l’alto in scienza, giustizia e verità, chiave di ricomposizione nella legge di Adrastea.


Si confronti il passo di Proclo con il seguente di Hegel:

A quello quindi, cui la violenza accade, è non solo possibile di far violenza, ma questa gli deve anche essere fatta; quello che ha potere sopra l’altro, l’ha soltanto perché è la potenza di quello, potenza che manifesta costì sé e l’altro. La sostanza passiva per mezzo della violenza vien soltanto posta come quello che in verità essa è209.

Passo che Hegel aveva precedentemente introdotto con questo giudizio:

La violenza è l’apparire della potenza, ossia è la potenza come un esterno”210

E concluso poche righe dopo:

La causa ha la sua attività sostanziale solo nel suo effetto”211.


Al di là del parallelismo con la addolcita versione ficiniana del concetto: “Le cagioni amano le sue opere, come sue parti e immagini: le opere desiderano le sue cagioni”212, mai come qui, forse, il filosofo tedesco ha manifestato la sua adesione al precedente procliano. Qui, più che nelle succedenti triadi del suo sistema, si visualizza una idea di simultaneità del Tutto che le stesse triadi tendono a mascherare con la necessità temporale del loro procedere. È possibile sostenere che l’intero paragrafo “azione e reazione” in Hegel213 e il mito di Core in Proclo siano il punto dove i due autori si incontrano maggiormente? Il punto, cioè, dove il tedesco ha più convintamente “plagiato” il greco, nel senso che ne ha fatto rivivere l’impostazione globale e totalizzante?

C’è una cosa che è sfuggita ai moderni filosofi sistematici tedeschi, e che forse la scuola iconologica di Warburg nel novecento, nei suoi sforzi più sinceri, ha tentato di recuperare: la costruzione sinottica del Reale, il desiderio platonico, ma anche hegeliano, di conservare ogni premessa all’interno del risultato e viceversa. Il privilegio, in un certo senso, dello “speculum” sull’“enigma”, e di entrambi sul “discorso”. È su questa caratteristica costitutiva del pensiero italiano rinascimentale, la cui massima espressione teoretica vedrà la luce in Giordano Bruno, che è nato l’equivoco di una cultura senza coronamento, quando il coronamento, l’investitura, fosse appunto il giudizio stesso rilasciato da un grande filosofo sistematico, e per sua natura discorsivo.

Riconducendo la parola “speculativo” al suo significato originario di “doppio”, di completa riproduzione visiva di una realtà altrimenti celata, in tutti i suoi rapporti fissi e definiti nell’eternità, il Rinascimento privilegia l’esposizione enigmatico-sincronica alla ragione discorsiva-diacronica, anche se di quest’ultima, con i suoi risultati, costituirà la premessa necessaria ai successivi, moderni sviluppi.

Nulla si presta come la pittura a rappresentare la reciprocità e simultaneità di rapporti in ciò che noi chiamiamo “causa ed effetto” o, più genericamente, “causalità”. Risale a un pregiudizio temporale avere imposto la letteratura e, ancor più, la musica, come massima espressione artistica del reale. Ma è proprio nella successione temporale in cui queste ultime sono costrette a muoversi che la reciprocità intrinseca nell’azione si sclerotizza, costretta di rimando nella camicia di forza della causalità. Neanche la dialettica hegeliana, con il suo muoversi in un continuum spiraliforme e ritornante, riesce, per via della struttura progressiva del discorso, a emanciparsi nella rappresentazione di un Tutto che sia davvero tale.

Il quadro pittorico sfugge a questa logica costrittiva. Il rapporto tra le entità rappresentate – in questo caso la ninfa sfuggente e il vento inseguitore – forza l’osservatore libero da pregiudizi a questa emancipazione radicale. Inseguito e inseguitore stanno fra loro in un rapporto biunivoco che rispecchia, in una strettissima aderenza con la realtà, ciò che Hegel, nella “Scienza della logica”, si era sforzato di stabilire attraverso l’osservazione del meccanismo. Il fatto stesso che il pregiudizio della successione temporale abbia tratto in inganno la totalità dei critici che fino ad ora si sono soffermati sul dipinto, conferma quanto il corrispondente pregiudizio estetico che relega la pittura a un ruolo ancillare rispetto ai prodotti intellettuali sonoro-discorsivi, sia tanto duro a morire quanto altrettanto pregiudiziale di corrette ipotesi di lettura. I nomi di Core e Ade si vincolano reciprocamente nel rapporto di causa ed effetto nella misura in cui la sostanza e l’attribuzione del relativo ruolo si presta ad un continuo e illimitato ribaltamento. Così come Libertà e Necessità si collocano, nella dimensione a-temporale del quadro, in una coincidente parità dove il Reale, metafisico se osservato dal centro, fisico osservato dalla periferia, è un già-scritto, l’Azione è un già-narrato, l’Attimo un già-posto, in una panoramica immobile ove giacciono sotto i nostri occhi, direbbe Cusano, gli opposti e gli opposti degli opposti.

Ovvio che il senso di lettura più immediato, quello proveniente dalla materia che si informa nella fisica, abbia tratto tanti in inganno. Altrettanto ovvio che la lettura diacronicamente corretta non apporti automaticamente a una altrettanto corretta decifrazione dell’immagine, in quanto la causa prima centrale, presupposta, non scatena neppure lei il movimento, ma, semplicemente, “stabilisce”, nel vero senso della parola, l’attimo ipostatico di “causa-effetto” e, oltre, di “libertà-necessità”.

Non è un caso se la magia per Ficino consista in una specie di concordia tra la divinazione e il fenomeno sensibile. Una specie di volontà comune tra Sapiente e natura che il profano non può che scomporre nel tempo vivendola come rapporto illusorio di causa ed effetto214.


