di Franco Morselli
In occasione della presentazione del libro sull'architetto Giorgio Villa avevo proiettato una serie di immagini a commento e spiegazione delle ipotesi formulate sulla figura dello scomparso Professore. Raccolsi poi tali immagini, e le relative note, in un opuscolo stampato in un limitato numero di copie da donare a quanti fossero interessati. Per l'impossibilità di venire incontro alle gradite richieste mi è sembrato utile pubblicarne il contenuto nel presente Blog.
Il nodo concettuale attorno al quale ruota la vita di Giorgio Villa, quella professionale ma non solo, il luogo e il tempo di questa vita (la facoltà di Architettura di Firenze, nel periodo che va dalla metà degli anni ‘50, fino alla fine del secolo scorso), è esemplare di una problematica che appare non solo ben lontana dall’essere risolta, ma addirittura dall’essere compiutamente delineata tanto nella sostanza quanto negli esiti, quelli più o meno diretti e quelli più o meno visibili.
La storia di Villa è la storia di un conflitto lacerante all’interno di una coscienza che, per quella particolarità di luogo che si è detto, attraversa da protagonista due opposte visioni del mondo, vivendo entrambi i massimi sistemi con la sensibilità dolorosa di una scissione parentale.
Cosa rimane dell’eredità di Villa? Cosa rimane attuale nel dettato della sua sofferta scelta? Rimane, in sintesi estrema, la necessità di un cambiamento di paradigma nel discorso sull’architettura e sul territorio. Rimane, impellente oggi più di allora, l’urgenza di una nuova narrazione, di una rivisitazione critica e sistematica di tutti gli assiomi, dei dogmi, anche i più consolidati, sui quali si è retto, ormai da un secolo a questa parte, il logos sovranazionale che descrive l’architettura.
Il libro dedicato al professore è privo di immagini, fatto insolito per un libro di architettura. La scelta è dovuta alla necessità di non distrarre il lettore, attraverso un impatto visivo apparentemente elementare - perdente rispetto alle eclatanti visualizzazioni che accompagnano l’architettura più pubblicizzata - dal cuore teorico del problema, riservando ad una successiva esposizione, come può essere una presentazione, una trattazione “a voce” che presupponga un minimo di conoscenza dell’antefatto, e una certa dose di pregiudizio positivo. In una parola, una “iniziazione” già avvenuta. Solo così è possibile valutare la portata polemica che la semplicità programmatica di questi disegni contrappone alla complessità mistificante del pensiero più gettonato.
Le immagini scelte per la presentazione del libro ne costituiscono l’ossatura, le pietre miliari per coglierne il senso, il travaglio intellettuale che lo anima, e l’esito, anche il più estremo, che comunque mai non travalica il rigore di una organizzazione didattica trasmissibile ad ogni livello di professionalità o di ambito di studi.
Possono essere divise in due parti, a loro volta divisibili, rispettivamente, in due e tre paragrafi.
Prima parte:
- il conflitto (dalla tav. 1 alla tav. 9)
- la scelta (dalla tav. 10 alla tav. 35)
Seconda parte:
- l’eredità immediata (le esercitazioni secondo il suo modello)
(dalla tav. 36 alla tav. 45)
- l’eredità più ambiziosa (il restauro del territorio) - (tavv. 46, 47, 48)
- le conseguenze più estreme: la rivisitazione dei dogmi.
G. G. Gori, allievo, assistente e collaboratore di Giovanni Michelucci, ne è uno dei più importanti interpreti dell’ideologia progettuale importata a Firenze nel dopoguerra, all’interno della quale Villa si è formato.
I due disegni riprodotti mirano a esplicitare, ideogrammaticamente, il metodo didattico-compositivo e gli esiti formali frutto di una scelta culturale ove trova grande spazio il neo-espressionismo michelucciano.
Dal libro “1960-1968 Note sull’attività degli Istituti degli interni e di Composizione Architettonica della Facoltà di Architettura di Firenze - Direttore: prof. Giuseppe G. Gori” viene la sottostante tav. 3.
Il libro, edito a Firenze nel 1968, è un interessante album di immagini che forniscono una esauriente panoramica dell’ambito culturale e creativo in cui si muoveva la ricerca architettonica in quegli anni, e non solo a Firenze.
