domenica 9 maggio 2010

SILVIO LEONE


8 maggio 2010: con il suo spettacolo e con le sue immagini Silvio Leone illumina di poesia la Galleria delle Statue














lunedì 3 maggio 2010

IL CIRCO GRAFICO DI UN PRESTIGIATORE MOLTO SERIO


Domenico Pirondini

Le sue "storie" possono prendere forma sul "Bologna-Modena e ritorno". E’ possibile vederlo, carte e colori, pendolare della ferrovia, fissare il mondo dal finestrino o fissarti negli occhi, tu che gli stai seduto di fronte. Così comincia un fantastico racconto che forse avrà una fine o forse no, si disperderà in altre combinazioni, verso variabili improvvise e imprevedibili.
Un delta, tanti rivoli che portano, nel mare grande dell’essere, gli accumuli ondosi degli sguardi, degli incanti, dei pensieri, dei respiri. Quando il respiro è immaginazione, stupore, altro e altro ancora… E il racconto continua, perché l’artista, come nei versi di Baudelaire, sempre preferisce il viaggio all’arrivo.
Oppure l’incipit lo trova sotto un albero osservando un piccolo ramo quasi secco mosso dal vento. Ha sete, ma la pioggia tarda a venire. E così entrano in scena, sul palcoscenico antropomorfico del nostro narratore, un piccolo, grande e magico campionario di attori: nuvole, uccelli, nidi, fiori, polvere, streghe, maestre, scolari… Un tumulto di emozioni, passioni, brividi, scorre inarrestabile, un fiume in piena scorre nei filamentosi inchiostri dal segno semplice ma elegante, essenziale ma sapiente, xilografico ma elaborato.
Piccolo, grande mondo, quello del banco di scuola, dell’ingenua infanzia, del candido inseguire un sogno ad occhi aperti, d’un lieto fine obbligato. E’ dunque a partire da un particolare insignificante che il "cantastorie" apre le pagine del suo spartito che via via si disvela, dal minimo a comprendere tutto l’universo, un repertorio infinito.
"Signore e signori", declama l’artista-attore, cilindro e naso finto, giocoso e divertente, "seguitemi lungo le strade della vita, con curiosità, e io vi scopro, vi rivelo tutto ciò che fa parte di noi, vi sorprenderò. Questo è il mio modo di esprimere la realtà, dentro e fuori: non so ancora quello che vi dirò, ma aspetto, aspetto un suggerimento, da qualcuno, da me stesso, dalle mie percezioni… ascoltate, ascoltate, seguitemi!".
D’accordo. Per dirla con Dorfles, " non è dal macro ma dal micro che dobbiamo provare, dal nostro modo di porci rispetto alle cose: soltanto muovendo dal piccolo possiamo arrivare a trasformarle e a capirle".
Da un embrione, a quell’insieme di parole e forme che inventano una vicenda. Lo osservavo attentamente, mentre con fare sornione, ci ricostruiva il suo modo di operare. Lo spiegava quasi con circospezione, ma forse no, giorni addietro nella sua casa di Bologna a noi colleghi di scuola che gli chiedavamo di aprire gli armadi. Fogli e fogli gelosamente, segretamente, o forse no, nascosti, protetti, non so, ma impazienti di mettersi in fila, a muoversi. Cassetti straripanti, fogli vocianti che aspettano, la sensazione di un libro intonso che sta per schiudersi, ma non per la prima volta, era già accaduto da qualche parte. Me lo trovo davanti, lui, un po’ incredulo, divagante, diffidente o gigionesco o ipnotico, misterioso e intrigante, occhi che scrutano da lontano.
Silenzio, poi, a me sembrava appena un ruggito, una specie di zampata (tutto teatro, insomma), e la foresta si scuote. Attenti, il leone!
Questo io ho fiutato del leone, di Silvio Leone. Ma quale Leone: il disegnatore, l’illustratore, lo scrittore, il cantore, il pensatore, il creativo, l’insegnante dell’istituto d’arte. Oppure, invece, un solo Leone: lo spirito libero e anticonformista, che ci cattura e ci meraviglia con un occhio diverso sul sensibile, che attraverso le affascinanti e metafisiche affabulazioni ci spinge nella complessità del vivere, con intelligenza mobile, con garbata ironia interrogante, insieme ad un’apertura profonda, non ci sono dubbi, su cui è complice una imprescindibile, insostituibile musa: Bebette, la moglie, ovvero il teatro. Simbioticamente la coppia è collaudatissima, anni di esperienze performative: l’attrice e il pittore, la voce e le mani, il gesto e gli occhi, visibile e invisibile in un dialogo senza tempo che tutto abbraccia e avvolge.
Ma non è certo meno significativo il linguaggio iconico. Con quello verbale mi pare in perfetto equilibrio. Il rapporto impone precisi tempi di lettura, determina il ritmo del viaggio. Le inquadrature sono dinamiche senza perdere in descrizione, i campi sono usati per rappresentare il vicino e il lontano, dall’alto e dal basso.
La tecnica, o meglio, le tecniche, sono raffinate, colte, sempre sorprendenti e diverse per soluzioni strumentali, impaginative, cromatiche e segniche, per una lettura surreale ma reale allo stesso tempo. La vecchia, cara "lanterna magica", momento culminante del suo fare scena, aggiunge quel giro di sequenze lineari, a incastro e alternate che costituiscono la struttura fondamentale del montaggio "fumettistico", del suo codice comunicativo: vi è sempre un’altra verità, nascosta, furtiva, acquattata nelle pieghe delle apparenze.
Guardare tutti, guardare tutto, guardare oltre, guardare là, in fondo.
Silvio mi ha detto che c’era una volta che lui andava allo zoo di Napoli per svago e si fermava con simpatia davanti alla gabbia del leone. Mi è facile capire che dopo un po’ il LEONE sarebbe uscito, scappato.