Che il punto di incontro tra le entità trascendenti e quelle più vicine alla materia, quindi tra l’anima divina e l’anima naturale, fosse l’argomento che Ficino aveva più a cuore, lo dimostra il seguente passo della sua Teologia. Vale la pena di riportarlo per almeno due motivi. Primo, è un compendio sul tema appena trattato, ovvero la “generazione”, in generale e del moto in particolare. Secondo, se ne ricava quello che è il maggior scarto teoretico tra Ficino e Proclo. Se la Teologia del filosofo tardo antico trattava esclusivamente degli Dèi, la Teologia del pensatore cortigiano quattrocentesco ha per soggetto l’anima umana la cui assegnata centralità, attraverso la personale visione di Ficino, costituirà per sempre la cifra più riconoscibile dell’intero Umanesimo. È in questa differente messa a fuoco degli stessi temi, e non in una pretesa incomprensione di alcuna triade da parte del fiorentino, che risiede la vera differenza tra i due filosofi.

È un passo dove, attraverso la immaginosa poetica, sembra di cogliere la difesa d’ufficio dell’“inseguitore”, il cui ruolo Proclo, tutto preso dalla plastica monumentalità della coppia Demetra-Core, aveva quasi dimenticato.


Essenza, potenza, operazione ed oggetto sono disposti in modo che dall’essenza proceda la potenza e da questa l’operazione, che l’operazione miri all’oggetto e che la tale determinata potenza, cioè la potenza propria, agisca in un certo modo sull'oggetto che è ad essa corrispondente. Non si deve credere che dall’essenza proceda una potenza diversa da quella che risulta ad essa propria, né che dalla potenza venga prodotta una operazione diversa da quella che è per lei naturale, e neppure che l’operazione riguardi un oggetto che non sia quello che è simile, adatto e corrispondente ad essa. Difatti, perché la naturale potenza dell’essere operando desidera un qualche siffatto oggetto piuttosto che un altro, se non perché tale oggetto le è maggiormente proprio, adatto e corrispondente?”215.


È una specularità azione-passione quella che, in nome dell’anima, predica Ficino, esprimendo nel verbo “desiderare”, e negli aggettivi “proprio”, “adatto” e “corrispondente”, l’ambivalenza del desiderio, dal creato al creatore, ma anche dal creatore al creato. Siamo in presenza, compressa in poche parole, di una intera scienza della logica. Essenza: la ragione formale, le forme, i semi. Potenza: la materia informe, o il substrato. Operazione: in-formazione del substrato, assegnazione del limite al substrato – quindi il campo, tutto sommato, della fisica e della magia. Ma a questo processo, apparentemente lineare che sembrerebbe portare senza intoppi dal centro alla periferia, Ficino sovrappone un moto inverso, palindromo, che rivendica al “creato” la funzione di causa del creatore, anticipando in questo modo la meccanica assolutamente speculare della “scienza della logica” di Hegel. È in questo nodo concettuale, presente sottotraccia in Proclo ma esaltato da Ficino, che potrebbe essere giustificata la lettura warburghiana del quadro da destra a sinistra. Questa totale rispondenza, o simmetria, o reciprocità, o specularità, tra il substrato (potenza), informato attraverso l’operazione, e l’essenza (regno delle forme), questa palindromia percepibile alla fine di un procedimento che nella realtà è istantaneo e noi possiamo scandire solo in virtù della ragione, spinge naturalmente l’osservatore più distratto a leggerne solo il moto inverso, fenomenico. E ad accusare Zefiro della colpa che una attenta inchiesta scagiona totalmente.




ERMETE



L’azione di Core in quanto anima deve trovare un parallelo nell’individuo che, a destra di Venere, le è simmetrico. In qualunque modo si voglia leggere il quadro, Ermete ne è la conclusione. Con l’angelo pagano si chiude il secondo cerchio e si completa la seconda emanazione, o terza ipostasi. Mancano ancora, in effetti, due delle cinque sostanze teorizzate da Proclo e che, come si è già rilevato, Ficino elenca diligentemente fin dall’inizio del “De amore”: “I quattro cerchi, che d’intorno a Dio continuamente si rivolgono, sono la Mente, l’Anima, la Natura, e la Materia”216.

Ma, come esplicato nella dialettica rapita-rapitore, il causato non può essere trattato indipendentemente dalla sua causa. Solo dall’ipostasi che la precede la Natura attinge l’atto. E se la regola vale per il descensus della Vita, l’indissolubilità del legame è ancora più esplicita nell’ascensus dell’Intelletto. È qui che la norma divina, emancipata dalla vicissitudine della generazione, facendosi Natura, la determina sul modello di se stessa. E se la Natura è il mosso, rispettivamente da Core e da Ermete secondo le rispettive competenze, all’ultima emanazione, la Materia, Botticelli riserva quel favoloso arazzo che costituisce quasi il secondo protagonista, l’antagonista, dell’azione drammatica: lo sfondo di cielo, alberi e fiori.

Così recita Ficino:

Dunque la materia, per mezzo dell’estensione qualitativa, che le è propria ed è comune a molti esseri, apre il proprio seno a siffatte qualità; e una volta che, attraverso di esse, è stata disposta dalla mente divina, architetto del mondo intero, a ricevere le specie, essa immediatamente riceve le forme e le specie degli elementi”217.

L’accento complessivo di queste parole, l’immagine così polizianesca che richiama all’assimilazione materia-rosa-fiore, con tutto ciò che comporta nella simbologia di apertura-fecondazione e che, in un certo senso, giustificherebbe il titolo “Primavera”, è forse il miglior esempio del tanto decantato influsso reciproco tra i membri del sodalizio platonico fiorentino, e delle sue felici conseguenze.


Alla fine di un percorso che Amore (prima estroflessione partecipabile dell’impartecipabile) indica con la freccia scoccata verso il proprio oggetto desiderante (“Crono è l’oggetto di desiderio di Zeus”218), il demiurgo, ormai smascherato dietro l’adorabile danza di tre fanciulle (“è un’impresa scoprirlo e scopertolo è impossibile rivelarlo a tutti quanti”219), alla fine, dunque, il movimento velante-svelante che l’inviato del demiurgo stesso imprime alla Natura – il moto rotatorio che già si era fatto immagine nelle Grazie e che si è visto essere attributo del divino: il cerchio descritto in cielo con il caduceo – segue la legge definitiva, la lezione che dal “Bene” è arrivata incorrotta fino a noi. Non la macchinosa appercezione travagliata del rapporto di causa ed effetto, ma l’istantanea intuizione sovratemporale dell’eternità identica a se stessa, che per Ficino coincide con le leggi umane, fulcro omologico tra tutte le dimensioni dell’Essere.