L’interesse della tav. 4 risiede esclusivamente nel nome dei due studenti (Carlo Chiappi, 1939 - 2001 e Adolfo Natalini, 1941 - 2020) che hanno prodotto l’elaborato, ognuno dei quali, a modo suo, destinato a raggiungere la celebrità e, in piena luminosa carriera, colpito da una crisi esistenzial-professionale analoga a quella di Villa, pur senza sfiorare mai i vertici della sua sofferta acutezza.
Nel clima che le prime quattro tavole cercano di sintetizzare prende forma, nel 1960, la tesi di laurea di Giorgio Villa.
Il contenuto neo-espressionista che impregna la facoltà di Firenze si riversa di fatto in una applicazione strutturalista di avanguardia. Il riferimento principe è al tedesco Frei Otto, quasi coetaneo di Villa ma operante in una realtà economico-industriale ricercatrice di altri valori rispetto all’estetismo un po’ esangue in cui si crogiola Firenze. Il tema è la tensostruttura, i cui esiti estetici saranno portati da Frei Otto alle massime conseguenze di lì a poco nel villaggio olimpico per le olimpiadi di Monaco nel 1972.
Ciò che a noi interessa di questa titanica tesi di laurea si rivela fin dal titolo: “Teatro circo o moderno carro di Tespi”. La complessa ricerca sociale, funzionale, tecnologica di Villa mira a produrre un oggetto smontabile e trasferibile, dichiaratamente nomade. Noi vogliamo leggere in questa insolita scelta una critica ancora inconsapevole al dialogo instaurantesi tra il tipo di oggetti che le prime quattro immagini documentano e il substrato territoriale, il paziente palinsesto destinato a ospitarli.
Contemporaneamente alla tesi di laurea di Giorgio Villa viene concepita la chiesa di San Giovanni Battista, più conosciuta come “chiesa dell’autostrada”, di Giovanni Michelucci, caposcuola indiscusso della facoltà di Architettura di Firenze.
Il tema della leggerezza, della mobilità, quindi della tenda, si concretizza qui in una pesante colata di cemento armato. Sulla correttezza o sull’arbitrio della scelta, sulle motivazioni palesi e su quelle occulte, si potrebbe disquisire all’infinito. Noi ci accontentiamo di ipotizzare che in questo nodo concettuale mai risolto possa trovarsi il punto di partenza, quasi il simbolo, di una crisi su cui vale ancora la pena meditare.
Il contro-simbolo necessario per tracciare la storia intellettuale di Giorgio Villa può essere individuato in questo edificio. Si trova a Bologna, ove in origine ospitò la sede dell’ Enpas. Il progettista è l’architetto Saverio Muratori, modenese ma di formazione prettamente romana. È anch’esso contemporaneo ai due precedenti progetti, quello di Villa e quello di Michelucci, ma si situa in un universo culturale diametralmente opposto. Se la chiesa di San Giovanni Battista enuncia, in sintesi, l’ossimoro architettonico di una mobile gettata di cemento, in omaggio ad un nomadismo estraneo ad ogni riferimento storico locale, il palazzo per uffici di Muratori fa del radicamento nel suolo ospite il motivo conduttore di ogni scelta, da quella più macroscopica a quella di più intimo dettaglio. Michelucci vuole, zevianamente, sconvolgere gli stereotipi. Muratori, al contrario, restituendo all’abusato sostantivo il significato più profondo, con lo stesso filologico rigore ne indaga i modi in cui il “solido” (στερεο) si riversa nel tipo e quindi in architettura. Tutti gli elementi del progetto dialogano non solo tra loro, ma con l’intera storia del costruito circostante, privilegiando, nella serialità della struttura, nel portico, nelle quadrifore e nell’attico merlato, il momento gotico-medioevale che impronta di sé il carattere di Bologna.
Il primo incontro-scontro di Villa con Saverio Muratori si situa nell’ambito del gruppo Città Nuova, da lui stesso fondato nel 1961 insieme all’amico e collega Mario Zaffagnini. Il rapporto polemico tra i membri del gruppo successivamente aggiuntisi e l’edificio dell’Enpas, in cui, obtorto collo, trasferirono la sede, è esemplare di quel conflitto culturale, quello scontro tra i massimi sistemi, da cui prende origine la storia in questione.