CINQUE STORIE DA UNA LANTERNA MAGICA

Franca Tosi

Le storie che Silvio Leone magistralmente ci racconta, in immagine e scrittura, stanno in uno spazio simbolico variamente percorso: vi confluiscono correnti sotterranee, proiezioni dell’io, possibilità virtuali, sogni ad occhi chiusi e aperti, stati d’animo, affetti, paure, che da un profondo cuore di tenebra affiorano nella luce, manifestandosi, definendosi; ed anche voci e terra d’infanzia, ricordi, radici; le canzoni, le danze, i travestimenti, la lanterna magica, i trampoli, i giochi di prestigio, i burattini sul sagrato della chiesa, nelle fiere, sulle aie, tradizionali vene d’espressione popolare che artisti di ventura e cantastorie e guitti girovaghi hanno custodito, tramandato e a lui, e a Bebette, consegnato; ed anche spettacoli, di nicchia e di piazza, in cui pensiero, parola ed opera si son fatti testimonianza viva di un’alterità culturale da salvare e proteggere, campioni di un’arte d’improvvisazione che nella strada e nella gente della strada ha la sua cifra ed il suo margine e nell’evento, irripetibile e condiviso, la sua funzione rituale; arte trasversale, che sopravvive al diluvio massmediatico, omologante ed ossequiente, ora dilagante, che tanto della coscienza storica, dell’impegno sociale, dell’onestà intellettuale di più generazioni, ha spazzato e va spazzando via; arte di memoria, di passione, di resistenza.
Vengono, le storie di Silvio Leone, dal luogo indistinto dove l’incanto seduttivo delle favole, raccontato dalle nonne o dai fumetti, si incrocia con l’esercizio di una rigorosa disciplina manuale ed intellettuale e aneddoti ben noti, personaggi tipici, sviluppi narrativi consolidati e consueti, diventano occasione di originalità, dispiegando un apparato epistemologico largo e solido, che si intuisce conquistato con metodo e tenacia, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro; in esso, l’io e il rapporto tra l’io e ciò che è reale e non reale, la fenomenologia degli accadimenti, il loro incessante presentarsi alla coscienza ed incessantemente chiederle adattamenti, ristrutturazioni, innesti e le conseguenti mutazioni dell’io, costituiscono i fondamentali della ricerca; una ricerca tutta disposta, una volta ancora, nell’intreccio tra passato e l’orizzonte del senso della contemporaneità: da un lato, nel dialogo continuo tra saperi ereditati, conservati, amati e saperi nuovi, altrettanto amati, acquisiti direttamente nell’avventura del vivere e del conoscere; dall’altro, nell’inesauribile dialettica di confronto tra ciò che è immediato, particolare, circostanziale dato di esperienza ed una riflessione più estesa, espansa qui ed altrove, che arriva ad una rielaborazione cosmopolita ed astratta. Così, pagine di diario minimo trasmigrano nell’universalità, diventando modelli, paradigmi, parabole.
Si muovono, le storie di Silvio Leone, sulle piste di un immaginario di confine, che rievoca le letture dell’adolescenza, i loro mondi abitati da creature enigmatiche ed affascinanti, spesso ostili, minacciose, selvagge; quegli scenari un pò esotici e un po’ dietro casa, disseminati di curiosità e delizie, ma anche di pericoli e trappole; i loro protagonisti sempre in cammino, impegnati in prove da superare, alle prese con l’ignoto. E, sul confine, l’eroe, timido e intraprendente, spaventato e curioso, raccorda eventi fantastici ed eccezionali con episodi di disarmante problematicità quotidiana, coniuga l’usuale lessico familiare in metafore complesse, quasi oracolari, cambia la paura in gesto apotropaico, in attesa sapiente, in sorriso. Così, il festival della magia, la prodigiosa mano di Silvio Leone, si specchia nel festival della filosofia, il suo pensiero.