Giove stesso, creatore di ogni cosa, ha inviato agli uomini insieme con la legge divina Mercurio, cioè un profeta ed interprete della volontà divina, un messaggero della legge tanto di quella divina quanto di quella umana”220.

È sicuramente parte integrante del geroglifico progettato che l’unico personaggio recitante se stesso sia il dio della sapienza ermetica. Facendosi guida nel maggiore dei viaggi, con la sua azione svelante segna il cammino a per chi è attrezzato per seguirlo, psicopompo di un al di là che è necessariamente anche al di qua, perché regno immutabile della legge divinamente umana.

Ma, ancora una volta, sappiamo che Ficino non ha inventato nulla e nemmeno lo pretende. I riscontri nella Teologia di Proclo, e i rimandi all’originale di Platone, sono chiari:

«Zeus invia Ermete» come messaggero «a portare agli uomini» assennatezza e «pudore», ed, in generale, la scienza politica (...)221.

Proprio in questi passi Platone”, continua Proclo, “fa risalire il modello della scienza politica (…) principalmente a Zeus, mentre la processione di essa e la sua distribuzione fino ad arrivare alle anime <fa dipendere> dalla catena di Ermete”222.

E, molto oltre, in un brano che rimarca la differenza tra i due tipi di esistenza, sintetizzati nel quadro in destra e sinistra:

“(…) gli esseri che partecipano all’efflusso del Sole dipendono dalla rivoluzione del Sole (intendo dire non solo i generi che sono superiori a noi, ma anche il numero complessivo delle anime, dei viventi, delle piante e delle pietre), mentre dipendono dalla rivoluzione di Ermes gli esseri che hanno accolto il carattere di questo dio, e lo stesso vale a proposito di tutti gli altri dei”223.


La lezione di Protagora, nell’omonimo dialogo, fonda direttamente, una volta per tutte, quello che in seguito sarebbe stato chiamato ermetismo come regno della Legge.

Che poi, nell’ermetismo, ci sia chi ha preferito vederne soprattutto la componente sovrannaturale e un po’ comica, tipo apprendista stregone, non è del tutto paradossale. Cosa c’è di più sfuggente ai princìpi del puro empirismo delle relazioni che regolano i rapporti umani, dal semplice incontro tra due individui, fino al sistema sociale più complesso? Forse non c’è davvero nulla che appaia maggiormente magico di una società organizzata, nulla che appaia maggiormente ai confini della magia di ciò che comunemente chiamiamo consenso, cioè della capacità di influire, nel bene come nel male, tanto sul progetto che ne sta alla base, quanto sui singoli vincoli che ne intessono l’organizzazione. Non è, in fondo, alla necessaria impalpabilità della loro storia che Hegel ha dato il nome di “Spirito”?


Pittoricamente, il contrasto tra destra e sinistra si completa nella gestualità di Ermete. Mentre tra Demetra e Core la generazione appare come separazione tumultuosa e dramma, lacerazione di una emanazione illusoriamente idilliaca, tra Venere e Mercurio la consequenzialità ha la leggerezza di “uno spirito che aleggia sulle acque”, e viene resa dal magistero di Botticelli con la fluidità dell’identico gesto di tre mani destre, quelle di Venere, di Proporzione e di Mercurio, recanti l’ordine dal primo principio al movimento conclusivo, circolare, disvelante, della natura riappacificata con se stessa. Pittoricamente, potremmo dire, l’onda delle tre destre è l’irraggiarsi della sapienza che ha metabolizzato una altrimenti atroce verità. È la armonia di un fluido luminoso rappreso nell’unica nota di colore che accende della stessa fiamma i manti tanto del Dio emittente quanto di quello ricevente. Potremmo dire, ancora, che la qualità profonda dell’ermetismo è “tutta qui”?


Non è qui il caso di avventurarsi in quella sterminata galassia affogata nell’universo platonico che è l’ermetismo. Valga, anche qui, il lampo di luce acceso, con la sua solita capacità sintetica, quasi da vero iniziato ermetico, da Eugenio Garin: “Ermetismo significa innanzitutto esaltazione dell’uomo: un uomo che non è poi altro che l’ermetico dio Anthropos umanizzato”224.

Non è raro aver visto in Ermete il promesso sposo, o l’amante, forse un po’ cornuto, di una cerimonia nuziale, Giuliano, o Lorenzo che fosse (o Mercurio stesso verso Filologia). Se c’è un personaggio storico che si cela sotto le spoglie del Dio Messaggero, al di là di un improbabile vagheggino, questi non può essere che Marsilio Ficino, il vero responsabile morale, più che il fondatore, del progetto di recupero dell’ermetismo come religione irenica ed universale225. Incredibilmente bello, di una bellezza spudoratamente idealizzata, ma solo perché fuori dal tempo: bello come si conviene all’ultima incarnazione della catena dei teologi, all’ultimo dei Mercuri, quale si era sempre considerato l’appassionato studioso toscano.

La catena dei Mercuri, gli inviati di Dio agli uomini, i Legislatori, sarà il tema conduttore che Ficino lascerà in eredità a Giordano Bruno:

Le leggi, statuti, culti, sacrificii e ceremonie, ch’io già per li miei Mercurii ho donate, ordinati, comandati et instituiti, son cassi et annullati; et in vece loro si trovano le più sporche et indegnissime poltronarie che possa giamai questa cieca altrimente fengere: a fine che come per noi gli omini doventavano eroi, adesso dovegnano peggio che bestie”226.