Tav.8: nonostante gli scambievoli rapporti tra il gruppo di architetti Città Nuova, l’amministrazione civica bolognese e il mondo dell’università fiorentina, con la conseguente dovizia di progetti realizzati, l'oggetto-icona del gruppo è una lampada da tavolo.
Pensata in lamiera, nel 1963, da Giancarlo Mattioli, uno dei membri del gruppo, e prodotta in poliestere dall’Artemide, “Nel 1966 fu esposta al museo d’Arte Moderna di New York e successivamente fu adottata negli arredi della Queen Elisabeth. Comparì negli arredi di molti films e continua a essere prodotta ancora oggi (...)”, secondo le parole di Mattioli stesso.
Tav.9. Villa uscirà dal gruppo da lui stesso fondato dopo appena un anno. Lo sporadico excursus nel mondo del design, datato 1968, cinque anni dopo il successo del vecchio collega, è un altro indicativo esempio delle priorità che interessano la sua, a quel punto personale, ricerca. Il tema prende spunto da un concorso bandito dall’Ente Autonomo Fiera di Trieste Campionaria Internazionale e ha per titolo “Mobile accessorio da vendere nei grandi magazzini”. Il lavoro di Villa viene premiato ex aequo con altri quattro partecipanti. Si tratta di un contenitore di prodotti di alto consumo, modulare, realizzato con materiali economici, da riutilizzare come scaffalatura componibile in arredamenti poveri o di emergenza.
Il prodotto oggettuale, tanto quello architettonico che quello industriale, inteso come segno da relazionare sintatticamente in un insieme organico, partendo dalla padronanza della grammatica più elementare, è già nell’orizzonte operativo e didattico di Giorgio Villa.
Tav. 10: “Note per una metodologia di analisi di settori urbani nei centri storici”. Il libro, scritto insieme al collega Loris Macci, uscì nel 1974. È difficile dire se si sia trattato di un istante di stanchezza in un itinerario sempre più accidentato, o di un momento di pausa in attesa dello sforzo rivoluzionario ormai imminente, o del giro di boa definitivo. Probabilmente è stato tutte e tre le cose. Il pretesto di impostare un utile e obiettivo criterio d'analisi propedeutico agli interventi di recupero dei centri storici, in sintonia con le più lungimiranti politiche culturali del momento, fornisce a Villa l’attimo necessario di riflessione su una metodologia progettuale ormai alle corde.
Il blocco edilizio “centro storico” viene per così dire “virgolettato”, messo tra parentesi all’interno di un quadro generale, quello precedentemente descritto, non ancora consapevolmente posto in crisi. Ma i suggerimenti progettuali che ne gemmano lasciano, d’ora in poi, poco posto alla chiassosa festosità fiorentina.
Ai consueti strumenti per una indagine statistico-sociologica si affiancano, nel libro “Note per una metodologia di analisi”, le schede cronologiche sulla storia dell’area ma, soprattutto, l’accurato rilievo del costruito. Sono queste dettagliate tavole a costituire l’elemento rivoluzionario del progetto didattico di Macci e Villa.
Nello stesso anno i due autori pubblicano, all’interno dell’università, “Analisi e rilievo di un settore urbano di Firenze - L’area di S. Frediano - Oltrarno”, da cui sono tratte le tavv. 11 e 12. Alla tessitura muraria che disegna la tav. 11 e alle sue conseguenze proiettate nei prospetti della tav. 12 manca ancora, per i due autori, nel 1974, la logica ferrea che delinei con sicurezza, al di là di una confusa creatività alla quale entrambi sono abituati, i modi congrui di un intervento. Ma questa logica, a Villa, non tarderà a dispiegarsi.
Nelle tavv. 13 e 14 è schematizzata, in una stringatissima sintesi, quella nuova logica che accompagnerà Villa d’ora in poi.
Potremmo legare le due tavole ottenendo una fenomenologia completa dell’architettura, quasi una ontogenesi che ne spiega ogni momento, dalla cellula elementare, o tipo base, o capanna, alla edilizia specialistica seriale più complessa, ivi compreso il grattacielo che tanto continua ad affascinare con il suo mito di inarrivabili traguardi.