Sottoposte ad un’analisi comparativa, le cinque storie qui raccolte presentano elementi comuni.
In tutte, infatti, l’impianto compositivo segue la scansione tradizionale del racconto-fiaba.
Si presenta una situazione iniziale, caratterizzata da ambientazioni vaghe, i giardini pubblici di un paese, la stanza di casa che ospita un vecchio armadio, sentieri tra i campi, una barca sul mare, l’aeroporto di Toronto; collocazioni temporali indefinite, una notte, un giorno, adesso, personaggi poco connotati, il testimone nascosto, il narratore, il marinaio, un tale, le cui azioni sono spesso sostenute da motivazioni casuali più che causali.
Ci si trova a dover affrontare una situazione problematica, o compiere un’impresa più o meno rischiosa per il protagonista, sgradevole, imbarazzante, paralizzante: un enorme e spaventoso volatile sta in attesa nella notte, un narratore si sente in colpa nei confronti di un personaggio dimenticato, un marinaio finisce tra le piovre e non sa come regolarsi, un narratore non riesce a raccontare la storia di un viaggiatore che dovrebbe fare un viaggio ma non lo fa perché il narratore non riesce a raccontarlo, un tale si abbandona alla seduzione dell’acqua e non sa più come cavarsela.
Si arriva al turning point, che viene prodotto da un’azione, o comportamento reattivo, o scelta operativa da parte del protagonista: il testimone abbandona il suo nascondiglio, il narratore cerca di rimediare con scuse e spiegazioni, il marinaio getta l’acqua del secchio sulla piovra, il narratore trae dalla borsa un rotolo di carta non scritta che esplicita lo stato delle cose, il tale prima si abbandona, poi lotta con l’ acqua; e questa svolta permette di superare l’inerzia. Si determina, dunque, una situazione finale risolutiva: il testimone si sistema sulla panchina al posto dell’uccello, il personaggio è perfettamente a suo agio anche senza che il narratore si occupi di lui, la piovra diventa sempre più piccola ed inoffensiva, il narratore dipinge la prima scena della storia, il tale si fonde con la pozza d’acqua che lo assorbe, migliorandola.
Secondo la tradizione del racconto-fiaba, superata la difficoltà, l’ordine è ristabilito e i ruoli sono riconfermati in un finale confortante che ripristina le condizioni dell’inizio. Alcuni elementi, tuttavia, divergono da questo prevedibile impianto classico. Nei protagonisti, travestito in diverse fogge, si ravvisa sempre lo stesso personaggio, impegnato in una serie ininterrotta di avventure; in altre parole, l’artista e il percorso che egli compie nella vita e nella conoscenza. A volte, luoghi (il paese delle piovre, l’armadio in cui vive il personaggio trascurato), tempi (il giornale che racconta ciò che non è ancora avvenuto), accadimenti (il personaggio dimenticato nell’armadio che ha una vita sua, quasi in competizione con il narratore, la pozza d’acqua che “si risente”, “si oppone per ribadire la propria identità”, l’enorme uccello in attesa che qualcuno capiti lì) sono impossibili e spingono verso un mondo che non c’è, onirico, personalissimo.