Il “Lamento di Giove”, come lo definisce in nota la curatrice Nicoletta Tirinnanzi227, ha per forza dimenticato, dopo un secolo, l’istante da cui ha avuto origine quella luminosa riforma del sapere di cui il nolano è il più prestigioso erede. Nere nubi si sono addensate in cielo, prodrome a un fumo che fatalmente ne ispessirà la caligine:

La provvidenza degli dèi dissero i sacerdoti egizi non cessa d’inviare agli uomini, in tempi stabiliti, certi Mercuri, pur sapendo già che saranno male accolti o rifiutati”228 aveva già registrato, con virile rassegnazione, il nolano pochi anni prima.

L'ultimo dei Mercuri, nel suo commiato al mondo, non potrà più permettersi di essere così giovane, bello ed amabile come era stato dipinto dal pennello di Botticelli. Sarà il rogo a essergli prescritto per espiare quella felice intuizione, e la sua testimonianza sarà consegnata alla storia sotto forma di un corpo carbonizzato.


Sarebbe bello concludere questo studio con un’ultima ambiziosa ekphrasis da un testo che, composto cento anni dopo il quadro, sembra, alchemicamente, connettervisi attraverso una regione del tempo che gli ermetici avrebbero avuto cara. Sono ancora parole, ovviamente, di Giordano Bruno: si tratta di un passo famosissimo della “Cena de le ceneri”.


Il Nolano, per caggionar effetti al tutto contrarii, ha disciolto l’animo umano e la cognizione che era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbolento, onde a pena come per certi buchi avea facultà de remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze l’ali, a fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole e veder quello che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere di quei che essendo usciti dal fango e caverne de la terra, quasi Mercuri et Appollini dicesi dal cielo, con moltiforme impostura han ripieno il mondo tutto d’infinite pazzie, bestialità e vizii, come di tante vertù, divinità e discipline: smorzando quel lume che rendea divini et eroichi gli animi dei nostri antichi padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose de sofisti et asini”229.


Nel libro “Giordano Bruno e la tradizione ermetica” Frances A. Yates riporta l’intero lunghissimo passo, compresa la successiva sezione densa dei toni eroici coi quali il martire nolano, propostosi come modello umano mercuriale, ne elenca, trionfalmente, gli effetti – non ultimo la sua nuova, infinita, sfavillante e vertiginosa percezione dell’universo. È un peccato, però, che, scindendo ciò che la studiosa definisce “l’estasi (dei) liberali del secolo scorso”230, cioè la lettura eroica, romantica e moderna del messaggio, dalla componente ermetica e magica da lei stessa così tenacemente cercata, confermi, se mai ce ne fosse bisogno, la fobica incapacità dell’empirismo puritano a cogliere la necessaria parentele tra i due pensieri. Peccato al quale lei stessa tentò di ovviare con una poco convinta ritrattazione successiva231, ma comunque peccato perché la sottile sprezzatura con cui aveva trattato Edgar Wind nella reciproca corrispondenza232 avrebbe potuto far ben sperare in un più deciso superamento della ortodossia bigotta imperante nel suo ambiente.




EPILOGO



Il primo ad ipostatizzare il proprio amore terreno come centro dell’esistenza e della fede fu, in Italia, Sigismondo Malatesta, e a quell’amore fece erigere il monumento che ne eternasse la memoria. Ma nel tempio alla passione da lui voluto manca ancora quella dea alla quale il tempio stesso avrebbe dovuto essere dedicato: per essere offerta, o riofferta all’umanità, Venere dovette attendere la penna di Ficino e il pennello di Botticelli.

Forse ci voleva davvero un “filosofastro”, forse incarnazione di un cusaniano “idiota”, per spiegare che, se attraverso i simboli conosciamo le immagini ma non lo specchio233, la più compiuta conoscenza che ci può essere di Dio è una bella donna. Da quel momento il re era nudo. Anzi, Dio era nudo, e d’ora in poi la Chiesa, ogni Chiesa, avrebbero dovuto rincorrere l’umanità in salita.

Ma, finalmente nata – o rinata – Venere, i successivi grandi amori, esistiti apparentemente quasi solo per infrangere le claustrofobiche angustie del medioevo, non avrebbero fatto una gran fatica a trovare gli artisti che ne immortalassero il ruolo, e ancor meno le sembianze.

Così le Francesche Ordeaschi o le Isabelle Boschetti ci parlano della loro gloria dagli splendidi soffitti delle ville romane e mantovane.

Così nasce l’impianto del meccanismo-geroglifico che ci sta sotto gli occhi nella sala 10-14 della Galleria degli Uffizi a Firenze.

I possibili titoli: “Il regno di Venere”234, o “nel giardino di Venere”235, ma anche “il più bel modello dell’universo”236, compendiano un modo di vedere “fiorentino” che ha tratto in inganno diversi studiosi, da Cassirer, a Wind, fino a Chastel. L’eredità platonica, traslata in Italia dalla fucina di Gemisto Pletone a Mistra, si scinde nella penisola in almeno due correnti. Una, guerresca, eroica, feudalmente aristocratica, è quella che trova a Rimini la sua sede, e la sua Accademia237. L’altra, gentile, sottile, aperta ai più piacevoli influssi della natura, e alla relativa gioia di vivere, prende corpo a Firenze. Questa ultima fiorita cortesia che traspare dalle opere artistiche e letterarie della Accademia di Firenze è stata da questi studiosi scambiata per estetizzante superficialità. Ma dietro questo atteggiamento quasi effemminato risiede la certezza di avere finalmente riscoperto una realtà più profonda da secoli dimenticata, nelle cui maglie inserire, illusoriamente senza traumi, anche quella religione che fino a quel momento aveva imperato come unica forma di percezione, spiegazione e rivelazione del “tutto”. È in questo inedito porsi di fronte al pensiero che si fa strada la vera rivoluzionarietà del ‘400. Le perplessità che muovono i suddetti autori, le loro smanie di non cadere in facili tentazioni grossolanamente esoteriche, si muovono in un ambito ancora tardo illuminista, neo-kantiano, ovviamente estraneo a quanti, nella prospettiva dell’umanesimo, vedevano dispiegarsi il neoplatonismo come un più preciso e sicuro fondamento scoperto al di sotto della stessa religione tradizionale. La rivoluzione di Ficino, cioè, se non è stata colta da Cassirer o Chastel, di sicuro non è sfuggita a Savonarola e, dopo di lui, agli incattiviti dottori della controriforma da un lato, ma neppure, dall’altro, a un filosofo e poeta come Giordano Bruno.