Le due tavole sono tratte dal libro “Tipo, progetto, composizione architettonica”, scritto a due mani con l’amico e collega Carlo Chiappi (di Chiappi sono i disegni, di Villa il testo), e pubblicato nel 1979 dopo aver frequentato insieme, per l’intero anno accademico 1977/78, le lezioni di Gianfranco Caniggia.
Gianfranco Caniggia (1933 - 1987) era giunto a Firenze nel 1972. Allievo di Saverio Muratori, professa un modo di vedere l’architettura e il territorio radicalmente opposto alla mentalità fiorentina della quale anche Villa si era nutrito. Con il rigore del filologo e la capacità di osservazione dell’archeologo, Caniggia interpreta i materiali raccolti dalle esercitazioni di rilievo, conferendogli una vita intrinseca fino a quel momento insospettabile. E, quel che più conta, secondo la sua inedita teoria, l’intervento, la progettazione, deve essere inserita in un continuum storico che non ammette arbitrii.
La lezione muratoriana filtrata da Caniggia convince in pieno Giorgio Villa, da sempre perplesso di fronte ad una inafferabilità di trasmissione didattica basata su una pretesa di poesia pura, spesso a dir poco discutibile anche quando sostenuta da rari autorevoli maestri .
Da ora in poi Villa vedrà nel più giovane Caniggia il secondo (dopo Gori) dei suoi maestri, e ne adotterà definitivamente il metodo.
“Tipo, progetto, composizione architettonica” è il libro della svolta. D’ora innanzi i rapporti con i colleghi legati al vecchio mondo di provenienza saranno sempre più difficili. Ma Villa con quel libro ci regala “un manuale di composizione destinato al docente che per la prima volta all’università come in una scuola superiore d’indirizzo debba affrontare la materia”. “Tipo, progetto, composizione architettonica rimane a tutt’oggi forse la migliore trattazione basilare di una corretta grammatica architettonica a disposizione di studiosi e progettisti”.
Le tavv. 13 e 14 rappresentano le possibilità di aggregazione della cellula elementare nell’edilizia seriale. I tipi che ne risultano, di base e specialistici, si aggregano a loro volta a livello di organismo urbano secondo precise regole. La prima di queste è illustrata nella tav. 15. L’insieme di queste regole, la “grammatica urbana”, è schematizzato nella tav. 16. La tav. 16 proviene da “Composizione architettonica e tipologia edilizia”, libro scritto da Gianfranco Caniggia insieme a Gian Luigi Maffei nello stesso 1979. Riedito con un titolo diverso: “Lettura dell’edilizia di base”, avrebbe dovuto essere il primo di una serie di quattro volumi destinati a ospitare un trattato il più possibile esauriente del metodo muratoriano. Purtroppo, per la prematura morte di Caniggia, il progetto non andò in porto.
Ad una prima occhiata la tav. 16 ci descrive una città ideale. Solo dopo un'attenta osservazione ci rendiamo conto che questa città non è frutto di utopie più o meno improbabili, ma è il distillato di una realtà leggibile in tutti gli ambienti urbani analizzabili. È la regola, o il sistema di regole, per cui ciò che funziona è così e non può essere diversamente. È una griglia dedotta dall’esistente sulla quale l’operatore preparato dovrà modulare ogni ipotetico intervento per ogni nuova realtà.
Le tavv. dalla 17 alla 35 sono tratte dal libro “Per una didattica della progettazione architettonica”, uscito nel 1990 dopo un anno sabbatico ad esso dedicato. I disegni ivi raccolti provengono quasi esclusivamente da tesi di laurea e testimoniano, nella loro limpidezza compositiva, l’ideale didattico, quasi illuminista, quasi palladiano, di un metodo sfrondato da ogni posticcia ideologia e da ogni protagonismo pregiudiziale.
È l'opera più importante di Villa. Fonti anche contraddittorie, che fin qui ne avevano alimentato la ricerca, si conciliano ora in una visione organica priva di contrasti. La parola “tesi”, etimologicamente “posizione”, “posto”, sembra dialogare con la problematica originale del nomadismo da cui Villa era partito, proponendo se stessa già come sintesi effettiva dell’intero arco del suo percorso culturale. Un aforisma tanto profondo quanto poco frequentato ne segna la chiave di volta: “La nostra società civile ha bisogno di garantirsi una buona prosa architettonica generalizzata per poter sperare di arricchirsi anche di elevate espressioni di vera poesia”.