Le immagini, così sapientemente disegnate, l’orso, l’enorme volatile, l’acqua, il personaggio nell’armadio, la piovra, possono essere interpretate come archetipi e simboli che evocano per tutti situazioni esperienziali e relazionali difficili, paure, minacce, rinunce, barriere, ostacoli ad una libera affermazione ed espressione del sé, ma anche come parti di un codice di riferimento assolutamente individuale e privato, che rivela il rapporto, talvolta tormentato, che lega l’artista alla creazione artistica. In questo senso, esse si presentano in una valenza ambigua, negativa in quanto limite, fatica, selezione, esclusione, eppure positiva se stimolano a ricercare il meglio di sé, per sapersi adeguare a parametri posti da altri e dimostrare a se stessi di essere all’altezza delle richieste. Introducono, quindi, il tema, essenziale, di un imprevisto che attende dietro ogni angolo della via e della vita, incessantemente, necessariamente, chiamando ad esercizi di comprensione e ridefinizione, a pratiche di adattamento e riposizionamento.
Le frequenti metamorfosi a cui assistiamo sono espedienti narrativi che contribuiscono a determinare uno scenario mobile e fluido, fatto di passaggi di stato, possibilità aperte e cambiamenti; accennano ad una sorta di comunicazione tra elementi, di fusione, di empatia, in cui tutto può relazionarsi con tutto. In questo senso si colloca anche la scelta del finale aperto delle storie che restano sospese e ricominciano, secondo una dinamica circolare, proprio là dove il protagonista ha realizzato la sua vittoria, ha guadagnato una diversa posizione che è anche un diverso punto di vista, si è sostituito a qualcun altro, acquisendo nuove conoscenze, preparandosi a nuovi giochi, a nuove sfide.
Se l’orizzonte di senso è l’incessante dialettica del conoscere e del vivere, il gioco è sapersi modificare, travestire, rinnovare, pur rimanendo gli stessi; la sfida, è rendere inoffensivo, addirittura familiare ed alleato, il perturbante e farne, il più possibile, risorsa e ricchezza.
Dunque, la sostanza di cui sono fatte le storie che Silvio Leone racconta è, ancora una volta, venata d’intrecci: lo schema tradizionale del racconto-fiaba si incrocia con irruzioni surrealiste e grottesche, forse mutuate dalla scrittura dell’assurdo e del nonsense; la struttura profonda che in ogni storia ripete la trasposizione del rito iniziatico arcaico, sembra accogliere sollecitazioni di matrice psicoanalitica verso una terapia dell’anima e di riparazione nell’arte; la tensione pedagogica che, lievemente ma costantemente, sottende l’impianto delle storie, si stempera nella pratica di sospensione, pazienza ed autodisciplina che deriva da una lunga dimestichezza con la filosofia zen. E tutto, poi, si colora di un umorismo sornione, filantropico, onnicomprensivo, che ricorda il sorriso lontano ed imperturbabilmente sereno del Budda, ma anche quello, vicino e mariuolo, di Pulcinella.
Perché, in ultima analisi, vita, conoscenza e arte sembrano essere, inevitabilmente, terra di contaminazione. Lì, infine, ci conducono le storie di Silvio Leone, collocandoci al posto dell’enorme volatile che prima ci spaventava, facendoci assumere la multiforme forma dell’acqua, alcune volte vincendo, come con la piovra, altre imparando a perdere, a rassegnarci, a stare nel margine guardando ciò che pensavamo nostro, andarsene per conto suo, malgrado noi; continuando a seguire le tracce dell’orso alla ricerca delle tracce dell’orso, inventandoci un altro scherzo, un’altra imprevista solidarietà; anche noi librandoci in aria, mentre osserviamo volare via, insieme, corvi e spaventapasseri.