Eppure questo doppio regime, questa contraddizione sottesa che vivifica il rinascimento fiorentino, era già immediatamente percepibile, in virtù della qualità emblematica che marchia i grandi capolavori, direttamente nel quadro. Come l’Umanesimo può essere letto a livello di un raffinato gioco sociale, tardo-medioevale, e Ficino, in particolare, come un prezioso abbaglio filosofico (si pensi all’impostazione generale, liquidante, che del periodo fornisce la storia della Filosofia di Reale e Antiseri, destinata ai giovani studiosi), così nel dipinto e nel semplice nome “Primavera” può essere compreso quanto di più leggiadro e quanto di più crudele si trovi nel mondo e nella vita. Chastel ne vede la favola delicata e edificante. Altre mentalità del ‘900 hanno visto nello stesso lemma ben altro. Stravinsky ne esalta il sacrificio, in linea con l’ultimo Warburg. Eliot, nel tranciante incipit del suo capolavoro, d’accordo con Pound, non dà adito a speranze: “Aprile è il mese più crudele”.

Il sacrificio, che nella teologia della natività e della crocifissione si concentra sul Messia, e la cui centralità storica riempie di sé quasi la totalità delle manifestazioni artistiche dell’universo cristiano fino a Botticelli, ha qui il corpo attivamente succube di Core, la vittima della cui immolazione si alimenta il ciclo della palingenesi. È una svista che nell’elenco di entità inseguite Warburg abbia glissato sull’ultima che le riassume tutte, il Cristo che si offre passivo al sacrificio universale?

E ancora, sull’innocenza dei careggini, potremmo sostenere, con un salto acrobatico spericolato ma intrigante, che dalle stesse radici di un ameno boschetto di aranci germoglierà il progetto sovversivo di quello stato che Gramsci vorrà vedere anticipato in Machiavelli?

Cent’anni dopo, a compimento di quell’arco in cui Amore si era posto tanto come pietra d’imposta quanto come chiave di volta, in Bruno l’ottimismo di una Venere pregna, alla fine, solo di una splendida illusione, si è già ricondotto al più realistico, forse anche più romantico, culto della notturna dea della luce riflessa.


Rarissimi dico sono gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplare la Diana ignuda”238.


Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile”239.


Nel nolano l’orizzonte degli eventi si è fatto crepuscolare. Orizzonte che, per un flusso di riferimenti carsici, probabilmente inconsapevoli, sembra riagganciarsi più alla tenue malinconia di un Lorenzo il Magnifico che alla auroralità riscoprente di Ficino.

Perocché orizzonte non vuol dire altro che l’ultimo termine, di là dal quale gli occhi umani non possono vedere” ... “E però convenientemente possiamo chiamare la morte quell’orizzonte (...)240.

Per Bruno potrà essere solo la casta e crudele Diana a sorgere nuda da quel brumoso orizzonte. La Realtà e il suo modo di apparire – l’unica vera, perfetta εποπτεία destinata questa volta a un discepolo fattosi anonimo e generalizzato – attingibile ormai solo nell'ombra delle idee, l’unica perfetta visione concessa alla conclusione di quella furiosa, personale mistagogia che aveva già in sé i semi corrosivi di una modernità per molti tossica, come si è più volte detto, Giordano Bruno l’avrebbe ribadita con forza, per ultimo, alla fine del Rinascimento, fino ad impregnarne l’intera sua filosofia. E per questa testardaggine la stessa fiamma che lo aveva acceso sarebbe stata usata per bruciarlo vivo.


Ma, forse, il vero estremo dell’arco del Rinascimento va ascritto ad un altro episodio ben più vicino a noi. È inusuale concludere uno studio citando la data in cui lo si è terminato, come se si trattasse di una pagina di diario. Oggi, 18 febbraio 2025, i due rappresentanti di Stati Uniti e Russia si sono incontrati a Riad, in Arabia Saudita, per decidere le sorti del mondo e dell’Europa. Particolare notevole, nessuno dei due ha voluto alcun rappresentante dell’Europa stessa tra i piedi. È possibile, in uno studio sui simboli, non stabilire in questo avvenimento la più compiuta rappresentazione della fine, da tempo preannunciata, di quell’entità geostorica alla quale l’umanità deve il Rinascimento, lo si voglia considerare italiano, come privilegia Gentile, o europeo come corregge Cassirer? Rinascimento e, soprattutto, lo strascico di sogno umano, sociale e irenico, e di sguardo scientifico, che si era tirato dietro illuminando un angolo del pensiero rimasto in ombra dalla notte dei tempi.

Non sarà la fine dell’Europa, ricorda il nolano, a impedire a Giove di inviare altri Mercuri sulla terra e, come sempre, bisognerà stare molto attenti a distinguere i rari auspicabili messaggeri divini dalla “moltiforme impostura” dei falsi “Mercuri et Appollini”241 ovunque proliferanti. Se la fiammella che nel quadro di Botticelli Amore saetta al proprio celato amante, attraverso il Mercurio designato potesse giungere ancora fino a noi, brillerebbe comunque quel felice momento dello spirito che gli immancabili farisei del pensiero vorrebbero confinato nel mondo per loro inaccessibile dei Filosofastri Perditempo. Ma quand’anche la Dea si mostrasse ad un altro eroico cacciatore, sorgerà mai l’alba di quel giorno in cui saremo pronti a zittire le schiere dei loro gracchianti Bellarmini e a non lasciarcela mai più sottrarre?



Note


1E. H. Gombrich, Immagini simboliche,Torino,1978, p. 21

2Cfr.https://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1342 M. Centanni, 26 aprile, giorno di primavera: nozze fatali nel giardino di Venere. Una rivisitazione della lettura di Aby Warburg dei dipinti mitologici di Botticelli, La rivista Engramma n 105, Aprile 2013

3E.Wind, Misteri pagani nel rinascimento, Milano, 1971, p. 8

4A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze, 1980, pp. 32 sgg.