Tav. 17
Le tavv. dalla 17 alla 23 sono dedicate all’edilizia di base, quindi alla residenza. È chiara la volontà di inserirsi senza fratture o provocazioni nel tessuto edilizio esistente, e l’intero metodo, e gli artifici progettuali che lo supportano, risultano chiaramente finalizzati a questo dettato muratoriano. Dai disegni più aridamente tecnici, alle prospettive più espressive, tutto vive del e nel rapporto più profondo e consapevole con l’ambiente dato, di cui il nuovo intervento è mera integrazione.
Dalla tav. 24 alla tav. 32 sono esemplificate alcune soluzioni di edilizia specialistica seriale. Qualcosa come, ad esempio, un palazzo per uffici o un centro direzionale. Le regole, in queste tesi di laurea, possono essere riassunte in pochi punti fondamentali, in sintonia con gli schemi della tav. 14:
le aggregazioni del modulo di base derivano dalla razionalizzazione più compiuta della composizione generale;
le linee direttrici di questa composizione seguono, alla scala dell’organismo edilizio, le gerarchie di percorsi che regolano l’intero organismo urbano;
l’immagine esterna dell’edificio rispetta tanto la logica interna quanto il suo porsi come massa costruita all’interno di un costruito o costruendo dato.
Regola di buon gusto: è puerile, o peggio, che la o le facciate si propongano come provocazioni, per non si sa cosa, verso non si sa cosa.
Se le tavv. 25 e 26 mostrano soltanto la possibilità di gerarchizzare le facciate in rapporto ad eventuali percorsi circostanti, anch’essi più o meno gerarchizzati, le tavv. 27, 28 e 29 suggeriscono una possibilità in più per il progettista: il riferirsi in una qualche misura al dialogo con la storia. La Storia, lo Spirito, il Genius Loci potrebbero sembrare concetti troppo vaghi per essere trattati con pretese di scientificità nella progettazione, se non fosse che gli studi di Muratori prima, e di Caniggia poi, attraverso l’osservazione filologica e archeologica del palinsesto territoriale, abbiano ricondotto la vaghezza di un’atmosfera a precisi dati di tecnologie, materiali, dimensionamenti, fasi storiche, usi e rapporti sociali.
Per l’esattezza, la tav. 28 riproduce la “Salara Nuova” al Porto Navile di Bologna; la tav. 29 il “Casello” di Aiola (Reggio Emilia).
Anche “poeticamente” parlando, l’architettura storica potrebbe fornire modelli interessantissimi per l’architetto ambizioso ma non banale.
Il rigore della composizione dei due precedenti progetti viene enfatizzato da una variazione volumetrica su casa Medici a Stabio, di Mario Botta (1982). Accanto alla forma semplice, derivata direttamente da quel tipo base che le tavole di “Tipo, progetto, composizione architettonica” ci avevano insegnato a individuare, ogni divagazione formale appare subito per quel che è: “atto gratuito”. Di fronte a se stessa, regolarizzata in senso muratoriano, o villiano, o tipologico, casa Medici diventa francamente ridicola.
Il progetto della tav. 33 affronta comunque un argomento scottante: la legittimità di una residenza unifamiliare in un sistema che vede il territorio come prodotto primo e ultimo della collettività. Ed è la risposta neo-palladiana, neo-illuminista, nella concezione di fondo e non negli arzigogoli, a fornire una risposta educata ma polemica verso il mito della villa singola, vessillo dei maestri del movimento moderno.
Una importante osservazione emerge dalla lettura della tav. 33: il doppio volume della sala centrale, che conferisce al progetto un sapore così palladiano, rapportato alla corona di moduli base che lo circonda, è l’unico esempio di elemento strutturale-distributivo nodale in tutti gli elaborati didattici di Villa.
L’ultimo libro scritto da Villa è “Concetti linguistici & progetto architettonico” dal quale è tratta la tav. 35. Un intero capitolo del libro è dedicato alla ripubblicazione di un concorso per una scuola media nel comune di Bologna, al quale Villa aveva partecipato nel lontano 1966 all’interno di un gruppo universitario coordinato da Giuseppe Gori. È un ritorno, e la qualità grafica della tav. 35 lo dimostra senza esitazioni, all’ambiente culturale che abbiamo documentato con le prime immagini di queste note. L’operazione pone una serie di interrogativi ai quali è impossibile dare risposta. Si tratta in effetti del recupero di una metodologia didattica e progettuale sconfessata da anni. Nostalgia? Volontà di mettere in dubbio anche le acquisizioni della scuola muratoriana? Dalla lettura del libro resta una unica certezza: l’inquieta ricerca del professore non si era accontenta di un approdo che sembrava certo.
Tavv. dalla 36 alla 42.
Avevamo esordito, all’inizio di queste note, individuando il lascito finale di Giorgio Villa nella “necessità di un cambiamento di paradigma nel discorso sull’architettura e sul territorio”, e nella ”urgenza di una nuova narrazione, di una rivisitazione critica e sistematica di tutti gli assiomi e dei dogmi” usati e abusati per descrivere l’architettura.
Villa stesso è, ovviamente, il primo ad applicare questo postulato alla personale didattica, con i risultati fin qui documentati. Le seguenti tavole, sino alla 42, mirano a verificare la possibilità di estendere la sua lezione al di fuori dall’ambito universitario, utilizzando il materiale da lui prodotto per esercitazioni da svolgersi in una scuola media superiore di indirizzo. La diretta filiazione è chiara. Altrettanto chiaro è il confronto che potrebbe essere fatto con i tradizionali metodi di insegnamento dell’architettura, e del disegno architettonico in genere, nei licei artistici, nei vecchi istituti d’arte, e nelle scuole per geometri. Lo schematismo di derivazione muratoriana che ne risulta, se confrontato al libero extempore della consuetudine scolastica, peccherà forse apparentemente di scarsa creatività, ma, come le successive tavole proveranno a dimostrare, solo per trasportare la creatività a un livello superiore, al mondo di quei rapporti strutturali e non casuali che realmente definiscono, secondo noi, la vera qualità urbana.
Tav. 36 è in realtà una mera esercitazione di disegno geometrico, ispirata a Piazza Matteotti a Modena, propedeutica al tipo di esecuzione grafica richiesto dalle successive esperienze progettuali.
Tav. 37: esercizio di ricucitura tipologica, tramite case a schiera, in un isolato prospettante piazza Tasso a Firenze.
Tav. 38: esercizio sulla casa in linea (piazza dei Ciompi a Firenze).
Tav. 39: prospettiva del precedente intervento.
Tav. 40: esercizio sulla edilizia specialistica seriale.
Le tavv. 41 e 42 trattano il tema della residenza unifamiliare. Riferendosi a un ipotetico territorio conosciuto, come sarebbe in questo caso la campagna modenese, e avendo di conseguenza per riferimento le preesistenze sia rurali che nobiliari dello stesso, le differenze dai risultati di Villa (Tav. 33) sono necessariamente più marcate rispetto alle tavole precedenti.
Tav. 41
La Tav. 43 esprime il pensiero più ambizioso delle esercitazioni tenute all’interno del Liceo Artistico. Il tema è piazza Sant’Agostino e Largo Aldo Moro a Modena, dove, alla fine del millennio scorso, fu proposto dall'amministrazione di allora un intervento firmato dall’architetto decostruttivista Frank Owen Gehry. Il tentativo di risolvere le incongruenze architettonico-urbanistiche del nodo urbano utilizzando il linguaggio di Villa e, a ritroso, quello di Muratori, porterebbe a risultati eclatanti, dal punto di vista della qualità civica, ma richiederebbe un impegno progettuale che la “trovata” di un paio di tralicci accostati a una informe torre, in nome di una modernità di maniera, eviterebbe di affrontare, dirottando il discorso su formalismi che nulla hanno a che fare con la città, con la sua storia, con le sue esigenze, anche quelle più contemporanee.
Come si vede dalla tavv. 43 e 44, “Palazzo Europa” è stato sostituito da un edificio in linea rigirante, simile a quello degli schemi precedenti, molto più basso dell’attuale. Se per l’intervento di Gehry si è fatto spreco della parola “coraggio”, noi pensiamo che la stessa parola vada tenuta in serbo per dove di coraggio ce ne vuole davvero, cioè a riconoscere gli scempi urbanistici prodotti e a porvi rimedio.