5A. Warburg, Per Monstra ad sphaeram, Milano, 2014, pp. 81,82

6A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze, 1980, p. 71

7Ivi, p. 84

8Ivi. p. 100

9E.Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, Torino, 2012, p. 3

10Ivi, p. 73

11 G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Degli eroici furori, dialogo primo, Milano, 2000, p. 759

12cfr. E.Wind, Arte e Anarchia, Milano, 1968, Gli Oscar, 1972, pp. 121, 126

13Cfr Supra nota 3

14Ivi. pp. 10, 11, 33

15Ivi. p. 20

16Ivi. p. 49 nota 9

17Ivi. p. 142 nota 6

18M. Ficino, Teologia Platonica, Milano, 2011, p. 1655

19Proclo, Teologia Platonica, Milano, 2005, p. 457 (IV, 1 p. 7 S.-W.)

20E. Wind, cit, cap. 2

21Ivi, cap. 3

22Ivi, p .91

23Ivi. p. 56

24Ivi. p. 49 nota 9

25Ivi. p. 47

26Ivi. p. 313

27Cfr Supra nota 10

28E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino, 1975, p. 184

29E. Garin, Introduzione a “La civiltà del Rinascimento in Italia” di Jacob Burckhardt, Firenze, 1952, pp. XXXII-XXXIII, cit. in Giovanni Targia, Postfazione a E. Cassirer, cit, p. 449, 450 nota

30E. Garin, L’umanesimo italiano, Roma-Bari, 1994, p. XVI

31Ivi, p. 10

32E. Garin, a cura di, L’uomo del Rinascimento, cap. 5, E. Garin, Il filosofo e il mago, Bari, 1988, p. 178

33Cfr E. H. Gombrich, cit, p.227

34G. Bruno, Opere mnemotecniche, tomo secondo, Milano, 2009, p. XI

35A. Chastel, Marsilio Ficino e l’arte, Torino, 2001, p. 217

36Ivi, p. 271

37A. Chastel, Arte e umanesimo a Firenze, Torino, 1954, p. 272, 273

38Ivi, p. 364

39Ibidem

40Ivi, p. 365

41Ivi, p. 366

42Ivi, p. 364

43E. Wind, cit, p. 85

44Ivi, p. 87

45Cfr. Ivi, p. 241

46Ivi. p. 260

47Cfr. Supra, nota 35

48A. Chastel, ivi, p. 182

49Ivi. p. 392

50E. H. Gombrich, Cit, Torino, 1978, p. 80

51Ivi. p. 68

52Cfr. C. Dempsey, Mercurius Ver: The Sources of Botticelli's Primavera, Chicago, 1968, p. 262, cit in M. Centanni https://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1342

53Cfr. M. Centanni, cit

54Cfr. https://www.examenapium.it/cs/biblio/Villa1998.pdf C. Villa Per una lettura della «Primavera». Mercurio «retrogrado» e la Retorica nella bottega di Botticelli, «Strumenti critici» 1998 - G.Reale, Botticelli, la “Primavera” o le “Nozze di Filologia e Mercurio”? Rilettura di carattere filosofico ed ermeneutico del capolavoro di Botticelli con la prima presentazione analitica dei personaggi e dei particolari simbolici. Rimini, 2001

55M. Ficino, De vita, traduzione e introduzione di A. Biondi, Pordenone, 1991, p. XIX

56Cfr. Poliziano, Stanze, I 43-4

57L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science, New York, 1934, IV, pp.562 sgg cit. in E. H. Gombrich, Immagini simboliche, Torino, 1978, p. 111

58Cfr Supra n. 3

59E. H. Gombrich, Cit, p.185

60Ivi, p. 66

61Ivi, p. 93

62Ivi, p. 54

63Ibidem

64Ivi, pp. 67 e ss.

65Ivi. p. 54

66Ivi. p. 67

67Cfr. M. Centanni, cit

68Ibidem

69Cfr Supra, nota 53

70A. Chastel, Marsilio Ficino e l’arte, Torino, 2001, p. 109

71L. de’ Medici, Opere, Napoli, 1969, p. 127

72M. Ficino, Teologia platonica, introduzione di Errico Vitale, Milano, 2011, p. LVII

73cfr. ivi, p. XLIX

74Ivi, p. XII

75Ivi, p. LXXXVII

76S. Gentile, S. Niccoli, P. Viti, a cura di, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone: mostra di manoscritti stampe e documenti 17 maggio-16 giugno 1984: catalogo, E. Garin, Premessa

77A. Chastel, cit, p. 147

78Ivi, p. 151

79cfr. https://www.meer.com/it/61803, Claudio Piani e Diego Baratono, Botticelli, un nuovo approccio, Jubilate Deo, omnis terra alleluia, ovvero il Battesimo del Nuovo Mondo, 26 marzo 2020

80Plotino, Enneadi, traduzione di Giuseppe Faggin, Milano, 2000, V 8, 6

81O. P. Faracovi, a cura di, Marsilio Ficino - scritti sull’astrologia, pp. 61, 62 https://www.atanor-psicoterapia.it/wp-content/uploads/2021/07/Marsilio-Ficino-Scritti-sullastrologia-2013.pdf

M. Ficino, Teologia Platonica, cit. p. 193

82M. Ficino, cit. pp. 193, 195

83Ivi, p. 143

84Ivi, p. 193

85Ivi. p. 1225

86M. Ficino, De vita, traduzione e introduzione di Albano Biondi, p. XXXIV, Pordenone, 1991

87Cfr. M. Ficino, Teologia Platonica, cit. introduzione di E. Vitale, p. LXXXVIII

88M. Ficino, De vita, cit, p.349

89Ivi. p. 353

90Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, traduzione di R. Pecchioli, Roma-Bari 1985, pp. 90, 91

91M. Mila, L’arte di Verdi, prefazione, citazione da Hans von Bülow, Torino 1980, p. XI

92F. A. Yates, cit, p. 95

93Per il codice Riccardianus 70, contenente il manoscritto greco di Matthieu Camariotès della Teologia Platonica di Proclo con le annotazioni di M. Ficino, cfr. H. D. Saffrey, L’Héritage des anciens au moyen âge et à la renaissance, cap. Notes platoniciennes de Marsile Ficin dans un manuscrit de Proclus, Parigi, 2002

94Proclo, Teologia Platonica, traduzione di Michele Abbate, Milano 2005, p. 45 (I 7, p. 31 S.-W.)