Per l’esercitazione, in osservanza alle regole di espansione urbana codificate e descritte dalle teorie alle quali ci stiamo riferendo, l’attuale edificio che ospita l’Istituto “F. Corni” è stato rivisto secondo le tre seguenti esigenze, dalla cui sintesi trae origine l’organismo architettonico: uso collettivo, polarità urbanistica, “nodalità” strutturale che ne marca e ne asseconda entrambe le funzioni.
L'esercitazione delle tavv. 43, 44 e 45 potrebbe già rientrare nella voce “restauro del territorio”, proposta a Villa, sotto forma di “utopia”, ai tempi della stesura dell’ultima versione del glossario. Il professore contestò questa forma, sostenendo che se un'operazione è finalizzata al bene comune, il realismo operativo deve sempre prendere il posto di un’utopia, per sua natura rinunciataria.
A maggior titolo vi rientra la tesi di laurea dell’architetto Irene Bandieri, discussa all’università di Ferrara nell’a.a. 2020-21. Il tema del restauro ambientale, scottante alla data della presentazione (27 maggio 2023, pochi giorni dopo l’alluvione della Romagna), esemplifica la più impellente necessità di un cambiamento di registro nel discorso sull’architettura e sul mondo antropizzato. Il fatto che, su un territorio così devastato come è quello dell’Emilia e Romagna, si continui a centrare l’educazione architettonica sul tema archistar sì, archistar no, e nell’educazione scolastica di indirizzo la gestione del suolo suoni come un contenuto estraneo riservato a remoti specialisti, fornisce la più esatta misura sulla necessità di revisione dei contenuti educativi predicati.
Le tavv. 46, 47 e 48 costituiscono forse l’eredità più ambiziosa del lascito di Villa: la riconciliazione con un territorio ferito, la cui piaga, ormai mortale, potrà essere rimarginata solo a patto di non mascherare più i problemi veri dietro fasulli dibattiti pseudo culturali.
Per gli esiti più estremi a cui porta il cambiamento di paradigma, la auspicata nuova narrazione del cosiddetto movimento moderno, più volte richiamato in queste note, e al quale si impronta tutta la necessità di recupero della storia intellettuale di Giorgio Villa, ci riferiremo come esempio alla inflazionata Fallingwater.
La storia della residenza unifamiliare, intesa come tipologia, è una storia tutt’altro che pacificamente accettata e richiederebbe anch’essa, come già si era accennato, una revisione critica. Le case-simbolo dei maestri del movimento moderno (Ville Savoye, villa Tugendhat, casa Baensch, ecc.) sono il prodotto ultimo e più compiuto della volontà borghese-capitalistica di astrarre la forma della propria vita dai rapporti di produzione sui quali si è fondata. Rappresentano, di fatto, il risultato di una vergogna. Le suddette case si situano alla fine di un percorso che, dalla casa extraurbana storica, attraverso la città-giardino e altre forme di ingenue utopie, giunge a scindere l'oggetto architettonico dal substrato che lo ha prodotto. Questo processo è presente anche per la residenza unifamiliare americana, anche se la necessità quasi fisiologica di residenze singole, ne mitiga, per gli Stati Uniti, l’impatto dirompente che la nuova mentalità assume in Europa. Le "Prairie House", quelle vere, erano sempre il frutto del rapporto tra il l’agricoltore-colono e la terra dalla quale traeva sostentamento e reddito. Non è un caso che nella misura in cui il lavoro produttivo veniva affidato a braccianti o schiavi, le "Prairie House” si trasformassero in residenze palladiane. Si dovrà aspettare la fine dello schiavismo, e l’avvento del liberalismo completo, per veder cominciare a sorgere la casa unifamiliare moderna.
In Europa l’imprenditore (industriale, finanziere o commerciante che sia) pretende da subito, non appena la sua classe sociale, e la sua personale posizione, si sia consolidata, una residenza che ne attesti il livello economico raggiunto ma non la causa. Il passaggio da una villa settecentesca ad una ottocentesca avviene all’insegna della improduttività immediata. La democratizzazione delle forme, che tanta apologia legge nel superamento della scatola muraria, nella fluidità degli spazi di un Mies Van der Rohe o nel neoplasticismo di Rietveld, non è altro che il chiamarsi fuori, per il capitalista compiuto, dalle forme della vecchia aristocrazia fondamentalmente agraria e dalla relativa architettura. In ciò il passaggio tra le due diverse concezioni in Europa è più traumatico che negli Stati Uniti.
Il tutto può essere meglio chiarito paragonando una delle suddette ville dei Maestri con una qualunque casa palladiana, la più matura espressione di un sistema edilizio posto al servizio di una produzione agricola. In queste case vediamo innanzi tutto una ferrea rispondenza delle forme architettoniche con le necessità produttive. I volumi, gerarchicamente disposti, assolvono ciascuno con chiarezza il ruolo che gli compete. Deposito del prodotto, rimessa attrezzature, casa “padronale”, cioè centro nevralgico dell’organizzazione (sede del feudatario, ma anche del semplice proprietario agricoltore, o addirittura di un democratico presidente di una partecipanza, o di una cooperativa: il volume della casa “padronale” è tutto fuorché classista o antidemocratico). Sistema tanto perfetto che, mai messo in crisi neppure nell’edilizia rurale “di base”, anche la più povera, conoscerà il massimo successo in epoca illuminista.
Il rapporto della casa palladiana con la natura è di mediazione, si auto-conosce e non teme se stesso. Il rapporto con la natura di Fallingwater, quello tanto celebrato dagli esegeti, è di mistificazione. Non solo Mr. Kaufmann dimentica il lavoro e la fatica sociale ivi impressa, ma se ne smarca accuratamente con un preteso bagno purificatore in una natura che ne è l'opposto. Il fatto poi che per un borghese al culmine della piramide capitalista immergersi nella natura debba essere a sua volta mediato da gettate di cemento, improduttive ma tanto estetizzanti, mette in secondo piano l’esperienza di coinvolgimento panico che, secondo i soliti esegeti, si vive percorrendo il salotto buono di Kaufmann, vedendone gli alberi di là dalle vetrate, e giungendo a lambire le fresche acque scendendo una impalpabile scaletta.
Per l’individuo avulso dalla realtà politica alla quale doveva il suo stesso essere, i greci avevano un nome: idiota. L’idiota è il protagonista postulato da casa Kaufmann e dalle ville americane ed europee di cui Fallingwater è davvero l’esempio più compiuto.
La sensazione raccapricciante che proveremmo, passeggiando per un bosco, a imbatterci in un oggetto simile, è la prova definitiva che alla incrollabile storia del movimento moderno è giunto il momento di dare qualche spallata. Di metterci cioè nello stesso atteggiamento critico verso il passato più recente in cui i protagonisti di allora sono stati davvero inimitabili maestri.
In realtà, in Fallingwater, il rapporto con la natura, che non sia di prevaricazione, non esiste. Esiste la volontà individuale, l’ego astratto che si individua nel capriccio. Dal “mago” Wright descritto da Argan oggi ci aspetteremmo qualcosa di più e di meglio: forse che ci introduca ai segreti del bosco, che ci aiuti a pecepirne i profumi e i suoni. Che ci insegni a preservarlo. O forse ci accontenteremmo di sentirci suggerire che per viverlo al meglio è sufficiente una tenda, da smontare alla fine e portare via, con l’immancabile ammonimento “take home your littering”. In Fallingwater c’è tutta la lezione compositiva che si vuole, e che fior di storici si sono spremuti nel narrare. Ma non c’è la lezione da trasmettere a coloro che verranno, e casa Kaufmann, come casa Baensch, come casa Savoye, è giunto il momento che rimangano lì, messe tra parentesi in uno dei tanti capitoli della storia dell’architettura e dell’umanità, utili fonti di informazione come le piramidi e il colosseo, ma non più utili fonti di legittimità per chi deve progettare pensando all’uomo nuovo, quello che sia auspicabilmente prossimo venturo.
Le tavole dalla 36 alla 45 sono state elaborate all'interno della sezione di Architettura del Liceo Artistico "A. Venturi" di Modena. Vi hanno lavorato i seguenti studenti:
Nathan Ashitey
Elena Berselli
Michela Bertoncelli
Lisa Cavazzuti
Luca Fontana
Matteo Gerbi
Andrea Zanotto
Le tavole dalla 46 alla 48, come specificato nel testo, provengono dalla tesi di laurea discussa a Ferrara dall'architetto Irene Bandieri