95M. Ficino, Teologia Platonica, cit. p. LXIVM.

96Cfr. G. Bruno, Opere mnemotecniche, tomo primo, Milano, 2004, pp. 147 ss.

97Cfr. G. Bruno, Opere mnemotecniche, tomo secondo, Milano, 2009, pp. 553 ss.

98Proclo, cit, pp. 181-182 (I 29, p. 124 S.-W.)

99Cfr. Supra, nota 33

100M. Ficino, De vita, introduzione di A. Biondi, cit, p. X

101M. Ficino, Teologia platonica, cit, p. 641

102Proclo, cit. p. 395 (III 19, p. 67 S.-W.)

103Cfr. Supra, nota 100

104Cfr. Supra note 33, 99

105Platone, Repubblica, traduzione di G. Caccia, Milano, 1997, VI 508 b-c

106Plotino, cit. IV 3, 17

107Cfr. Supra nota 93

108Cfr. ad esempio, Storia della teologia III, Cap. III, G. F. Vescovini, La teologia di Niccolò Cusano, Milano, 1995, pp. 180, 181

109Cfr. Supra, nota 84

110Cfr. H. D. Saffrey, cit, p. 171

111M. Ficino, cit, p. 193

112E. H. Gombrich, Cit, pp. 240, 241

113Cfr. Plotino, cit. VI 5, 5 - VI 8, 183

114Cfr. Supra, nota 106

115Cfr. M. Ficino, Sopra lo amore, orazione seconda, capp. III e V

116E. H. Gombrich, Cit, p. 57

117Cfr. Supra. nota 11

118Cfr. Proclo, cit. pp. 267 sgg. (II, 9, S.-W.); H. D. Saffrey, cit, p.170

119E. H. Gombrich, Cit, p. 57 e nota 23

120Cfr Supra nota 50

121Platone, Filebo, 64 c

122Cfr. Supra, note 82, 83

123Platone, Repubblica, VI 509 a

124Proclo, cit. p. 9 (I 1, p.5 S.-W.)

125Cfr. D. J. J. Robichaud, Marsilio Ficino on the Triad Being-Life-Intellect and the Demiurge: Renaissance Reappraisals of Late Ancient Philosophical and Theological Debates, in Reading Proclus and the Book of Causes, Volume 3, Cap. 20, 2022, p. 613 e nota 14.

126Cfr, H. D. Saffrey, cit, p. 171

127Ibidem

128Ibidem, cfr. anche J. J. Robichaud, cit, p. 613: (...) Ficino outlines the complete structure of Proclus’s theology, detailing the series of Gods, ordered according to their theological principles being-life-intellect”.


129Proclo. Cit. introduzione, p. L

130Ivi, p. LI

131Proclo, cit. p. 456 (IV 1, p. 7 S.-W.)

132Cfr, per i primi termini, H. D. Saffrey, cit, p. 171 e M. Ficino, Teologia platonica, cit, p. 1151. Per i secondi, M. Ficino, cit, p. 1655

133Proclo, cit, p. 457 (IV 1, p. 7 S.-W.)

134Proclo, cit, p. 149 (I 22, p. 101 S.-W.)

135Cfr. E. Wind, cit, cap. 7

136M. Ficino, Sopra lo amore, orazione quinta, cap. XI

137Proclo, cit. p. 17 (I 2, p. 11 S.-W.), cfr. Platone, Simposio, 212 b

138Proclo, cit. p. 159 (I 25, p. 109 S.-W.)

139M. Ficino, Libro del sole di Marsilio Ficino, al magnanimo Piero de’ Medici, in Scritti sull’astrologia, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, 2013, p. 210

140Ibidem, p. 212

141Cfr. Supra, nota 134

142Cfr. Platone. Repubblica, VI 508 b, 509 a

143Proclo, cit, p. 149 (I 22, p. 102 S.-W.)

144M. Ficino, Sopra lo amore, orazione seconda, capp. I, II

145M. Ficino, Cit., orazione settima, cap. I

146C. Landino Comento sopra la Comedia, a cura di Paolo Procaccioli, tomo IV, Roma, 2001, p. 2028

147G. Bruno, cit, De la causa, principio et uno, Proemiale epistola, p.178; Degli eroici furori, dialogo primo, p. 792

148Cfr. Proclo, cit, VI 12, p. 64; VI 23, p. 106 S.-W.

149Cfr. ad esempio, E. Garin, a cura di, L’uomo del Rinascimento, cap. 5, E. Garin, Il filosofo e il mago, Bari, 1988, p. 171

150Platone, Leggi, IV, 715 e - 716 a

151Cfr. Proclo, cit., I 4, p. 20

152Ivi, V 4, p. 19-20

153Proclo, cit. p. 901 (VI 8, p. 41 S.-W.)

154Ibidem

155Ivi, p. 903 (VI 8, p. 41 S.-W.)

156M. Ficino, Teologia platonica, cit, p.201

157Ivi, p. 1667

158G. D’Onofrio, a cura di, Storia della teologia III, Cit., p. 185

159Proclo, cit. p. 151 (I 22, p. 103 S.-W.)

160Proclo, cit. p. 497 (IV 10, p. 33 S.-W.)

161Ivi, p. 499 (IV, 10, p. 34 S.-W.)

162Ivi, p. 497 (IV, 10, p. 33 S.-W.)

163Ivi, p. 583 (IV, 30, p. 91 S.-W.)

164Cfr. Ivi, pp. 565, 567 (IV, 27, p. 79, 80 S.-W.)

165Ivi, p. 567 (IV, 28, p. 80 S.-W.)

166Ibidem

167Poliziano, Stanze, I, 47

168Proclo, cit. p. 641 (IV 3, pp. 15, 16 S.-W.)

169Ibidem, (IV 3, p. 16 S.-W.)

170Ivi, p. 677 (V 11, p. 38)

171Ivi, p. 677 (V 11, p. 39)

172M. Ficino, Teologia platonica, cit, pp. 687, 1151

173Proclo, cit. p. 149 (I 22, p. 101 S.-W.)

174Ivi, p. 151 (I 22, p. 104)

175Ivi, p. 351 (III 9, pp. 37, 38). Cfr. Platone, Filebo, 65 a

176Ivi, p. 361 (III 11, pp. 43, 44)

177Ibidem

178Cfr. C. Landino, cit., p. 2028

179Proclo, cit. p. 303 (III 2, p. 6 S.-W.)

180Ivi, p. 305 (III 2, p. 8 S.-W.)

181Ivi, p. 309 (III 2, p. 10 S.-W.)

182Ivi, p. 611 (IV 2, p. 110 S.-W.)

183Ivi, p. 635 (V 2, p. 11 S.-W.)

184Ivi, p. 651 (V 5, p. 21 S.-W.)

185Ivi, p. 651 (V 5, p. 22 S.-W.)

186Platone, Timeo, 30 h 1-3

187Proclo, cit. p. 713 (V 17, p. 62 S.-W.)

188Ibidem

189Ivi, p. 713 (V 17, p. 63 S.-W.)

190M. Ficino, cit, pp. 695

191Cfr. Supra, n. 159

192Proclo, cit. p. 765 (V 26, p. 97 S.-W.)

193Ivi, p. 641 (V 3, p. 16 S.-W.)

194Ivi, p. 775 (V 28, p. 104 S.-W.), Platone, Timeo, 28 c 3-5

195Ibidem, (V 28, p. 105 S.-W.)

196M. Ficino, De vita, cit. p. 233

197Cfr. Proclo, cit. p. 915, n. 174

198Ivi, p. 915 (VI 11, p. 49,50 S.-W.)

199Platone, Protagora, 322 c 1-2

200Proclo, cit. p. 751 (V 24, p. 88 S.-W.)

201Ivi, p. 721 (V 18, p. 67 S.-W.)

202Cfr. H. D. Saffrey, cit, p. 168

203M. Ficino, Sopra lo amore, orazione seconda, cap. III

204Proclo, cit. p. 499 (IV 24, p. 35 S.-W.)

205Ivi, 677 (V 11, p. 39 S.-W.), cit da Platone, Leggi, VI 782 b 4-5

206M. Ficino, Teologia platonica, cit, p. 39

207Ivi, p. 19

208Proclo, cit. p. 923 (VI 24, p. 55 S.-W.)

209Hegel, Scienza della logica, traduzione di Arturo Moni, Roma-Bari, 2008, p. 641

210Ibidem

211Cit. p. 642

212M. Ficino, Sopra lo amore, orazione terza, cap. I

213Cfr. Hegel, cit., pp. 639 e sgg.

214Cfr. M. Ficino, Teologia platonica, cit, XIII, II, Gli indovini e i profeti. XIII, V, p. 1269: (...) non avviene che quando quell’animo angelico desidera realizzare una qualche opera straordinaria, ad esempio agitare i venti, immediatamente le cause superiori siano propizie a questo desiderio e desiderino novità, poiché l’animo desiderava novità, ma al contrario, dato che gli esseri celesti hanno decretato proprio questo, l’animo lo desidera”.

215Ivi, p. 907

216M. Ficino, Sopra lo amore, orazione seconda, cap. III

217M. Ficino, Teologia platonica, cit, p. 859

218Cfr. Supra, note 199, 299

219Cfr. Supra, nota 194

220M. Ficino, cit, p. 1357

221Cfr. Supra, note 199, 200

222Proclo, cit. pp. 753 - 755 (V 24, pp. 88 - 89 S.-W.)

223Cit. p. 875 (VI 4, pp. 23 - 24 S.-W.)

224E. Garin, a cura di, L’uomo del Rinascimento, cit, p. 185

225Cfr. M. Ficino, Teologia platonica, introduzione di Errico Vitale, cit, p. XCI

226G. Bruno, cit, Spaccio de la bestia trionfante, dialogo primo, pp. 492, 493

227Cit. Ibidem, n. 139 (p. 1218)

228Cfr. G. Bruno, De umbris idearum, in Opere mnemotecniche, tomo primo, cit. p. 23

229G. Bruno, in Dialoghi filosofici italiani, cit, La cena de le Ceneri, dialogo primo, pp. 27, 28

230F. A. Yates, cit, p. 261

231Cfr. F. A. Yates, La tradizione ermetica nella scienza rinascimentale, in Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, traduzione di M. De Martini Griffin, Bari, 1988, p. 153: È necessario abbandonare il preconcetto secondo cui la scoperta di influenze ermetiche in grandi figure rinascimentali, conduce ad una diminuzione della loro importanza”.

232Cfr. Bernardino Branca The Giordano Bruno Problem: Edgar Wind’s 1938 Letter to Frances Yates in The Edgar Wind Journal, vol. 1, 2021, pp. 12-38 file:///C:/Users/Utente/Desktop/su%20bott/The_Giordano_Bruno_Problem_Edgar_Winds_1.pd

233Cfr. G. D’Onofrio, a cura di, Storia della teologia III, cap. III, G. F. Vescovini, Cit., p. 186

234A. Warburg, Botticelli, Milano, 2003, p. 72

235Cfr. Supra nota 2

236Proclo, cit., p. 395 (III 19, p. 67 S.-W.)

237Cfr. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Tomo V, Dall’anno MCC all’anno MCCC, Parte seconda, Milano, 1823, p. 911

238 G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, cit, Degli eroici furori, dialogo primo, p. 920

239Ibidem, p. 921

240L. de’ Medici, cit, p. 353

241Cfr. Supra, nota 229